Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 9054 Anno 2025
Civile Sent. Sez. L Num. 9054 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 06/04/2025
SENTENZA
sul ricorso 14490-2024 proposto da:
COGNOME, domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI COGNOME, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato presso gli indirizzi PEC degli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME che lo rappresentano e difendono;
– controricorrente –
Oggetto
Licenziamenti dimissioni pubblico impiego
R.G.N.14490/2024
COGNOME
Rep.
Ud. 18/03/2025
PU
avverso la sentenza n. 577/2023 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 21/12/2023 R.G.N. 509/2023; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18/03/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito l’avvocato NOME COGNOME udito l’avvocato NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
NOME COGNOME, dipendente del Comune di Carmagnola, ha agito in giudizio impugnando il licenziamento disciplinare irrogatogli il 1.7.2021 per giusta causa, stante sei assenze ingiustificate (nel periodo compreso tra il 9/9/ e l’8/11/2019) durante l’orario di lavoro e senza timbratura del badge per recarsi in palestra o presso la propria abitazione o quella della di lui madre.
Il Tribunale di Asti ha rigettato il ricorso e il lavoratore ha proposto appello lamentando l’erronea applicazione, da parte del primo giudice, dei criteri di riparto dell’onere probatorio.
La Corte d’appello di Torino ha confermato la decisione del Tribunale osservando che nella specie, contrariamente a quanto sostenuto dall’appellante, in attuazione delle regole sul riparto dell’onere probatorio vigenti in materia di licenziamento, il datore di lavoro aveva provato in giudizio l’addebito, ossia l’assenza dal posto di lavoro in un arco temporale in cui il Chiesa avrebbe dovuto stare in servizio, e ciò anche mediante le annotazioni di polizia giudiziaria che attestavano l’uscita del dipendente -senza timbratura elettronica – per recarsi in palestra o presso la propria abitazione o quella dei genitori.
La Corte torinese ha concluso la sua disamina statuendo che: ‘Non può dirsi, conclusivamente, che la condotta tenuta dall’odierno appellante non fosse meritevole del licenziamento senza preavviso, peraltro espressamente comminato dall’art. 59, comma 9, n. 2 lett. a), CCNL; quand’anche si valorizzi il fatto che si era trattato di assenze non numerose, non foriere di particolare pregiudizio economico e di (relativamente) breve durata, ciò, in ogni caso, non riesce a elidere o, comunque, a ridimensionare apprezzabilmente il consilium fraudis che ne aveva sorretto le modalità di compimento, sì da recidere gravemente il vincolo fiduciario con il datore (specie se ente pubblico) e da impedire la prosecuzione del rapporto lavorativo’.
Contro la sentenza il lavoratore ha proposto ricorso per Cassazione basato su un motivo, cui si oppone il Comune di Carmagnola.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
La Procura generale ha presentato conclusioni scritte chiedendo il rigetto del ricorso e confermando tale richiesta in udienza.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con l’unico motivo si denuncia violazione e/o falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360, 1° comma, n. 3 c.p.c., degli artt. 2697 c.c., 5 l. n. 604/1966, 55 quater l. n. 165/2001 in punto di ripartizione degli oneri probatori nel caso di licenziamento per la falsa attestazione della presenza in servizio di un dipendente pubblico.
Ad avviso del ricorrente la sentenza ha errato nell’applicazione della regola sul riparto dell’onere probatorio, adeguandosi a quanto già statuito, sempre erroneamente, dal giudice di prime cure. Non è stato colto dai giudici d’appello che il riparto degli oneri probatori si atteggia in modo diverso a seconda della tipologia della prestazione lavorativa resa: pertanto, se la prestazione lavorativa si svolge abitualmente fuori
sede, la mera prova dell’uscita del dipendente dai locali dell’Ente non è sufficiente a qualificare come ingiustificata l’assenza, essendo necessario che il datore di lavoro dimostri cosa abbia fatto il lavoratore nel periodo oggetto di contestazione, provando che era impegnato in attività non compatibili con il lavoro o, quantomeno, che non era stato inviato in missione per ragioni di servizio.
Il motivo è inammissibile perché non si confronta col decisum .
2.1 La corte distrettuale, facendo corretta applicazione dei criteri di riparto dell’onere probatorio, ha rilevato (in ossequio ai principi espressi da Cass. n. 24697/2022, Cass. n. 16597/2018, Cass. n. 2988/2011, secondo cui «Il datore di lavoro, su cui a norma dell’art. 5 della l. n. 604 del 1966 grava l’onere della prova della condotta che ha determinato l’irrogazione della sanzione disciplinare, può limitarsi, nel caso in cui l’addebito sia costituito dall’assenza ingiustificata del lavoratore, a provare il fatto nella sua oggettività, mentre grava sul lavoratore l’onere di provare elementi che possano giustificarlo») come fosse rimasto provato non solo che il Chiesa era assente dal posto di lavoro nei giorni de quibus (9.10.2019; 16.10.2019; 17.10.2019; 22.10.2019; 8.11.2019) ma anche che si era allontanato, senza effettuare la ‘bollatura elettronica’, per assolvere (si noti) ad esigenze personali essendosi recato in palestra, nell’abitazione propria o in quella dei genitori – e non già per ragioni servizio, e tanto ha ritenuto comprovato alla stregua delle annotazioni della P.G. che di ciò davano atto nel dettaglio.
2.2 Non viene in questione qui l’applicazione dell’art. 2697 cod. civ., che può assumere rilievo, ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., solo qualora il giudice del merito, a fronte di un quadro probatorio incerto, abbia fondato la soluzione della controversia sul
principio actore non probante reus absolvitur ed abbia errato nella qualificazione del fatto, ritenendolo costitutivo della pretesa mentre, in realtà, lo stesso doveva essere qualificato impeditivo. In tale evenienza, infatti, l’errore condiziona la decisione, poiché fa ricadere le conseguenze pregiudizievoli dell’incertezza probatoria su una parte diversa da quella che era tenuta, secondo lo schema logico regolaeccezione, a provare il fatto incerto.
Diverso è il caso – che viene in considerazione nella specie – che si verifica allorquando il giudice, valutate le risultanze istruttorie, ritenga provata o non provata una determinata circostanza di fatto rilevante ai fini di causa perché in detta ipotesi la doglianza sulla valutazione espressa, in quanto estranea all’interpretazione della norma, va ricondotta al vizio di cui all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. e, quindi, potrebbe essere apprezzata solo nei limiti fissati dalla disposizione tra cui quelli legati alla ‘doppia conforme’ ex art. 348 ter, ultimo comma, cod. proc. civ. -, nel testo applicabile ratione temporis, come interpretata dalla costante giurisprudenza di questa Corte che, a partire da Cass. S.U. n. 8053/2014, ha escluso, peraltro, ogni rilevanza dell’omesso esame di documenti o di risultanze probatorie ove il ‘fatto storico’ sia stato comunque apprezzato e valutato dal giudice del merito.
2.3 Non è parimenti in discussione, nella specie, che mancasse l’autorizzazione del dirigente per assentarsi dal posto di lavoro, sicchè correttamente il collegio di merito ha ritenuto configurata la violazione – qui contestata disciplinarmente – del combinato disposto degli artt. 57 comma 3, lett. e), e 59 comma 9, n. 2, lett. a) del c.c.n.l. di Comparto, che sanziona col licenziamento, (beninteso) nel rispetto dei principi della gradualità e proporzionalità delle sanzioni in relazione alla gravità della mancanza, colui che si ‘assenta dal luogo di lavoro senza
autorizzazione del dirigente’ nelle ipotesi considerate, appunto, nell’art. 55-quater, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 165/2001.
2.4 La corte di merito ha, in particolare, ravvisato nella condotta del Chiesa sicure ‘modalità fraudolente’ ai sensi del comma 1-bis, articolo ultimo cit., come tali atte a trarre in inganno l’amministrazione circa il rispetto dell’orario di lavoro, con conseguente grave lesione del vincolo fiduciario con il datore di lavoro che, specie se pubblico, deve poter fare assegnamento sulla corretta esecuzione delle future prestazioni; donde, per tal guisa, l’impedimento della prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto di lavoro.
2.5 Nel fare tale valutazione, la corte torinese non si è discostata dall’indirizzo di questa Corte la quale ha più volte ribadito che ‘In tema di licenziamento disciplinare (prima e dopo l’introduzione dell’art. 55-quater, comma 1-bis, del d.lgs. n. 165 del 2001), costituisce ipotesi di falsa attestazione della presenza in servizio con modalità fraudolente non soltanto l’alterazione o la manomissione del sistema automatico di rilevazione delle presenze, ma anche la mancata registrazione delle uscite interruttive del servizio, senza che la tipizzazione della sanzione determini alcun automatismo espulsivo, rimanendo affidata al giudice di merito la verifica della proporzionalità e dell’adeguatezza del provvedimento disciplinare’ (Cass., Sez. L, n. 30418 del 2/11/2023; v. altresì Cass., Sez. L, n. 21681 del 20/07/2023 a tenore della quale «in tema di licenziamento disciplinare per assenza ingiustificata di cui all’art. 55-quater lett. a, del d.lgs. n. 165 del 2001, il presupposto del rilievo disciplinare della falsa attestazione della presenza sul luogo di lavoro è costituito da una condotta oggettivamente idonea ad indurre in errore il datore di lavoro, non essendo, invece, necessaria un’attività materiale di
alterazione o manomissione del sistema di rilevamento delle presenze in servizio, sicché anche l’allontanamento dall’ufficio, non accompagnato dalla necessaria timbratura, integra una modalità fraudolenta, diretta a rappresentare una situazione apparente diversa da quella reale»).
Anche la valutazione di proporzionalità e adeguatezza della sanzione espulsiva è stata qui condotta, infine, dal giudice del merito con motivazione congrua e pienamente condivisibile.
Tanto basta (or dunque) per la reiezione del ricorso; le spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte: dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese di legittimità che liquida in €. 5.000,00 per compensi ed €. 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali al 115% ed accessori di legge.
Dichiara che sussistono le condizioni richieste dall’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dalla legge n. 228 del 2012, per affermare l’obbligo del ricorrente di corrispondere un importo pari a quello del contributo unificato versato, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della IV Sezione