Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 27735 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 27735 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 17/10/2025
ORDINANZA
sul ricorso 13459-2020 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOME, COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME
Oggetto
Disdetta contratti collettivi aziendali
R.G.N.13459/2020 R.G.N.21268/2020
COGNOME.
Rep.
Ud 09/09/2025
CC
COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME, COGNOME NOME, tutti rappresentati e difesi dagli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME;
– controricorrenti –
nonché contro
COGNOME NOME;
– intimato –
sul ricorso 21268-2020 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente principale –
contro
COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOME, COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOMENOME COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME, COGNOME NOME, tutti rappresentati e difesi dagli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME;
– controricorrenti – ricorrenti incidentali –
nonché contro
RAGIONE_SOCIALE;
– ricorrente principale – controricorrente incidentale nonché contro
COGNOME NOME, COGNOME NOME;
– intimati –
avverso la sentenza n. 466/2019 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 11/11/2019 R.G.N. 227/2019; avverso la sentenza n. 524/2019 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 24/12/2019 R.G.N. 381/2018; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 09/09/2025 dalla Consigliera NOME COGNOME.
Fatti di causa
Proc. R.G. n. 13459/2020
La Corte d’Appello di Genova (sentenza n. 466/2019) ha accolto in parte l’appello principale dei lavoratori NOME COGNOME ed altri e, in riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato il diritto di coloro che avevano lavorato su turni di 39 ore settimanali di ricevere la retribuzione ordinaria per tre ore in più alla settimana rispetto a quanto percepito per i turni di 36 ore settimanali.
1.1. La Corte territoriale ha preliminarmente respinto l’eccezione di litispendenza, riproposta dalla società con appello incidentale, osservando come la separata controversia, promossa dai medesimi lavoratori, avesse ad oggetto l’illegittimità della disde tta degli accordi aziendali che prevedevano condizioni di miglior favore per i dipendenti, mentre la presente controversia comprende anche la illegittimità del successivo accordo aziendale del 23.2.2015, che ha elevato a 39 ore l’orario di lavoro settimana le senza alcun aumento retributivo.
1.2. Nel merito, ha premesso che i lavoratori dipendenti della RAGIONE_SOCIALE osservavano un orario di 36 ore settimanali previsto dagli accordi aziendali del 1983, confermati da successivi accordi del 1992 e del 1994; che questi accordi aziendali erano stati disdettati dalla società la quale aveva raggiunto con le organizzazioni sindacali un nuovo accordo del 23.2.2015, in forza del quale l’orario di lavoro era stato elevato a 39 ore settimanali, senza aumento di retribuzione. Ha ritenuto che così come erano legittimi gli accordi aziendali di riduzione dell’orario di lavoro, allo stesso modo fosse legittimo l’accordo del 23.2.2015 che aumentava detto orario; che legittimamente la società, a decorrere dall’entrata in vigore del c.c.n.l. del 2015, aveva predisposto turni di 39 ore settimanali che i dipendenti erano tenuti ad osservare. Ha, tuttavia, giudicato illegittimo, perché contrario al principio di intangibilità della retribuzione, che l’aumento dell’orario di lavoro non fosse stato accompagnato da un aumento proporzionale della retribuzione. Ha quindi riconosciuto il diritto dei lavoratori, a fronte dell’orario di lavoro di 39 ore settimanali, ad essere retribuiti per le ulteriori tre ore settimanali di lavoro ‘senza alcuna maggiorazione trattando si di lavoro ordinario’.
Avverso la sentenza la RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi. I lavoratori di cui in epigrafe hanno resistito con controricorso. NOME COGNOME non ha svolto difese. La società ha comunicato memoria.
Proc. R.G. n. 21268/2020
La Corte d’Appello di Genova (sentenza n. 524/2019), in parziale riforma della sentenza di primo grado, dichiarata cessata la materia del contendere tra la RAGIONE_SOCIALE e alcuni lavoratori, ha condannato la società a corrispondere ai restant i appellati, senza soluzione di continuità, l’indennità di
turno e l’indennità di agente unico previste dai previgenti accordi aziendali ed inoltre a corrispondere, a decorrere dall’accordo del 23.2.2015, gli altri emolumenti previsti da tale accordo, nella misura ivi contemplata.
3.1. La Corte territoriale, per quanto ancora rileva, ha affrontato la questione della legittimità della revoca unilaterale, effettuata dalla società datoriale a far data dal 4.8.2014, di pregressi accordi aziendali, privi di termine di scadenza, e con i quali erano state riconosciute in favore dei dipendenti una serie di voci retributive aggiuntive. Ha premesso che la revoca unilaterale degli accordi aziendali privi di termine di durata può dirsi legittima a condizione che siano tutelati i diritti quesiti dei lavoratori, il minimo costituzionale di cui all’art. 36 Cost. e il principio di buona fede nell’esecuzione del rapporto. Ha accertato che nel caso di specie la revoca degli accordi aziendali non aveva comportato alcuna violazione dei diritti quesiti dei lavoratori e neanche della retribuzione adeguata, oggetto di tutela ai sensi dell’art. 36 Cost.
3.2. Ha giudicato pacifica l’esistenza di difficoltà economiche che hanno indotto la società, allo scopo di salvaguardare i posti di lavoro, a disdettare la contrattazione aziendale, fonte di emolumenti aggiuntivi, ed a fare ricorso alla cassa integrazione e alla procedura di licenziamento collettivo. Ha, tuttavia, accertato che la RAGIONE_SOCIALE, dopo la disdetta degli accordi aziendali dal 4.8.2014, ha sottoscritto con le principali organizzazioni sindacali (RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE) una ipotesi di accordo, in data 23.2.2015, impegnandosi a reintrodurre il 25% della contrattazione di secondo livello, con parziale revoca della disdetta, a far data dall’1.3.2015 ed a ripristinare la restante parte della contrattazione aziendale a partire dall’1. 8.2015, nonché a introdurre premi aziendali
connessi alla vendita di biglietti a bordo e ad erogare alcuni ticket. L’accordo è stato definitivamente sottoscritto dalle organizzazioni sindacali (fatta eccezione per la RAGIONE_SOCIALE). In virtù dell’accordo del 23.2.2015, la società ha riconosciuto le voci retributive ripristinate solo in favore dei lavoratori che hanno dichiarato di aderire al nuovo accordo, rinunciando a rivendicare emolumenti superiori, mentre non le ha riconosciute agli odierni appellati.
3.3. La Corte d’appello ha ritenuto che la revoca della contrattazione aziendale e la connessa soppressione degli emolumenti aggiuntivi ivi previsti potesse dirsi ‘giustificata solo se si ha riguardo al primo periodo della vicenda in esame, durante il quale poteva essere necessitata alla luce delle difficoltà in cui versava l’azienda’; che, tuttavia, ‘esaminando la vicenda nel suo complesso (compresa dunque la successiva reintroduzione selettiva di detti emolumenti), doveva escludersi che la condotta aziendale (fosse) conforme al principio di buona fede, giacché la società ha reintrodotto, a distanza di pochi mesi, gli emolumenti in questione (almeno in una certa percentuale e decorrenza) richiedendo però, quale condizione per il riconoscimento degli stessi, che i lavoratori rinunciassero a far valere le loro rivendicazioni’ (sentenza, p. 33). Ha quindi giudicato contraria a buona fede la condotta datoriale tradottasi, in virtù dell’accordo del 23.2.2015, nella reintroduzione degli emolumenti aggiuntivi in favore solo di alcuni lavoratori ed ha statuito che detto accordo doveva avere applicazione generalizzata a tutti i dipendenti.
La sentenza impugnata ha esaminato partitamente l’indennità di turno, prevista dall’accordo aziendale del 20.12.1994 a fronte della facoltà datoriale di aumentare l’orario di lavoro (da sei ore) a sei ore e venti minuti giornalieri, ed ha
appurato che la società ha continuato a versare la stessa, così mostrando di non volerla sopprimere. Ha quindi riconosciuto il diritto dei dipendenti di continuare a riceverla.
4.1. Ha accertato che l’indennità di agente unico, introdotta dall’accordo aziendale del 29.11.1983 e volta a compensare l’attività di vendita e verifica dei biglietti a bordo, era riconosciuta dalla contrattazione nazionale e, come tale, non poteva essere soppressa dalla datrice di lavoro. Ha considerato non ostativa al riconoscimento di tale indennità la circostanza che le attività di vendita e verifica dei biglietti a bordo rientrassero nelle mansioni di operatore di esercizio e neppure le manifestazioni di protesta poste in essere dai lavoratori e consistite nella sospensione della vendita dei biglietti a bordo.
Avverso la sentenza la RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi. I lavoratori elencati in epigrafe hanno resistito con controricorso e proposto ricorso incidentale con un unico motivo. NOME COGNOME non ha svolto difese. La società ha comunicato memoria.
Il Collegio ha disposto la riunione, al procedimento R.G. n. 13459/2020, del procedimento R.G. n. 21268/2020, per connessione soggettiva e parzialmente oggettiva.
Si è riservato di depositare l’ordinanza nei successivi sessanta giorni, ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c., come modificato dal d.lgs. n. 149 del 2022.
Ragioni della decisione
Motivi di ricorso proc. n. 13459/2020
Con il primo motivo del ricorso è dedotto l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c., concernente l’introduzione dell’orario di lavoro di 39 ore settimanali.
A parere della ricorrente, la Corte d’appello ha errato nel ritenere che l’aumento dell’orario di lavoro da 36 a 39 ore settimanali fosse avvenuto in esecuzione dell’accordo aziendale del 23.2.2015, mentre esso era conseguenza dell’applicazione del contrat to collettivo nazionale del 2000. L’accordo del 23.2.2015, che conteneva una parziale revoca della disdetta della precedente contrattazione aziendale e il progressivo ripristino di tale contrattazione, non era applicabile ai lavoratori attuali controricorrenti poiché non era soddisfatta la condizione prevista dall’art. 13, che subordinava la validità ed efficacia dell’accordo medesimo alla rinuncia da parte dei lavoratori ai ricorsi nel frattempo proposti. L’orario di 39 ore era, invece, ai medesimi applicato per effetto del contratto collettivo nazionale. Lo stesso art. 7 dell’accordo aziendale del 23.2.2015 stabiliva che ‘In attuazione dell’art. 6 CCNL 27.11.2000 e, in generale, delle disposizioni della contrattazione collettiva nazionale, la durata settim anale dell’orario di lavoro per il personale viaggiante viene fissata in 39 ore medie settimanali’.
Quanto alle differenze retributive, la società argomenta di avere sempre pagato ai dipendenti la retribuzione prevista dal contratto nazionale (commisurata dal medesimo alle 39 ore settimanali) per una prestazione di lavoro ridotta a 36 ore settimanali in virtù degli accordi aziendali del 1983 e del 1994 e sostiene che la Corte d’appello avrebbe dovuto considerare tale retribuzione adeguata alle 39 ore effettuate a partire dall’aprile 2015.
Con il secondo motivo è dedotta la violazione o falsa applicazione degli artt. 2013, 2077 c.c. e degli artt. 36 Cost.,
2697 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.
La società ribadisce che l’orario di lavoro applicabile ai lavoratori controricorrenti era quello di 39 ore settimanali previsto dal
contratto nazionale, poiché la disdetta degli accordi aziendali sulle 36 ore risultava efficace nei loro confronti, essendo essi estranei alla sfera di applicazione dell’accordo del 23.2.2015 per effetto della clausola n. 13 dello stesso. Sostiene che nei confronti dei controricorrenti non poteva trovare applicazione l’art. 27 del c.c.n.l. 28.11.2015, che presupponeva la persistente applicazione ai dipendenti di un regime orario inferiore a quello nazionale. Critica il riferimento fatto dai giudici di appello al principio di irriducibilità della retribuzione ed assume che tale principio non opera in relazione ai casi di successione dei contratti collettivi o di disdetta del contratto collettivo, come avvenuto nel caso in esame; il principio di irriducibilità della retribuzione è, secondo la tesi datoriale, inconferente per ritenere non corretto l’aumento dell’orario di lavoro non accompagnato da un aumento proporzionale della retribuzione ordinaria. Sottolinea come i lavoratori non avessero allegato alcuna concreta lesione del cd. minimo costituzionale in conseguenza dell’aumento dell’orario di lavoro. Censura la decisione d’appello per avere considerato non sufficiente la retribuzione corrisposta ai lavoratori per le 39 ore di lavoro, in luogo delle 36 ore, nonostante detta retribuzione fosse stata fissata dal c.c.n.l. autoferrotranvieri a fronte dell’orario normale di 39 ore settimanali.
Con il terzo motivo è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e degli artt. 2 e 111 Cost., in riferimento al proposto appello incidentale.
La ricorrente premette che nel separato procedimento i lavoratori hanno proposto domanda di accertamento della illegittimità della disdetta della contrattazione aziendale, prevedente tra l’altro l’orario di 36 ore settimanali, e il ripristino
di detta contrattazione, con condanna della società al pagamento delle differenze retributive; che anche nella presente controversia, i crediti vantati dai lavoratori sono fondati sul fatto costitutivo rappresentato dalla illegittimità della disdetta. Assume che la controparte non ha mai allegato né comprovato l’esistenza di un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata e che, al contrario, è evidente il rischio di contrasto di giudicati in relazione ai due procedimenti pendenti. Sostiene che la Corte d’appello ha erroneamente ricondotto l’aumento dell’orario di lavoro da 36 a 39 ore settimanali all’accordo aziendale del 23.2.2015, anziché alle previsioni del c.c.n.l. (applicabile a seguito della disdetta della contrattazione di secondo livello) e che, a causa di tale errore, ha respinto l’appello incidentale della società vertente sulla violazione del principio di infrazionabilità del credito piuttosto che sulla litispendenza
Ricorso principale della RAGIONE_SOCIALE proc. n. 21268/2020
Con il primo motivo è dedotto l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., in relazione al diritto dei lavoratori di percepire l’indennità di turno.
La ricorrente assume che l’indennità di turno, sempre erogata ai dipendenti, era quella prevista dal contratto nazionale, esattamente dall’A.N. 21.5.1981, punto 5, lett. a), come modificato dal c.c.n.l. 17.6.1982, punto 2, lett. a), di importo pari a euro 0,52 giornaliere. Cosa diversa è l’indennità di turno prevista dall’accordo aziendale del 20.12.1994 e legata alla possibilità di incremento dell’orario da 6 ore giornaliere a 6 ore e 20 minuti, accordo quest’ultimo mai applicato dalla società. La società allega che, nel corso del giudizio di primo grado, nelle repliche alla memoria di controparte depositate il 2.5.2016
(trascritte a p. 11 del ricorso per cassazione), nel termine concesso con verbale d’udienza del 13.4.2016, aveva illustrato che l’indennità di turno prevista dall’A.N. 21.5.1981 ‘non è stata toccata dalla disdetta aziendale e continua ad essere erogata, ov e spettante per lo svolgimento di turni avvicendati’ e che la stessa non ha nulla a che vedere con l’indennità aziendale; analoghe precisazioni erano state svolte dal c.t.p. nelle osservazioni alla bozza di c.t.u. (trascritte alle pp. 13 e 14 del ricorso per cassazione) e dalla difesa nel ricorso in appello (p. 78). Richiama la sentenza della Corte d’appello di Genova n. 466/2019, pronunciata tra le stesse parti in separato procedimento, e sottolinea come col ricorso in appello ivi proposto il personale viaggiante aveva chiesto la condanna della società a ripristinare l’orario di 36 ore settimanali applicato fino al 4.8.2014, in base agli accordi aziendali da tale data disdettati, il che confermerebbe la mancata applicazione prima dell’agosto 2014 del maggio re orario a cui era collegata l’indennità in parola.
5. Con il secondo motivo è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., la violazione o falsa applicazione dell’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c., dell’art. 48A c.c.n.l. 23.7.1976, dell’art. 2, lett. B del c.c.n.l. 27.11.2000, dell’all. 6 A.N. 26.4. 2013, dell’art. 36 c.c.n.l. 28.11.2015, in combinato disposto con gli artt. 1362 e 1363 cc., in ordine al riconosciuta spettanza dell’indennità di agente unico.
La società allega che, già nella memoria di costituzione in primo grado (pp. 66-71) e poi nel ricorso in appello (nota 14, p. 81), aveva segnalato come l’affermazione dei lavoratori, secondo cui l’indennità di agente unico aveva titolo nella contrattazione collettiva nazionale, era generica e del tutto indimostrata; che solo nelle note del 22.4.2016 la controparte aveva indicato
quale fonte della citata indennità il c.c.n.l. del 1986, aggiungendo che la stessa voce era stata mantenuta dal c.c.n.l. del 2015, alla p. 257; che nelle proprie repliche, la società aveva sottolineato l’inesistenza di un contratto nazionale del 1986, neppure allegato in atti, e prospettato come il riferimento potesse intendersi fatto al c.c.n.l. 23.7.1976 (depositato dalla società); che, tuttavia, l’art. 48A di tale contratto rimette alle aziende la scelta se introdurre il sistema di bigliettazione ad agente unico ma non prevede alcun corrispettivo economico a favore dei lavoratori. La RAGIONE_SOCIALE ribadisce che l’indennità aveva origine nella contrattazione aziendale (art. 8, lett. B dell’accordo aziendale del 29.11.1983) e che è stata corrisposta fino al momento di disdetta di tale contrattazione, cioè fino al 4.8.2014. Assume che la mancata individuazione della fonte collettiva nazionale posta nella sentenza alla base del riconoscimento del diritto alla indennità di agente unico integri una violazion e dell’art. 132 n. 4 c.p.c., risolvendosi nella mancata esposizione delle ragioni di diritto della decisione. In subordine, per l’ipotesi in cui la sentenza impugnata si reputasse fare implicito riferimento all’art. 48A del c.c.n.l. 23.7.1976, la ricorrent e denuncia la violazione dell’art. 1362 c.c. per interpretazione contraria alla lettera della disposizione, la quale non prevede alcun compenso economico per lo svolgimento, da parte degli autisti, del lavoro di bigliettaio. Denuncia, inoltre, la violazione degli artt. 1362 e 1363 c.c., per avere la Corte omesso di interpretare il citato art. 48A alla luce dell’art. 58 del medesimo contratto che ne regola la decorrenza e durata. Premesso che non era onere della società dimostrare la persistente vigenza della citata norma contrattuale, la stessa sottolinea di avere evidenziato, nella memoria costitutiva di primo grado (trascritta a p. 23 del ricorso), nelle osservazioni
alla bozza di c.t.u. e poi nel ricorso in appello, come l’art. 48A fosse stato di fatto superato dal c.c.n.l. 27.11.2000, il cui art. 2, lett. A, ha delineato il profilo di operatore di esercizio (prima denominato conducente di linea) come comprensivo dell ‘attività di vendita e di verifica dei titoli di viaggio, con la conseguenza che detta attività doveva considerarsi compensata dalla retribuzione prevista per il citato profilo professionale, a prescindere da specifiche indennità; conclusione che trova con ferma nell’all. 6 dell’A.N. 26.4.2013. La Corte d’appello, a parere della ricorrente, avrebbe dovuto valorizzare il dato della corresponsione della indennità di agente unico fino alla disdetta del 2014, poiché evidentemente ritenuta avente fonte nell’accor do aziendale del 29.11.1983 e impermeabile alle dinamiche del contratto nazionale.
Con il terzo motivo la società deduce l’erronea verifica dell’adempimento dell’obbligo di buona fede in correlazione all’accordo aziendale del 23.2.2015 piuttosto che alla disdetta del 16.5.2014/4.8.2014; inoltre, la violazione o falsa applicazione dell ‘art. 1375 c.c. in combinato disposto con l’art. 1373 c.c., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.
A parere della società, la Corte di merito avrebbe falsamente applicato gli artt. 1375 e 1373 c.c., per avere esteso la verifica del rispetto del principio di buona fede oltre il momento della disdetta, giungendo ad imporre l’applicazione generalizzata dell’accordo del 23.2.2015 a tutto il personale, sul presupposto che non fosse conforme a buona fede l’asserita reintroduzione degli emolumenti già disdettati solo in favore di una parte dei lavoratori. Non solo, la falsa applicazione degli artt. 1375 e 1373 c.c., per effetto della valutazione ex post, non si è tradotta nell’illegittimità della disdetta ma nell’obbligo di applicazione generalizzata dell’accordo aziendale del 23.2.2015.
Con il quarto motivo si denuncia vizio di ultrapetizione per avere la sentenza impugnata pronunciato la condanna all’applicazione generalizzata dell’accordo del 23.2.2015; violazione o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360, c omma 1, n. 3 c.p.c.
La società allega che l’accordo del 23.2.2015 non era oggetto della domanda formulata dai lavoratori con il ricorso di primo grado, anche perché quest’ultimo era antecedente all’accordo medesimo, depositato dalla società con la memoria di costituzione dinanzi al tribunale. Non solo, ma i lavoratori controricorrenti, anche negli atti di causa, avevano ripetutamente osteggiato l’accordo del 23.2.2015, che implicava un trattamento normativo ed economico deteriore rispetto a quello goduto prima della disdetta; avevano motivato la scelta di non aderire allo stesso ed avevano unicamente rivendicato il ripristino del trattamento anteriore alla disdetta degli accordi aziendali. La Corte d’appello, nel condannare la società all’applicazione generalizzata dell’accordo del 23.2.2015, ha adottato un provvedimento diverso da quello richiesto dai lavoratori e dai medesimi espressamente avversato.
Con il quinto motivo di ricorso si imputa alla sentenza d’appello, in via subordinata, la violazione degli artt. 1362, 1363, 1366, 1375 c.c. e dell’art. 1419 c.c., in ordine all’interpretazione ed applicazione dell’accordo del 23.2.2015, ai sensi dell’a rt. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.
La ricorrente sostiene che la Corte d’appello ha sminuito la valenza dell’accordo del 23.2.2015 col quale, in realtà, è stato sì concordato un graduale ripristino della contrattazione di secondo livello vigente ante disdetta, ma solo per le parti non contrastanti con le nuove pattuizioni ivi contenute. Precisa che nelle premesse dell’accordo era chiarito che il graduale ripristino
del trattamento ante disdetta era stato possibile grazie ai risparmi di costi conseguenti ai sopravvenuti pensionamenti; che all’epoca la società, convenuta da numerosi dipendenti in diversi procedimenti (elencati a p. 45 del ricorso), aveva interesse ad una soluzione conciliativa che consentisse l’applicazione di un trattamento unitario e, specificamente, aveva interesse al ripristino della contrattazione collettiva oggetto di disdetta (sia pure innovata da nuovi istituti e modifiche) a fronte della rinuncia dei lavoratori ai giudizi in corso; per tale ragione l’accordo del 23.2.2015 non era stato applicato ai controricorrenti, sebbene fosse stata loro offerta ripetutamente la possibilità di aderirvi. La società censura la decisione d’appello per avere sancito l’applicazione generalizzata di detto accordo senza prima verificare se fosse legittima la disapplicazione dell’art. 13, che ne subordinava l’efficacia alla rinuncia dei lavoratori ai giudizi in corso, e se tale disposizione non fosse determinante, ai fini dell’art. 1419 c.c., sì da provocare la caducazione dell’intero contratto. Considera inconferente l’applicazione del principio di buona fede.
Si esaminano, anzitutto e in modo congiunto, il terzo, il quarto ed il quinto motivo del ricorso principale del proc. n. 21268/2020, logicamente prioritari. Essi sono fondati e ciò determina l’assorbimento dei restanti motivi.
Questa Corte di legittimità, con orientamento costante, ha affermato che il contratto collettivo, senza predeterminazione di un termine di efficacia, non può vincolare per sempre tutte le parti contraenti, perché finirebbe in tal caso per vanificarsi la causa e la funzione sociale della contrattazione collettiva, la cui disciplina, da sempre modellata su termini temporali non eccessivamente dilatati, deve parametrarsi su una realtà socio economica in continua evoluzione, sicché a tale contrattazione
va estesa la regola, di generale applicazione nei negozi privati, secondo cui il recesso unilaterale rappresenta una causa estintiva ordinaria di qualsiasi rapporto di durata a tempo indeterminato. Tale giurisprudenza non ha mancato di sottolineare che tutto ciò deve avvenire nel rispetto dei criteri di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto e senza che, in caso di disdetta dello stesso, vengano lesi i diritti intangibili dei lavoratori, derivanti dalla pregressa disciplina più favorevole, entrati in via definitiva nel patrimonio dei lavoratori medesimi (Cass. n. 19351 del 2007; n. 18548 del 2009; n. 24533 del 2013; n. 24268 del 2013; n. 23105 del 2019). Sotto altro profilo si è aggiunto che la disdetta unilaterale del datore di lavoro di un accordo aziendale a tempo indeterminato è legittima ove non ne derivi la lesione della retribuzione adeguata ex art. 36 Costituzione; pertanto, nell’ipotesi in cui il lavoratore si dolga dell’abolizione di una voce retributiva per effetto della disdetta dell’accordo contrattuale che la prevedeva, e pretenda il suo ripristino, invocando la lesione dell’art. 36 Cost., non può limitarsi a dedurre la natura retributiva dell’emolumento soppresso, ma deve allegare la lesione del “minimo costituzionale” e fornire al giudice gli elementi comparativi della situazione retributiva prima e dopo la modifica, al fine di consentire il giudizio sul rispetto del principio costituzionale (Cass. n. 8429 del 2001).
11. La Corte d’appello ha appurato che la disdetta unilaterale, da parte della società, degli accordi aziendali non avesse travolto diritti quesiti dei lavoratori né pregiudicato l’adeguatezza della retribuzione ai medesimi versata. Ha, invece, giudicato la disdetta non conforme a buona fede sulla base della complessiva condotta datoriale e, specificamente, in ragione della ‘successiva reintroduzione selettiva degli
emolumenti’ già oggetto della contrattazione aziendale disdettata.
12. Tuttavia, tenuto conto della circostanza che la revoca, parziale e progressiva, della disdetta dei contratti aziendali è avvenuta non su iniziativa unilaterale della società ma all’esito di un confronto e di un accordo concluso con le principali organi zzazioni sindacali (RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE; l’accordo non è stato sottoscritto dalla RAGIONE_SOCIALE), di cui dà atto la stessa sentenza d’appello (p. 32), appare falsamente applicato il principio di buona fede di cui all’art. 1375 c.c. La decision e impugnata fa derivare la illegittimità della disdetta, risalente all’agosto 2014, dalla successiva condotta datoriale tradottasi nell’accordo sindacale del 23.2.2015, senza considerare l’intervallo temporale intercorso e quanto nel frattempo accaduto (v. le premesse dell’accordo del 23.2.2015 riassunte a p. 45 del ricorso per cassazione), ma facendo leva unicamente sul dato della reintroduzione degli emolumenti aggiuntivi in favore di alcuni lavoratori e non di tutti i dipendenti. Questo dato, frutto dell ‘incontro di volontà della parte datoriale e delle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, tradottosi nella clausola di cui all’art. 13 dell’accordo medesimo, è assunto come significativo della contrarietà a buona fede non dell’accor do del 2015, bensì della disdetta a monte della contrattazione aziendale, senza che sia neppure ipotizzata una qualche preordinazione datoriale, risalente all’epoca della disdetta, volta a provocare un trattamento differenziato ai danni dei lavoratori non disposti a rinunciare alle pretese avanzate in sede giudiziaria. Da ciò discende il vizio di sussunzione della condotta datoriale nello spettro della contrarietà al canone di buona fede nell’esecuzione del contratto.
13. La sentenza impugnata è, inoltre, nulla per vizio di ultrapetizione avendo disposto, quale conseguenza della contrarietà a buona fede della complessiva condotta datoriale, l’applicazione generalizzata dell’accordo del 23.2.2015, non richiesta dai lavoratori attuali controricorrenti. La domanda dai medesimi formulata, come riassunta nella sentenza d’appello (pp. 3-4), era limitata alla declaratoria di illegittimità della revoca unilaterale degli accordi aziendali attuata dalla società con effetto dal 4.8.2014 e alla condanna della medesima a pagare agli emolumenti previsti da detti accordi. L’applicazione generalizzata dell’accordo del 23.2.2015 è stata sancita non solo a prescindere da una domanda in tal senso dei lavoratori ma anche a prescindere da qualsiasi valutazione, incidenter tantum, sulla legittimità della clausola di cui all’art. 13 dell’accordo medesimo e sulla operatività o meno della stessa nei confronti degli attuali controricorrenti.
14. Per le ragioni finora esposte, vanno accolti i motivi terzo, quanto e quinto del ricorso oggetto del proc. n. 21268/2020, il che comporta l’assorbimento dei primi due motivi di detto ricorso. Devono ritenersi assorbiti anche i motivi del ricorso di cui al proc. n. 13459/2020 i quali presuppongono tutti logicamente la soluzione della questione preliminare relativa alla legittimità o meno della disdetta unilaterale della contrattazione aziendale. È pacifico, infatti, che tale disdetta abbia provocato il v enir meno dell’orario di 36 ore settimanali e il ripristino della regolazione di cui al contratto collettivo nazionale che prevedeva un orario settimanale di 39 ore. Ciò si ricava, tra l’altro, dall’art. 7 dell’accordo aziendale del 23.2.2015 secondo cui: ‘In attuazione dell’art. 6 CCNL 27.11.2000 e, in generale, delle disposizioni della contrattazione collettiva nazionale, la durata settimanale dell’orario di lavoro per il
personale viaggiante viene fissata in 39 ore medie settimanali’ (v. p. 14 del ricorso per cassazione nel proc. n. 13459/2020; v. anche art. 7 cit. trascritto a p. 43 del ricorso nel proc. n. 21268/2020).
Ricorso incidentale dei lavoratori nel proc. n. 21268/2020
15. Con l’unico motivo di ricorso è dedotta la violazione o falsa applicazione dell’art. 1373 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., per avere la Corte d’appello escluso che la revoca unilaterale della contrattazione aziendale avesse violato diritti quesiti dei lavoratori.
I ricorrenti qualificano come diritto quesito il corrispettivo delle mansioni ordinarie (di autisti -agente unico) che essi hanno sempre svolto, fin dall’assunzione, e che continuano a svolgere e per le quali hanno sempre ricevuto (oltre alla paga base) una serie di emolumenti (quali aumento mensile, indennità agente unico, indennità di presenza, indennità giornaliera, indennità vendita biglietti a bordo) divenuti parte integrante della retribuzione (adeguata) e come tali non revocabili o riducibili da parte datoriale.
16. Il motivo non è fondato.
A riguardo occorre premettere che, secondo l’orientamento del giudice di legittimità, nell’ambito del rapporto di lavoro sono configurabili diritti quesiti, che non possono essere incisi dalla contrattazione collettiva in mancanza di uno specifico mandato o di una successiva ratifica da parte dei singoli lavoratori, solo con riferimento a situazioni che siano entrate a far parte del patrimonio del lavoratore subordinato, come nel caso dei corrispettivi di prestazioni già rese, e non invece in presenza di quelle situazioni future o in via di consolidamento, che sono frequenti nel contratto di lavoro, da cui scaturisce un rapporto di durata con prestazioni ad esecuzione periodica o continuativa,
autonome tra loro e suscettibili come tali di essere differentemente regolate in caso di successione di contratti collettivi (Cass. n. 14944 del 2014; Cass. n 20838 del 2009). Pertanto, gli unici diritti intangibili sono quelli che sono già entrati a far parte del patrimonio del lavoratore, quale corrispettivo di una prestazione già resa o di una fase del rapporto già eseguita, situazioni queste non configurabili in relazione alla pretesa azionata dagli odierni ricorrenti incidentali, espressione di una mera aspettativa al mantenimento nel tempo della più favorevole normativa collettiva (v. Cass. n. 23105 del 2019).
17. Per le ragioni esposte vanno accolti il terzo, il quarto e il quinto motivo del ricorso principale del proc. n. 21268/2020, dichiarati assorbiti i residui motivi di detto ricorso e di quello n. 13459/2020 e va respinto il ricorso incidentale. La sentenza deve essere cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Corte d’appello di Genova, in diversa composizione, che provvederà ad un nuovo esame della fattispecie per statuire sulla legittimità o meno della disdetta unilaterale degli accordi aziendali, potendo valutare a tal fine la condotta successiva della società datoriale solo nei limiti in cui la stessa sia ritenuta in grado di rifluire sulla disdetta, sì da far emergere la contrarietà a buona fede al momento in cui la disdetta stessa è stata posta in essere. La Corte di rinvio si occuperà, inoltre, di regolare le spese del giudizio di legittimità.
18. Il rigetto del ricorso incidentale costituisce presupposto processuale per il raddoppio del contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 (v. Cass., Sez. U., n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
La Corte, riunito al presente procedimento quello n. 21268/2020, accoglie il terzo, il quarto e il quinto motivo del ricorso principale del proc. n. 21268/2020, dichiara assorbiti i residui motivi di detto ricorso e di quello n. 13459/2020, rigetta il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione ai moti vi accolti e rinvia alla Corte d’appello di Genova, in diversa composizione, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte dei ricorrenti incidentali dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso incidentale a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso nell’adunanza camerale del 9 settembre 2025
La Presidente
NOME COGNOME