Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 31553 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 31553 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 09/12/2024
ORDINANZA
sul ricorso 28356-2020 proposto da:
COGNOME NOMECOGNOME domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato COGNOME
– ricorrente –
contro
ASSESSORATO DEL TERRITORIO E DELL’AMBIENTE DELLA REGIONE SICILIANA, in persona dell’Assessore pro tempore, ISPETTORATO DIPARTIMENTALE DELLE FORESTE DI CATANIA, in persona del legale rappresentante pro tempore, ASSESSORATO DELL’AGRICOLTURA, DELLO SVILUPPO RURALE E DELLA PESCA
Oggetto
Altre ipotesi pubblico impiego
R.G.N. 28356/2020
COGNOME
Rep.
Ud. 21/11/2024
CC
RAGIONE_SOCIALE DELLA REGIONE SICILIANA, in persona dell’Assessore pro tempore, rappresentati e difesi ope legis dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domiciliano in ROMA, alla INDIRIZZO
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 167/2020 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 05/03/2020 R.G.N. 646/2017; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
21/11/2024 dal Consigliere Dott. COGNOME
RILEVATO CHE:
con sentenza del 5/3/2020 la Corte d’appello di Catania rigettava il gravame avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva respinto le domande proposte da NOME COGNOME, operaio addetto al pronto intervento boschivo assunto reiteratamente a tempo determinato, a partire dal 1990, dalla regione Sicilia, ritenendo preclusa la conversione del rapporto alla luce della disciplina vigente, con conseguente infondatezza delle domande risarcitorie nonché di quella volta al pagamento degli scatti di anzianità, non potendo configurarsi discriminazione rispetto agli impiegati, categoria di lavoratori non comparabile;
la Corte territoriale rilevava che la regola del pubblico concorso ostava alla conversione in rapporto a tempo indeterminato, per il divieto di cui all’art. 36 comma 5 d.lgs. n. 165 del 2001 che operava anche per i ‘forestali’ , come affermato dal primo giudice, che aveva fatto riferimento alla legge n. 205/1962, richiamata dalla legge
regionale n. 20/1972, poi sostituita dalla legge reg. Sicilia n. 66/1981, con argomentazione non espressamente censurata dall’appellante;
quanto alla domanda di risarcimento del danno c.d. comunitario, da abusiva reiterazione dei contratti a tempo determinato, essa non era stata formulata in primo grado, sicché era da intendersi vietata ex art. 437 cod. proc. civ.; mentre la pretesa di riconoscimento degli scatti di anzianità previsti per gli impiegati a tempo indeterminato non poteva poggiare sul principio di non discriminazione, trattandosi di categorie quella degli impiegati e degli operai – ‘ontologicamente distinte’, i primi essendo ad detti a mansioni d’ordine e di concetto, i secondi a incombenze manuali ed esecutive;
NOME COGNOME ha proposto ricorso per la cassazione il lavoratore, articolato in quattro motivi di censura, cui le Amministrazioni in epigrafe si sono opposte con controricorso.
CONSIDERATO CHE:
1. con il primo mezzo si deduce violazione dell’art. 1 , commi 1-2, del d.lgs. n. 368/2001 per avere la Corte territoriale omesso di disapplicare l’art. 36 co mma 7 del d.lgs. n. 165/2001, per sua incompatibilità con la direttiva 1999/70/CE, e di conseguentemente dichiarare, pur a fronte del superamento del limite di durata dei 36 mesi dei contratti a termine, la conversione del rapporto in rapporto a tempo indeterminato;
1.1 il motivo è infondato;
avuto riguardo alla dedotta violazione dell’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001 che in tutte le formulazioni dispone il divieto di conversione, si è affermato da tempo che nel pubblico impiego privatizzato alla violazione di disposizioni imperative che riguardino l’assunzione, sia a seguito di pubblico concorso sia attingendo alle liste di collocamento, non può mai far seguito la costituzione di un rapporto di pubblico impiego a tempo
indeterminato (tra le tante, Cass. n. 37736/2022); la ratio del citato art. 36, comma 5, non risiede esclusivamente nel rispetto delle regole del pubblico concorso, ma anche, più in generale, nel rispetto del principio cardine del buon andamento della P.A., che sarebbe pregiudicato qualora si addivenisse all’immissione in ruolo senza alcuna valutazione dei fabbisogni di personale e senza seguire le linee di programmazione nelle assunzioni che sono indispensabili per garantire efficienza ed economicità dell’amministrazione pubblica ( ex plurimis , cfr. la recente Cass. n. 22458/2021);
insomma, si è a più riprese sottolineato come il fondamento del divieto di conversione si rinviene, per un verso, nel principio del pubblico concorso e, per altro verso, nel rispetto delle regole ancor più generali di garanzia di prevedibilità ed uniformità nelle assunzioni tutte da parte delle pubbliche amministrazioni, quand’anche esse avvengano senza concorso, attraverso i centri per l’impiego, in armonia ed in osservanza con le regole costituzionali di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione e di rispetto delle esigenze di contenimento, controllo e razionalizzazione della spesa pubblica (vedi a riguardo Cass. n. 24806/2015);
deve quindi ribadirsi, sulla scorta di quanto innanzi, che la regola del divieto di conversione non soffre alcuna eccezione, applicandosi anche nelle ipotesi in cui per l’assunzione non sia prevista una procedura concorsuale (in senso conforme, o tre alla già citata Cass. n. 22458/2021, si vedano anche Cass. n. 8671/2019, Cass. n. 6097/2020, Cass. n. 11537/2020 e Cass. n. 25223/2020);
nel dettaglio, nelle indicate pronunzie si è evidenziato che nel pubblico impiego contrattualizzato anche per i rapporti di lavoro a termine delle P.P.A.A. mediante avviamento degli iscritti al
collocamento ai sensi dell’art. 35, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 165 del 2001, si applica l’art. 36, comma 5, del medesimo decreto e, quindi, il divieto di trasformazione in rapporto a tempo indeterminato, in caso di abusiva reiterazione, poiché anche in detto ambito vanno salvaguardati quei medesimi principi di buon andamento, imparzialità, ed efficienza dell’amministrazione che sottendono anche la regola del pubblico concorso; l’affermata impossibilità di costituzione di rapporti di pubblico impiego a tempo indeterminato in conseguenza della illegittima reiterazione dei contratti a termine non si pone in contrasto, invero, nemmeno con la normativa dell’Unione europea; ci si pone qui in linea di armonica valorizzazione dei principi enunziati dalle Sezioni Unite in Cass. n. 5072 del 2016, dalla Corte costituzionale nella pronunzia n. 89/2003 e nella più recente n. 248/2018, dalla Corte di Giustizia in sentenza C-53/04 in causa Marrosu e Sardino del 2006 e in C- 494 in causa Santoro del 2016, pronunzie tutte che ben consentono di escludere qualsivoglia profilo di contrasto con le norme costituzionali e con il diritto dell’Unione; si è, infatti, ribadita sia l’impossibilità di conversione per tutto il settore pubblico, sia la costante interpretazione della clausola 5 dell’Accordo quadro allegato alla direttiva 1999/70/CE, che non osta ad una normativa nazionale che vieta la trasformazione del rapporto, purché sia prevista, com’è nella specie con il rimedio risarcitorio, altra misura adeguata ed effettiva, finalizzata ad evitare, e se del caso a sanzionare, il ricorso abusivo alla reiterazione dei contratti a termine»;
con secondo motivo si lamenta «l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia», per avere la Corte catanese omesso di motivare in ordine alla richiesta, formulata dal Laenza, di accertare se vi fosse stata da parte
dell’amministrazione una ‘ reazione ‘ sufficiente e adeguata a reprimere l’abuso del contratto a termine;
2.1 il motivo è inammissibile;
quanto al vizio motivazionale, occorre rilevare che a seguito della riformulazione dell’art. 360 n. 5 cod. proc. civ. ad opera del d.l. n. 83/2012, applicabile alla fattispecie ratione temporis , è denunciabile nel giudizio di legittimità solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attiene all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; tale anomalia si esaurisce nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, sicché resta ormai esclusa qualunque rilevanza della mera insufficienza della motivazione;
in relazione all’apprezzamento delle risultanze processuali , rileva solo l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti, oltre ad avere carattere decisivo; l’omesso esam e di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie e neppure il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito dà luogo ad un vizio rilevante nel giudizio di legittimità (si rimanda alla motivazione
di Cass. S.U. n. 34476/2019 che richiama Cass. S.U. n. 8053/2014, Cass.
S.U. n. 9558/2018 e Cass. S.U. n. 33679/2018);
nella fattispecie, pertanto, si rivela chiaramente inammissibile la censura ricondotta al vizio motivazionale, perché la Corte territoriale ha dato conto delle ragioni del rigetto della domanda ed ha esaminato i fatti storici rilevanti ai fini di causa;
col terzo motivo si censura la violazione ed errata applicazione dell’art. 6 d.lgs. n. 368/2001, per avere la Corte distrettuale negato esistesse una discriminazione quanto agli scatti di anzianità tra impiegati e operai, non avvedendosi che essi sono erogati sulla base della semplice anzianità di servizio e debbono perciò essere previsti in modo paritario per tutti i dipendenti, ancorché precari, della stessa amministrazione, operai o impiegati che siano;
3.1 il motivo è inammissibile;
l’art. 6 d.lgs. cit. richiamato, nel testo ratione temporis vigente, così recita: «Al prestatore di lavoro con contratto a tempo determinato spettano le ferie e la gratifica natalizia o la tredicesima mensilità, il trattamento di fine rapporto e ogni altro trattamento in atto nell’impresa per i lavoratori con contratto a tempo indeterminato comparabili, intendendosi per tali quelli inquadrati nello stesso livello in forza dei criteri di classificazione stabiliti dalla contrattazione collettiva, ed in proporzione al periodo lavorativo prestato sempre che non sia obiettivamente incompatibile con la natura del contratto a termine»;
il giudice d’appello, in armonia col dictum di prime cure, ha ritenuto, sulla scorta della suddetta disposizione, non configurabile «una discriminazione in difetto di situazioni identiche o quanto meno assimilabili e/o comparabili, il che è escluso con riferimento alle categorie di dipendenti ontologicamente distinte quali gli operai e gli impiegati»;
ebbene, a fronte di ciò, il motivo di ricorso non contiene una censura specifica di tale passaggio motivazionale, in violazione dell’onere di specificità dei motivi, sancito dall’art. 366, comma 1, n. 4), cod. proc. civ., che impone al ricorrente che denunci il vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ., a pena d’inammissibilità della censura, non solo «di indicare le norme di legge di cui intende lamentare la violazione», ma anche «di esaminarne il contenuto precettivo e di raffrontarlo con le affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata, che è tenuto espressamente a richiamare, al fine di dimostrare che queste ultime contrastano col precetto normativo» (cfr. Cass. Sez. Un., sent. 28 ottobre 2020, n. 23745);
la pronuncia impugnata è, peraltro, in parte qua, esente da censure, in quanto si conforma alla giurisprudenza costituzionale (Corte cost. sent. n. 171/1982) secondo cui «il giudizio di uguaglianza postula pur sempre che sussista omogeneità tra le situazioni messe a confronto con la conseguenza che esso non può essere invocato quando le stesse siano intrinsecamente eterogenee ovvero quando, pur originando da presupposti comuni, differiscano comunque tra di loro per aspetti distintivi particolari» (cfr. Corte Cost., sent. n. 111/1981; cui adde Cass. n. 26911/2024);
4. col quarto, ed ultimo, motivo si deduce violazione dell’art. 92 cod. proc. civ.; il ricorso introduttivo, secondo il ricorrente, andava accolto col favore delle spese e, in ogni caso, anche se la decisione del giudice d’appello fosse stata in ipotesi corretta, sussistevano tutte le condizioni (qualità delle parti, complessità della questione giuridica, mancanza di indirizzo giurisprudenziale univoco) per procedere alla compensazione delle spese di lite;
4.1 il motivo è inammissibile;
in tema di responsabilità delle parti per le spese di giudizio (Capo IV del Titolo III del Libro Primo del codice di rito), si rammenta che la denuncia di violazione della norma di cui all’art. 91, comma 1, cod. proc. civ., in questa sede di legittimità trova ingresso solo quando le spese siano poste a carico della parte integralmente vittoriosa (ex multis: Cass. n. 18128 del 2020 e Cass. n. 26912 del 2020) e che la compensazione delle spese processuali, di cui all’art. 92 cod. proc. civ., costituisce eserc izio di un potere discrezionale del giudice di merito (v., per tutte, Cass. SS. UU. n. 20598 del 2008), il quale non è tenuto a dare ragione, con espressa motivazione, del mancato uso di tale sua facoltà (Cass. n. 36668 del 2022; Cass. n. 34427 del 2021; cfr. altresì Cass., Sez. U., 15 luglio 2005, n. 14989);
conclusivamente, il ricorso va rigettato;
le spese di legittimità, liquidate in dispositivo, sono poste a carico del ricorrente che è parte soccombente, evidenziandosi, a riguardo, che il deposito del controricorso non può nella specie dirsi tardivo stante la nullità della notifica del ricorso per cassazione siccome eseguita, in data 23 ottobre 2020, nei soli confronti dell’Avvocatura distrettuale di Catania e non dell’Avvocatura generale dello Stato.
P.Q.M.
La Corte: rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di legittimità che liquida in €. 3.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a
quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione