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Diritto alla riassunzione: no, non è automatico

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 26332/2024, ha stabilito un principio fondamentale in materia di pubblico impiego. Il caso riguardava alcuni ex dipendenti comunali, transitati a una società di gestione rifiuti, che chiedevano di tornare alle dipendenze del Comune. La Suprema Corte ha chiarito che il cosiddetto diritto alla riassunzione, previsto da una legge regionale, non è un obbligo per l’ente. Si tratta di una facoltà per il lavoratore di presentare domanda, ma la decisione finale spetta all’amministrazione, che deve agire con discrezionalità valutando le proprie esigenze organizzative e di bilancio. La sentenza impugnata è stata quindi annullata e le domande dei lavoratori respinte.

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Pubblicato il 22 dicembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Diritto alla riassunzione: non è un automatismo per i dipendenti pubblici

Il diritto alla riassunzione per un dipendente pubblico che è transitato in una società esterna non è automatico. A stabilirlo è la Corte di Cassazione con una recente ordinanza, che ribadisce un orientamento ormai consolidato. La decisione di riammettere in servizio un ex dipendente rientra nella piena discrezionalità dell’ente pubblico, che deve bilanciare la richiesta del lavoratore con le proprie esigenze organizzative e di bilancio. Analizziamo insieme questa importante pronuncia.

I Fatti di Causa

La vicenda trae origine dalla richiesta di un gruppo di operatori ecologici, originariamente dipendenti di un Comune siciliano. Questi lavoratori erano stati trasferiti alle dipendenze di una società d’ambito territoriale ottimale (ATO), creata per la gestione integrata dei rifiuti. Successivamente, in virtù di una legge della Regione Sicilia (la n. 9 del 2010), che prevedeva la possibilità per il personale transitato di “tornare ai comuni di appartenenza”, i lavoratori avevano chiesto di essere riassunti dal Comune.

Sia il Tribunale di primo grado che la Corte d’Appello avevano dato ragione ai lavoratori, condannando il Comune alla riassunzione. Secondo i giudici di merito, questo diritto era condizionato unicamente al rispetto dei limiti di spesa per il personale imposti dalla legge nazionale. Il Comune, non condividendo questa interpretazione, ha presentato ricorso in Cassazione.

La Decisione della Cassazione

La Suprema Corte ha accolto il ricorso del Comune, ribaltando completamente l’esito dei precedenti gradi di giudizio. I giudici di legittimità hanno annullato la sentenza d’appello e, decidendo direttamente la causa nel merito, hanno respinto le domande originarie dei lavoratori.

Il punto centrale della decisione è l’interpretazione della norma regionale. La Corte ha chiarito che l’espressione “può a richiesta tornare” non istituisce un obbligo per l’amministrazione, ma semplicemente una facoltà per il lavoratore di presentare una domanda.

Le motivazioni e il diritto alla riassunzione

La Corte di Cassazione ha spiegato che il diritto alla riassunzione in questo contesto non può essere qualificato come un “diritto potestativo”, ovvero un diritto che il titolare può esercitare in modo unilaterale. Al contrario, la richiesta del lavoratore è solo il presupposto per l’avvio di un procedimento che culmina in una decisione discrezionale dell’ente.

L’amministrazione pubblica, in base all’articolo 97 della Costituzione, deve sempre agire secondo i principi di buon andamento e imparzialità, che si traducono in criteri di efficienza, efficacia ed economicità. Pertanto, prima di procedere a una riassunzione, deve valutare una serie di fattori, tra cui:

* La reale disponibilità di un posto vacante nella sua dotazione organica.
* La compatibilità della spesa con i vincoli di bilancio.
* Le priorità e le esigenze organizzative interne.

Interpretare la norma come un obbligo di riassunzione, secondo la Corte, sarebbe in contrasto con questi principi fondamentali, perché costringerebbe l’ente a un’assunzione anche quando non necessaria o non sostenibile. La disponibilità di un posto in organico non significa che l’ente sia obbligato a coprirlo.

Le conclusioni

La sentenza consolida un principio cruciale per la gestione del personale nelle pubbliche amministrazioni. Il passaggio di dipendenti a società esterne, anche nell’ambito di processi di esternalizzazione di servizi, non genera un automatico diritto al “rientro”. La richiesta del lavoratore è legittima, ma l’ente locale mantiene la piena autonomia decisionale. Questa autonomia è essenziale per garantire una gestione delle risorse umane che sia razionale, efficiente e in linea con l’interesse pubblico e i vincoli di finanza pubblica. Per i lavoratori, ciò significa che la possibilità di tornare al precedente impiego pubblico è subordinata a una valutazione positiva da parte dell’ente, che non può essere data per scontata.

Un dipendente pubblico trasferito a una società esterna ha sempre diritto a essere riassunto dal suo ente di origine?
No. Secondo la Cassazione, la legge può prevedere la facoltà di richiederlo, ma non crea un obbligo per l’ente pubblico. La decisione di riassumere è discrezionale e deve basarsi su una valutazione delle esigenze dell’ente.

Quali fattori deve considerare un ente pubblico prima di riassumere un ex dipendente?
L’ente deve valutare la disponibilità del posto in organico, la compatibilità con i limiti di bilancio e di spesa per il personale, e i principi generali di efficienza e buona amministrazione sanciti dall’art. 97 della Costituzione.

Il diritto alla riassunzione previsto da una legge regionale è un diritto assoluto?
No, non è un diritto soggettivo perfetto né un diritto potestativo. Si tratta di una mera possibilità che il lavoratore può far valere con una domanda, ma l’ente ha la piena autonomia di decidere se accoglierla o meno in base alle proprie valutazioni discrezionali.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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