Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 31003 Anno 2024
Civile Sent. Sez. L Num. 31003 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore:
Data pubblicazione: 04/12/2024
SENTENZA
sul ricorso n. 3898/2023 proposto da:
NOME COGNOME rappresentato e difeso dall’Avv. NOME COGNOME presso il quale è domiciliato in Roma, INDIRIZZO
–
ricorrente –
contro
Comune di Lecce, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall’Avv. NOME COGNOME ed elettivamente domiciliato in Roma, INDIRIZZO presso l’Avv. NOME COGNOME;
-controricorrente-
nonché
Ministero dell’Interno;
-resistente –
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO DI LECCE n. 844/2022 del 27 settembre 2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 05/11/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
udite le conclusioni del P.M. in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
NOME COGNOME iscritto all’albo nazionale dei Segretari comunali e idoneo alla titolarità di Comuni di classe 1°A, legato da rapporto di servizio con il Ministero dell’Interno e organico con il Comune di Lecce, presso il quale operava come Segretario generale, ha proposto ricorso davanti al Tribunale di Lecce e ha dedotto che:
esercitava, tra le altre funzioni, anche quella di ufficiale rogante dei contratti dell’Ente in forma pubblica;
fino al 24 giugno 2014 aveva percepito i diritti di segreteria;
tali emolumenti erano il corrispettivo di una specifica prestazione lavorativa, eccedente rispetto alle attribuzioni di lavoro dei dipendenti pubblici;
il diritto all’erogazione di tale emolumento era stato soppresso dall’art. 10 d.l. n. 90 del 2014, modificato dalla legge di conversione n. 114 del 2014 e il Comune di Lecce, pertanto, aveva cessato di corrispondergli detti importi.
Il ricorrente ha domandato, quindi, l’accertamento del suo diritto a percepire dal Comune di Lecce la quota parte dei diritti di segreteria per gli atti da lui rogati nella misura prevista dall’art. 37 CCNL 16 maggio 2001, da computare ai fini del calcolo della retribuzione di risultato.
Il Tribunale di Lecce, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 2441/2018, ha rigettato il ricorso.
NOME COGNOME ha proposto appello.
Le Amministrazioni convenute si sono costituite e il Ministero dell’Interno ha proposto appello incidentale.
La Corte d’appello di Lecce, con sentenza n. 844/2022, ha rigettato l’appello principale e quello incidentale.
NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi.
Il Comune di Lecce si è difeso con controricorso.
Il Ministero dell’Interno ha depositato memoria di costituzione .
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione dell’art. 112 c.p.c. in quanto la corte territoriale non avrebbe valutato la questione di legittimità costituzionale da lui proposta.
La doglianza è inammissibile per plurime ragioni.
Innanzitutto, la Suprema Corte ha chiarito che la questione di legittimità costituzionale di una norma, in quanto strumentale rispetto alla domanda che implichi l’applicazione della norma medesima, non può costituire oggetto di un’autonoma istanza rispetto alla quale, in difetto di esame, sia configur abile un vizio di omessa pronuncia, ovvero (nel caso di censure concernenti le argomentazioni svolte dal giudice di merito) un vizio di motivazione, denunciabile con il ricorso per cassazione, giacché la relativa questione è deducibile e rilevabile nei successivi stati e gradi del giudizio, ove rilevante ai fini della decisione (Cass., Sez. L, n. 8777 del 10 aprile 2018).
Inoltre, si osserva che la corte territoriale ha dato atto delle questioni proposte e le ha esaminate ai punti da 4 a 6 della sentenza.
Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 97 e 107 TUEL e degli artt. da 93 a 102 del R.D. n. 827/24 nel loro richiamo agli artt. 4760 della legge n. 89 del 1913 in quanto la corte territoriale avrebbe errato nel
considerare infondata la questione da lui posta in ordine alla disparità di trattamento che la disposizione contestata avrebbe determinato all’interno della categoria dei segretari di prima fascia, atteso che molti di questi avrebbero servizio in Comuni di entità demografica rilevante e conservato una retribuzione di posizione pari a quella dei dirigenti sia nel periodo presso l’AGES sia in seguito alla loro assunzione in servizio presso Comuni privi di dirigenti.
Con il terzo motivo contesta la violazione degli artt. 3 e 36 Cost, atteso che la corte territoriale non avrebbe tenuto conto che l’attività di rogito sarebbe stata ulteriore rispetto alle mansioni proprie del segretario comunale.
Con il quarto motivo si duole della violazione dell’art. 2, comma 3, d.lgs. n. 165 del 2001 in quanto la norma in questione si porrebbe in contrasto con l’art. 39 Cost., atteso che il citato d.lgs. avrebbe riservato alla contrattazione collettiva l’attribuzione di trattamenti economici ai dipendenti pu bblici, con salvezza degli interventi legislativi contrari con effetto, però, dall’entrata in vigore di un nuovo contratto collettivo.
Le censure, che possono essere trattate congiuntamente, stante la stretta connessione, sono infondate.
A prescindere dall’eventuale inammissibilità di motivi che, nella sostanza, consistono nella richiesta alla Corte di cassazione di sollevare delle questioni di legittimità costituzionale (Cass., Sez. 1, n. 14666 del 9 luglio 2020), si evidenzia che la Corte costituzionale, con sentenza n. 200 del 2023, ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 2 bis, anche in combinato disposto con il comma 1, del d.l. n. 90 del 2014 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza degli uffici giudiziari), conv., con modif., dalla legge n. 114 del 2014 sollevate, in riferimento agli artt. 3, 36, 77 e 97 della Costituzione, dal Tribunale di Siena e, con riguardo altresì ai principi di certezza del diritto e di legittimo affidamento, dal Tribunale di Lucca.
Si tratta di una decisione che, per le ragioni che la sottendono, non può non condurre a un rigetto dei motivi menzionati.
La Corte costituzionale è partita da una disamina dell’evoluzione legislativa e giurisprudenziale che ha portato all’assetto normativo vigente.
Ha chiarito che i diritti di segreteria sono prestazioni pecuniarie dovute alla pubblica amministrazione dai destinatari di alcune attività da questa compiute nello svolgimento delle sue funzioni di diritto pubblico e hanno natura di tributi.
Tra tali proventi figurano i diritti di rogito, i quali sono versati dalla controparte contrattuale all’ente pubblico, a titolo di spesa, per la ricezione in forma pubblica amministrativa dei contratti in cui lo stesso ente sia parte o per l’autenticazione degli atti unilaterali ai quali esso sia comunque interessato.
Nell’ordinamento degli enti locali, per lungo tempo una quota di tali entrate è stata destinata ai segretari comunali e provinciali, come compenso aggiuntivo per lo svolgimento dell’attività di rogito agli stessi specificamente affidata dalla legge.
Evidenzia la Corte costituzionale che la funzione rogante dei segretari comunali e provinciali aveva origini remote, rinvenendosene traccia già nel regio decreto n. 2321 del 1865 (con il quale è stato approvato il Regolamento per l’esecuzione della Legge sull’amministrazione comunale e provinciale), e nel regio decreto n. 371 del 1929 (Norme integrative ed esecutive del R. decretolegge 17 agosto 1928, n. 1953, sullo stato giuridico ed economico dei segretari comunali), successivamente confluito nel testo unico della legge comunale e provinciale approvato con il r.d. n. 383 del 1934.
L’art. 87, comma 1 , di quest’ultimo provvedimento normativo prevedeva che « contratti di comuni riguardanti alienazioni, locazioni, acquisti, somministrazioni od appalti di opere devono di regola essere preceduti da pubblici incanti con le forme stabilite pei contratti d ello Stato», mentre l’art. 89 disponeva che « segretari comunali possono rogare nell’esclusivo interesse dell’amministrazione comunale gli atti e contratti di cui all’art. 87».
In base a tale disciplina, l’ente locale non era tenuto ad avvalersi del segretario comunale quale ufficiale rogante, ben potendo affidare la stipula dei propri atti ad un notaio.
Per converso, il carattere obbligatorio dello svolgimento dell’attività di rogito da parte del segretario che ne fosse stato richiesto trovava fondamento nel
rapporto di servizio da questo intrattenuto con l’amministrazione (Consiglio di Stato, sezione quarta, decisione 13 febbraio 1989, n. 79; Tribunale amministrativo per il Lazio, sezione prima, sentenza 8 aprile 1981, n. 324, TAR Molise, sentenza 13 maggio 1980, n. 85).
In seguito, l’art. 17, comma 68, lettera b ), della legge n. 127 del 1997 (Misure urgenti per lo snellimento dell’attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo) aveva ampliato l’ambito della funzione rogante dei segretari, estendendola a tutti i contratti in cui l’ente era parte e aggiungendovi la competenza ad autenticare le firme delle scritture private.
La previsione in esame era , poi, confluita nell’art. 97, comma 4, lettera c), del d.lgs. n. 267 del 2000 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), il quale, nella versione originaria, disponeva che il segretario «può rogare, su richiesta dell’ente, i contratti nei quali l’ente è parte e autenticare scritture private ed atti unilaterali ne ll’interesse dell’ente».
Il testo di tale disposizione era stato, infine, riformulato dall’art. 10, comma 2quater , del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, nei seguenti termini: « roga, su richiesta dell’ente, tutti i contratti nei quali l’ente è parte e autentica scritture private ed atti unilaterali nell’interesse dell’ente».
Come evidenziato dalla Corte costituzionale, anche la remunerazione della funzione rogante tramite una quota dei diritti di segreteria trovava la sua origine nella cornice dell’unificazione amministrativa del Regno d’Italia attuata dalla legge n. 2248 del 1865, il cui regolamento di esecuzione, approvato con il r.d. n. 2321 del 1865, sopra richiamato, nella Tabella n. 3, riportava l’elenco descrittivo delle tasse e degli emolumenti che i segretari comunali erano autorizzati ad esigere, «per proprio conto», per la spedizione di una serie di atti come i manifesti, gli incanti e le aggiudicazioni relativi ai contratti di locazione, di vendita di tagli di boschi, di appalto e alle concessioni.
Da allora si erano susseguiti diversi interventi legislativi che avevano dapprima variamente modulato l’entità del compenso in esame, per poi sopprimerlo, successivamente ripristinarlo e, quindi, eliminarlo nuovamente, sia pure in parte, con la normativa qui in questione.
Tra le fonti che hanno contribuito all’evoluzione normativa dell’istituto, la Corte costituzionale ha ricordato il r.d. n. 371 del 1929, il quale, agli artt. 111 e 115 e alla Tabella A, stabiliva che i diritti di segreteria fossero ripartiti tra il comune e il segretario: i segretari di livello più elevato partecipavano in misura variabile dal trenta al quaranta per cento, mentre i segretari di livello inferiore percepivano i proventi in una percentuale compresa tra il sessantacinque e l’ottanta per cento. Era, inoltre, previsto che la quota di spettanza del segretario non potesse comunque eccedere la metà dell’ammontare annuo dello stipendio, esclusa qualsiasi indennità.
Successivamente, l’art. 205 del r.d. n. 383 del 1934, al comma 2, aveva disposto che i diritti di segreteria dovessero essere ripartiti in conformità all’allegata Tabella D, la quale ne suddivideva il provento tra il comune e il segretario, secondo quote modulate in base al grado del medesimo funzionario. Il terzo comma precisava, in ogni caso, che la parte dei diritti di segreteria spettante al segretario non potesse eccedere la metà dell’ammontare annuo dello stipendio, esclusa, dal relativo computo, qualsiasi indennità accessoria.
In seguito, l’art. 40, comma 3, della legge n. 604 del 1962 (Modificazioni allo stato giuridico e all’ordinamento della carriera dei segretari comunali e provinciali), rinviando alla annessa Tabella E, aveva previsto un aumento della percentuale dei diritti di rogito per il segretario comunale proporzionale al livello della sua qualifica, mentre, per i segretari provinciali, ne aveva confermato la suddivisione con la provincia in ragione del cinquanta per cento.
Inoltre, il comma 4 della disposizione citata aveva fissato un limite annuale massimo che, nell’ultima versione, come introdotta dal d.P.R. n. 749 del 1965 (Conglobamento dell’assegno mensile e competenze analoghe negli stipendi, paghe e retribuzioni del personale statale, in applicazione dell’art. 3 della L. 5 dicembre 1964, n. 1268), era stato commisurato «al 22 per cento dello stipendio e al 35 per cento degli assegni per carichi di famiglia percepiti dai segretari stessi».
L’art. 27, comma 5, del d.P.R. n. 749 del 1972 (Nuovo ordinamento dei segretari comunali e provinciali) aveva disposto, poi, la eliminazione dei diritti di rogito per i segretari di livello più elevato.
Lo stesso provvedimento normativo, peraltro, all’art. 25, comma 5, aveva riconosciuto ai segretari in questione lo stipendio dei dirigenti delle amministrazioni statali, così disponendo: «i segretari comunali generali di 1a A, 1a B e di 2a classe ed ai segretari provinciali è esteso, con le medesime decorrenze ed agli stessi effetti, se condo l’equiparazione risultante dalla annessa tabella D, il trattamento economico previsto dal decreto del Presidente della Repubblica concernente la ‘disciplina delle funzioni dirigenziali delle Amministrazioni dello Stato’ emanato in attuazione della de lega di cui agli artt. 16 e 16bis della legge 18 marzo 1968, n. 249, nel testo sostituito dall’art. 12 della legge 28 ottobre 1970, n. 775».
Di lì a poco, l’art. 30, comma 2, della legge n. 734 del 1973 (Concessione di un assegno perequativo ai dipendenti civili dello Stato e soppressione di indennità particolari) aveva eliminato anche l’assegnazione di una quota dei diritti di segreteria in favore dei segretari comunali di qualifica non dirigenziale.
La stessa novella aveva riportato i diritti in questione tra gli enti locali e il Ministero dell’interno, attribuendo agli uni la percentuale unica del settanta per cento e all’altro quella del trenta per cento, allo specifico fine di alimentare il fondo per la formazione dei segretari co munali, istituito dall’art. 42 della legge n. 604 del 1962.
A fronte della definitiva soppressione della partecipazione ai diritti di rogito, l’art. 29 della legge n. 734 del 1973 aveva riconosciuto ai soli segretari privi di qualifica dirigenziale un assegno perequativo, così disponendo: «i segretari comunali, esclusi i fruenti di trattamento dirigenziale, ed agli incaricati delle funzioni di segretario comunale, l’assegno perequativo pensionabile è attribuito nella stessa misura prevista per gli impiegati della carriera direttiva, di ruolo e non di ruolo, dello Stato, di corrispondente parametro di stipendio».
Pochi anni dopo, l’art. 41, comma 4, della legge n. 312 del 1980 aveva riconosciuto nuovamente i diritti di rogito in favore di tutti i segretari comunali e provinciali, con decorrenza 1° gennaio 1979.
La disposizione aveva stabilito, in particolare, che una quota fissa dei diritti di segreteria spettanti al comune o alla provincia a norma dell’art. 30, comma 2, della legge n. 734 del 1973, dovesse essere corrisposta al segretario comunale o provinciale rogante, solo per determinati atti – e, segnatamente, quelli indicati dalla Tabella D della legge n. 604 del 1962 – «in misura pari al 75 per cento e fino ad un massimo di un terzo dello stipendio in godimento».
Il citato art. 30, comma 2, della legge 734 del 1973 fu modificato dall’art. 25 del d.l. n. 786 del 1981 (Disposizioni in materia di finanza locale), conv., con modif., dalla legge n. 51 del 1982, nel senso che la ripartizione del provento annuale dei diritti di segreteria tra l’ente locale e il Ministero dell’interno era rideterminata nella misura del novanta per cento in favore dell’uno e del dieci per cento in favore dell’altro.
Tale riparto era stato , poi, confermato dall’art. 27, comma 8, del d.l. n. 55 del 1983 (Provvedimenti urgenti per il settore della finanza locale per l’anno 1983), conv., con modif., dalla legge n. 131 del 1983.
Sulla base di simili premesse, la Corte costituzionale ha precisato che i diritti di segreteria figuravano come autonoma voce nella struttura della retribuzione dei segretari comunali e provinciali, il cui trattamento economico e giuridico trovava , a norma dell’art. 97, comma 6, del d.lgs. n. 267 del 2000, la principale fonte di regolamentazione nella contrattazione collettiva.
Questa struttura risultava delineata dall’art. 105, comma 1, del contratto collettivo nazionale di lavoro relativo al personale dell’area delle funzioni locali, sottoscritto il 17 dicembre 2020, il quale aveva recepito il previgente art. 37 del CCNL 16 maggio 2001, aggiungendo, alla lettera g ), la precisazione che i diritti in questione erano dovuti «ove spettanti in base alle vigenti disposizioni di legge in materia».
Inoltre, l’art. 41, comma 6, del CCNL 16 maggio 2001, non disapplicato dal citato contratto collettivo del 17 dicembre 2020, disponeva che la retribuzione di posizione dei segretari «assorbe ogni altra forma di compenso connessa alle prestazioni di lavoro, ivi compreso quello per lavoro straordinario, con eccezione di quelli, indicati nell’art. 37, comma 1, lett. g )».
L’art. 45 del CCNL 16 maggio 2001, anch’esso ancora in vigore, nel determinare la base di calcolo della maggiorazione dovuta al segretario titolare di sede di segreteria convenzionata, faceva riferimento alla retribuzione complessiva di cui all’art. 37, escludendo, ancora una volta, i diritti di segreteria.
Da ultimo, il carattere di retribuzione fondamentale del beneficio economico in esame era desumibile dalla formula dell’art. 56 dello stesso CCNL 16 maggio 2001, neppure questo disapplicato dal contratto collettivo del 17 dicembre del 2020, secondo la quale i diritti di segreteria erano computati ai fini del trattamento di fine rapporto.
Sull’assetto appena ricomposto ha inciso significativamente la disposizione contestata.
Nella formulazione originaria, l’art. 10 del d.l. n. 90 del 2014 aveva, infatti, disposto, al comma 1, l’abrogazione dell’art. 41, comma 4, della legge n. 312 del 1980, ossia della norma che, da ultimo, aveva ripristinato i diritti di rogito per tutti i segretari comunali e provinciali.
Al comma 2, aveva, poi, riformulato il testo dell’art. 30, comma 2, della legge n. 734 del 1973 nel senso che «l provento annuale dei diritti di segreteria è attribuito integralmente al comune o alla provincia», così definitivamente sopprimendo il concorso del Ministero dell’interno nella percezione del tributo.
Tali previsioni sono state, tuttavia, modificate in sede di conversione del decreto-legge.
La legge n. 114 del 2014, pur lasciandone inalterata la rubrica – la quale continua a riferirsi all’abrogazione dei diritti di rogito dei segretari comunali e provinciali, senza alcuna distinzione -, ha, infatti, integrato il contenuto dell’indicato art. 10 con l’aggiunta dei commi 2 bis, 2 ter e 2 quater.
Il comma 2 bis ha ripristinato il riconoscimento dei diritti di rogito «egli enti locali privi di dipendenti con qualifica dirigenziale» e comunque «a tutti i segretari comunali che non hanno qualifica dirigenziale».
Così disponendo, la norma ha individuato, per la Corte costituzionale, due categorie di segretari che mantengono i diritti di rogito: da una parte, quelli che non hanno qualifica dirigenziale, ossia quelli appartenenti alla fascia «C», indipendentemente dalla tipologia dell’ente locale in cui prestano servizio; dall’altra, i segretari, pur appartenenti alle fasce «A» o «B», e, quindi, aventi qualifica dirigenziale, che prestano servizio presso enti locali privi, nel proprio organico, di dirigenti.
Al contempo, la normativa in esame ha stabilito che i diritti di rogito erano attribuiti «al segretario comunale rogante, in misura non superiore a un quinto dello stipendio in godimento», così innovando rispetto al regime previgente, in cui la soglia individuale era fissata nella quota di un terzo dello stipendio percepito.
Il comma 2 ter dello stesso art. 10 ha, poi, fatto salve le quote dei diritti di rogito già maturate alla data di entrata in vigore del decreto-legge convertito.
Il comma 2 quater ha, infine, riformulato il testo dell’art. 97, comma 4, lett . c) , del d.lgs. n. 267 del 2000, sostituendo all’espressione «può rogare tutti i contratti nei quali l’ente è parte» la formula «roga, su richiesta dell’ente, i contratti nei quali l’ente è parte».
I lavori preparatori della legge di conversione hanno confermato che, attraverso la soppressione della quota dei diritti di rogito di spettanza dei segretari comunali e provinciali e di quella destinata al fondo ministeriale per la formazione di tali funzionari, il legislatore del 2014 aveva inteso devolvere l’intero ammontare di tali proventi agli enti locali, nell’ottica del contenimento della spesa pubblica e di una più efficace attuazione dei fini istituzionali e del miglioramento dei servizi erogati.
Inoltre, come osservato dalla Corte costituzionale, la relazione illustrativa predisposta dal Governo ha chiarito che la novella teneva conto della crisi
economicofinanziaria presente al momento dell’emanazione del decreto -legge e perseguiva la finalità di una revisione della spesa pubblica in uno dei settori di maggiore rilievo della stessa, quello inerente al costo per il personale della pubblica amministrazione.
All’esito del dibattito parlamentare che aveva preceduto la conversione del d.l. n. 90 del 2014 era prevalsa, tuttavia, l’esigenza di mitigare la rimozione dei diritti di rogito attraverso il riconoscimento di una sia pur ridotta quota del relativo gettito in favore dei segretari operanti in comuni medio piccoli, nei quali non erano presenti dipendenti con qualifica dirigenziale, e di escluderli, invece, per i segretari in servizio presso le amministrazioni di maggiori dimensioni e dotate di personale dirigenziale, i quali percepivano retribuzioni parametrate a quelle degli stessi dirigenti e, al pari di costoro, erano soggetti al principio di onnicomprensività della retribuzione.
Così ricostruito il quadro normativo, la Corte costituzionale ha trattato, per prima cosa, la censura attinente alla dedotta violazione dell’art. 77 Cost., sotto il duplice profilo della insussistenza dei presupposti della decretazione di urgenza e della eterogeneità della norma censurata, introdotta in sede di conversione, rispetto al contenuto del d.l. n. 90 del 2014.
Quanto al primo aspetto, ha premesso che la sindacabilità della scelta del Governo di intervenire con decreto-legge era limitata ai soli casi di evidente mancanza dei presupposti in questione o di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà della relativa valutazione (sentenze della Corte costituzionale n. 151 del 2023 e n. 8 del 2022).
Ad avviso del giudice delle leggi, la norma sospettata di illegittimità costituzionale non era affetta, quanto al comma 1, da un’evidente mancanza dei requisiti straordinari di necessità e di urgenza e si raccordava coerentemente con le premesse della decretazione d’urgenza.
Come affermato dalla Corte costituzionale nello scrutinare, in riferimento al parametro costituzionale in esame, l’art. 9 dello stesso d.l. n. 90 del 2014, come convertito, «l’ampio preambolo che precede il provvedimento motiva la straordinaria urgenza, giustificando la necessità di intervenire anche in
considerazione dell’esigenza di emanare disposizioni volte a favorire la più razionale utilizzazione dei dipendenti pubblici» (sentenza della Corte costituzionale n. 236 del 2017).
La previsione normativa censurata, collocata nel Titolo I del decreto-legge in esame, denominato «Misure urgenti per l’efficienza della p.a. e per il sostegno dell’occupazione» e, più precisamente, all’interno del Capo I di tale Titolo, recante la rubrica «Misure urgenti in materia di lavoro pubblico», teneva conto «della crisi economicofinanziaria presente al momento dell’emanazione e perseguiva, come reso palese dalla relazione illustrativa predisposta dal Governo, la finalità di una revisione della spesa pubblica in uno dei settori di maggiore rilievo della stessa, quello inerente al costo per il personale della pubblica amministrazione».
La Corte costituzionale ha ritenuto, poi, insussistente anche l’asserita disomogeneità tra il comma 2 bis , inserito nell’art. 10 in sede di conversione, e il contenuto del decreto-legge.
Infatti, u n difetto di omogeneità, in violazione dell’art. 77, comma 2, Cost., si determinava solo quando le disposizioni aggiunte in sede di conversione fossero totalmente estranee o addirittura intruse, ossia tali da interrompere ogni correlazione tra il decreto-legge e la legge di conversione (in tal senso, le sentenze della Corte costituzionale n. 245 del 2022 e n. 30 del 2021).
La normativa in scrutinio, nel rimodulare il trattamento economico di una categoria di dipendenti degli enti locali, perseguiva finalità di razionalizzazione della spesa pubblica e di sostegno alla finanza locale né estranee, né «intruse» rispetto alla cornice teleologica dell’atto urgente, a propria volta recante disposizioni dirette al riordino e al contenimento della spesa inerente al costo del personale e a favorire la più razionale utilizzazione dei lavoratori pubblici.
La Corte costituzionale ha esaminato, allora, la censura riferita all’art. 36 Cost. e ha escluso che la decurtazione economica operata dall’art. 10, comma 2 bis, in combinato disposto con il comma 1, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, contrastasse con detta norma.
Il dubbio di legittimità costituzionale sollevato dai giudici rimettenti muoveva dalla premessa secondo la quale l’eliminazione dei diritti di rogito per i segretari con qualifica dirigenziale e operanti presso enti la cui dotazione organica includa dirigenti si sarebbe tradotta nella neutralizzazione di un autonomo e ragionevole compenso per un’attività, quale quella di rogito, «specifica e ultronea rispetto a quella ordinariamente prestata dai segretari».
La Corte costituzionale ha riconosciuto che l ‘autonomia della funzione retributiva dei diritti di rogito aveva trovato conferma nella giurisprudenza amministrativa, secondo la quale tali proventi erano un «compenso ulteriore» per una particolare attività, «alla quale è correlata una responsabilità di ordine speciale e sorgono con l’effettiva estrinsecazione della funzione di rogante, la quale, ancorché di carattere obbligatorio, eccede l’ambito delle at tribuzioni di lavoro normalmente riconducibili al pubblico impiego» (Consiglio di Stato, sez. 5, sentenza n. 5183 del 2015).
In termini non dissimili si era espressa la giurisprudenza contabile, evidenziando che l’emolumento in questione rappresenta va «un compenso aggiuntivo che remunera, nella misura indicata dal legislatore, lo svolgimento della funzione rogante alla quale si correla(va) una particolare responsabilità del dipendente pubblico» (Corte dei conti, sezione regionale di controllo per il FriuliVenezia Giulia, deliberazione 27 luglio 2021, n. 33/2021/PAR; nello stesso senso, Corte dei conti, sezione regionale di controllo per la Puglia, deliberazione 6 marzo 2023, n. 25/2023/PAR).
Tuttavia, pure alla stregua di tale configurazione, la soppressione disposta dalla norma in scrutinio riguardava, comunque, solo una parte della retribuzione complessiva dei segretari comunali e provinciali.
Pertanto, alla fattispecie in esame non poteva non attagliarsi il principio, più volte affermato dalla stessa Corte costituzionale, secondo cui lo scrutinio sulla conformità di una disciplina all’art. 36 Cost. non p oteva essere svolto atomisticamente, in relazione alle singole componenti retributive parcellizzate, dovendo, per contro, investire globalmente l’insieme delle voci che formano il
trattamento complessivo del lavoratore (sentenze della Corte costituzionale n. 27 del 2022 e n. 236 del 2017).
La scelta di eliminare la corresponsione dei diritti di rogito sottendeva una riconsiderazione – coerente con la logica di razionalizzazione e di riordino della spesa per il personale pubblico che permeava l’intero provvedimento normativo in cui si collocava la norma censurata – dello stesso presupposto dal quale i giudici rimettenti traevano la lesione dell’art. 36 Cost., ossia della necessità di remunerare la funzione rogante con un autonomo compenso.
Con la soppressione di tale trattamento aggiuntivo, il legislatore aveva, infatti, secondo la Corte costituzionale, raccordato la disciplina della retribuzione dei segretari, ai quali era assicurato l’allineamento economico alle posizioni apicali , con il principio di onnicomprensività della retribuzione dirigenziale, consacrato nell’art. 24, comma 3, del d.lgs. n. 165 del 2001 e nell’art. 60 del CCNL 17 dicembre 2020, e, più in generale, con i canoni della evidenza, della certezza e della prevedibi lità della spesa per il personale, espressi dall’art. 8, comma 1, del citato testo unico.
Occorreva, infatti, considerare che, in forza del principio di onnicomprensività, il trattamento economico determinato dai contratti collettivi remunerava tutte le funzioni e i compiti assegnati al dirigente pubblico ed esclude di attribuire compensi aggiuntivi per lo svolgimento di attività lavorative comunque riconducibili ai doveri istituzionali dello stesso o di compiti rientranti nelle mansioni dell’uf ficio ricoperto e nelle connesse responsabilità (Consiglio di Stato, Sez. 5, decisione n. 5163 del 2022).
Tale regola era posta «a garanzia del preminente interesse alla corretta ed oculata allocazione delle risorse, nonché a presidio degli equilibri di finanza pubblica» (Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Puglia, sentenza n. 615 del 2010).
Trattandosi, quindi, di un principio generale della disciplina del lavoro pubblico (Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Puglia, sentenza n. 762 del 2013), eventuali deroghe, di fonte legislativa o contrattuale, alla regola della
onnicomprensività retributiva dovevano essere sostenute da un ragionevole fondamento giustificativo.
L’eccezione a tale principio, insita nella disciplina dei diritti di rogito, era stata motivata in ragione della ritenuta estraneità della funzione rogante rispetto alle prestazioni tipiche del pubblico impiego e della sua marcata affinità con la funzione notarile.
Tuttavia, era la stessa legge che, nell’ambito delle autonomie locali, da epoca risalente assegnava tale competenza ai segretari comunali e provinciali, così inscrivendola nel «nucleo originario e tradizionale della funzione segretariale» (sentenza n. 23 del 2019) e, quindi, tra i «compiti istituzionali e perciò obbligatoriamente compresi nelle prestazioni di servizio» loro assegnate» (Cass., Sez. L, n. 29673 del 2008).
Né l’analogia tra la ricezione in forma pubblica amministrativa dei contratti in cui era parte l’ente locale e la funzione notarile consentiva di ritenere, secondo la Corte costituzionale, che il segretario svolgesse l’attività di rogito non in veste di dipendente dell’amministrazione, che stipula va, per mezzo del suo ufficio, il contratto, ma in virtù di un’autonoma funzione al cui esercizio consegu isse una specifica responsabilità personale.
D’altronde, la stessa giurisprudenza amministrativa aveva chiarito che, affinché un’attività po tesse ritenersi estranea ai compiti istituzionali e, quindi, sottratta al principio di onnicomprensività retributiva, era necessario uno specifico fatto genetico della sua attribuzione, come un provvedimento di nomina, comportante l’adesione volontaria dell’interessato (Consiglio di Stato, Sez. 4, decisione n. 929 del 1989).
La Corte costituzionale ha evidenziato che tale pronuncia, citata dalle parti e da alcuni amici curiae al fine di sostenere l’inapplicabilità del principio di onnicomprensività alla funzione di rogito dei segretari comunali e provinciali, si riferiva, in realtà, alla diversa fattispecie della erogazione dei diritti di cancelleria in favore dei segretari comunali incaricati di svolgere le funzioni di cancelliere dell’Ufficio di conciliazione, ai sensi dell’abrogato art. 28 del regio decreto n. 12 del 1941 (Ordinamento giudiziario).
La remunerabilità separata di tale ultima funzione e la sua sottrazione al principio di onnicomprensività derivava dall’essere siffatto compito svolto non in rappresentanza dell’ente di appartenenza, nell’ambito delle competenze istituzionali, ma in virtù di un apposito incarico dell’autorità giudiziaria e per effetto dell’accettazione volontaria da parte del segretario incaricato.
Per converso, qualora l’amministrazione avesse ritenuto di valersene, la funzione rogante costituiva , per il segretario, un’attività dovuta, rientrante nel normale contenuto del suo rapporto di servizio con l’ente (TAR Lazio, Sez. 1, sentenza n. 324 del 1981).
Inoltre, la Corte costituzionale ha considerato che la legittimazione delle amministrazioni a stipulare i contratti per mezzo di propri ufficiali roganti, in alternativa al notaio, non era una prerogativa esclusiva degli enti locali, ma era riconosciuta, in via generale, dall’art. 16 del regio decreto n. 2440 del 1923 (Nuove disposizioni sull’amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato) e dagli artt. 95 e 96 del regio decreto n. 827 del 1924 (Regolamento per l’amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello Stato).
La figura dell’ufficiale rogante era, inoltre, prevista dall’art. 32, comma 14, del d.lgs. n. 50 del 2016 (Codice dei contratti pubblici) e dall’art. 18, comma 1, del d.lgs. n. 36 del 2023 (Codice dei contratti pubblici in attuazione dell’art . 1 della legge n. 78 del 2022, recante delega al Governo in materia di contratti pubblici).
Ciò premesso, la Corte costituzionale ha rilevato che il rapporto di strumentalità che correva tra il principio di onnicomprensività espresso dall’art. 24 del d.lgs. n. 165 del 2001 e il preminente interesse alla corretta e oculata allocazione delle risorse pubbliche e all’equilibrio di bilancio non inibi va al legislatore di introdurre disposizioni derogatorie, spettando alla sua discrezionalità stabilire discipline differenziate per regolare situazioni che ritenesse, ragionevolmente e non arbitrariamente, connotate da elementi di distinzione (sentenze della Corte costituzionale n. 383 del 1987 e n. 158 del 1975).
Tuttavia, l’art. 10, comma 1, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, aveva rimosso un beneficio economico che, remunerando lo svolgimento di una funzione istituzionale in aggiunta al più alto trattamento retributivo riconosciuto nel settore del lavoro pubblico (quello dirigenziale), aveva rivelato nel tempo una intrinseca disarmonia con il sistema.
In conclusione, una disposizione siffatta non minava l’adeguatezza e la proporzionalità della retribuzione dei segretari comunali e provinciali e, quindi, non era in conflitto con l’art. 36 Cost.
In questa prospettiva, anche la questione relativa alla violazione dei principi della certezza del diritto e del legittimo affidamento era non fondata.
La Corte costituzionale aveva già affermato , infatti, che «’esigenza di ripristinare criteri di equità e di ragionevolezza e di rimuovere le sperequazioni e le incongruenze, insite in un trattamento di favore, è era ritenersi preponderante rispetto alla tutela dell’affidamento» ( sentenza della Corte costituzionale n. 240 del 2019).
Per il giudice delle leggi erano prive di fondamento pure le censure che denunciava no la violazione dell’art. 3 Cost. per disparità di trattamento.
L’art. 10 del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, ai commi 1 e 2 bis, esprimeva due norme, l’una, che abroga va la disciplina che destinava a tutti i segretari roganti una quota dei diritti di segreteria percepiti dall’ente locale e, l’altra, che in deroga alla prima, attribui va tale provento – sia pure in misura ridotta rispetto a quella accordata dalla normativa previgente – ai segretari titolari di incarichi presso enti senza dirigenti e, comunque, a quelli privi di qualifica dirigenziale.
La Corte costituzionale ha osservato, quindi, che nel giudizio di eguaglianza, tale ultima previsione non avrebbe potuto fornire un utile termine di confronto, stante il suo carattere derogatorio.
Secondo la giurisprudenza costituzionale, la violazione del principio di eguaglianza non poteva, infatti, essere invocata quando la disposizione di legge da cui era tratto il tertium comparationis si rivelasse derogatoria di una regola
generale. In questo caso, la funzione del giudizio di legittimità costituzionale alla stregua dell’art. 3 Cost. non p oteva coincidere che con il ripristino della disciplina generale, ingiustificatamente derogata da quella particolare (sentenze della Corte costituzionale n. 208 del 2019 e n. 96 del 2008 ), e non con l’estensione ad altri casi di quest’ultima, la quale avrebbe aggravato, anziché eliminare, il difetto di coerenza del sistema normativo (sentenze della Corte costituzionale n. 98 del 2023 e n. 206 del 2004).
Nel caso di specie, le due situazioni poste a confronto – quella dei segretari che subivano l’abrogazione dei diritti di rogito disposta dall’art. 10, comma 1, del d.l. n. 90 del 2014, e quella di coloro che, essendo soggetti al regime differenziato di cui al comma 2 bis del medesimo articolo, continuavano a godere del beneficio – non rispondevano, ad avviso della Corte costituzionale, alla medesima ragione giustificatrice.
La previsione derogatoria era stata inserita in sede di conversione al fine di attenuare l’impatto economico che la totale soppressione dei diritti di rogito, disposta dal testo originario del d.l. n. 90 del 2014, avrebbe prodotto sui segretari fruenti del trattamento economico più basso (segretari di fascia «C») o, comunque, non ammessi all’allineamento economico alla posizione dirigenziale previsto dall’art. 41, comma 5, del CCNL maggio 2001 (segretari di fasce «A» e «B» che prestano servizio in enti privi di dirigenti).
La Corte costituzionale ha messo in luce che la genesi e le finalità della disciplina in scrutinio rievocavano un analogo processo legislativo che, in passato, aveva già condotto all’eliminazione dei diritti di rogito per i segretari, poi ripristinati dalla legge n. 312 del 1980 e nuovamente rimodulati dalla disposizione in scrutinio.
Si trattava della eliminazione, ad opera dell’art. 27, comma 5, del d.P.R. n. 749 del 1972, di tali diritti per i segretari di livello più elevato, alla quale si era aggiunto il riconoscimento, in favore degli stessi, dello stipendio dei dirigenti delle amministrazioni statali (art. 25, comma 5, del d.P.R. n. 749 del 1972).
A tale previsione era seguita, a breve distanza di tempo, la soppressione, ad opera dell’art. 30, comma 2 , della legge n. 734 del 1973, dell’emolumento in
questione anche per i segretari privi di qualifica dirigenziale, a fronte della quale l’art. 29 della medesima legge riconobbe a questi ultimi un assegno perequativo pensionabile.
La Corte costituzionale aveva osservato, con riferimento alla legge n. 734 del 1973, che questa aveva inteso «dare un diverso assetto al trattamento economico dei dipendenti civili dello Stato non aventi funzioni dirigenziali, al fine di introdurre anche per costoro i principi della c.d. onnicomprensività e della chiarezza retributiva» e che, «allo scopo di non arrecare danni economici e cioè di evitare una soverchia diminuzione della complessiva retribuzione dei dipendenti stessi, l’art. 1 della medesima legge ha accordato a costoro un assegno denominato ‘perequativo’, perché inteso (come del resto dice la stessa denominazione) ad evitare i cennati danni» (sentenza della Corte costituzionale n. 227 del 1982).
Un’analoga finalità aveva ispirato la scelta, alla base della previsione qui censurata, di mantenere l’emolumento per i soli segretari comunali e provinciali fruenti di un trattamento stipendiale complessivamente meno elevato.
La deroga introdotta dal comma 2 bis dell’art. 10 del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, si inscriveva, infatti, in una «logica perequativa e di ristoro sotto il profilo retributivo per i segretari che, per fascia di appartenenza e per numero di abitanti dell’ente territoriale in cui prestano servizio, non godano del trattamento equiparato a quello dirigenziale o non usufruiscano del galleggiamento per mancanza di dirigenti o per altre ragioni» (Corte conti, sez. contr. reg. Friuli-Venezia Giulia, delib. 33/2021/PAR).
La Corte costituzionale ha escluso, allora, che la posta economica sottratta ai segretari con qualifica dirigenziale operanti in comuni e province muniti di dirigenti sia funzionalmente omogenea, e, quindi, comparabile, a quella attribuita ai segretari che, invece, prestano servizio in enti che ne sono privi, o sono sprovvisti di qualifica dirigenziale.
Le posizioni in comparazione si differenziano, peraltro, anche sotto il profilo soggettivo.
La normativa censurata sacrificava le sole posizioni di quei segretari che operavano presso gli enti locali dotati di dirigenti, e che per tale ragione potevano essere allineati, sotto il profilo economico, a tali figure apicali.
La comparazione auspicata dai giudici rimettenti sarebbe dovuta avvenire, quindi, tra dipendenti allineati economicamente alle figure apicali e dipendenti esclusi da tale equiparazione (in quanto collocati presso enti privi di dirigenti) o, comunque, destinatari di un trattamento economico significativamente inferiore rispetto a quello goduto dai primi (segretari privi di qualifica dirigenziale).
Secondo la Corte costituzionale l ‘art. 10, comma 2 bis, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, non contrastava neppure con il principio di ragionevolezza, come sostenuto, invece, dai giudici rimettenti, i quali ritenevano che, alla stregua di tale disposizione, i segretari privi di qualifica dirigenziale, ove prestassero servizio presso enti locali muniti di dirigenti, avrebbero potuto ‘galleggiare’ e, al contempo, percepire i diritti di rogito.
Inoltre, in caso di esercizio della funzione segretariale presso sedi convenzionate, un segretario che avesse ottenuto l’allineamento stipendiale al livello dirigenziale presso un ente avrebbe potuto percepire, al contempo, i diritti di rogito presso un altro ente.
Quanto al primo rilievo, la Corte costituzionale ha evidenziato che l’ipotesi di un segretario che, pur non avendo qualifica dirigenziale, prestasse servizio presso un ente con dirigenti costituiva un’evenienza affatto remota, posto che i segretari di fascia «C» potevano assumere l’incarico solo presso enti di dimensioni molto limitate (con popolazione fino a 3.000 abitanti) i quali, nella generalità dei casi, non disponevano, nel proprio organico, di figure dirigenziali.
Inoltre, il segretario privo di qualifica dirigenziale, anche qualora avesse usufruito , ai sensi dell’art. 41, comma 5, del CCNL 16 maggio 2001, di una retribuzione di posizione allineata a quella della dirigenza, avrebbe continuato a percepire uno stipendio tabellare largamente inferiore rispetto a quello riconosciuto ai segretari con qualifica dirigenziale, il quale, a prescindere dal ‘galleggiamento’, eguaglia va, in ogni caso, quello dei dirigenti, come reso evidente dal raffronto tra gli artt. 54 e 106 del CCNL 17 dicembre 2020.
La Corte costituzionale ha rigettato, poi, pure le censure formulate in riferimento all’art. 97 Cost.
La norma in scrutinio non avrebbe potuto produrre un effetto disincentivante per i segretari investiti dalla soppressione dei diritti di rogito, in quanto l’esercizio della funzione rogante era connesso ai compiti istituzionali.
In ogni caso, il principio del buon andamento della pubblica amministrazione non poteva essere associato all’entità della retribuzione, la quale non era legata da un vincolo funzionale all’efficiente organizzazione amministrativa.
Peraltro, anche nel caso in cui un effetto dissuasivo si fosse prodotto, «esso non è automaticamente di pregiudizio al buon andamento della pubblica amministrazione, posto che l’efficienza della macchina amministrativa non è di per sé scalfita dal fatto che determinate funzioni siano esercitate da personale che non gode del livello retributivo massimo consentito ma dispone comunque di adeguata competenza e professionalità» (sentenza della Corte costituzionale n. 27 del 2022).
Le considerazioni di cui sopra rispondono a tutte le questioni sollevate dal ricorrente.
Sicuramente sono rigettate le censure correlate agli artt. 3, 36, 77 e 97 Cost. Implicitamente, però, sono respinte anche quelle concernenti gli artt. 39 e 53 Cost.
L’art. 39 Cost. non è violato, atteso che la riforma in esame ha semplicemente allineato la normativa concernente i segretari comunali a quella base dei pubblici dipendenti e, in particolare, ha soppresso, con atto avente forza di legge, un’eccezione al pr incipio di onnicomprensività della retribuzione.
Quanto all’art. 53 Cost. , non è stata prospettata nessuna lesione dei principi relativi al concorso alle spese pubbliche e al sistema tributario.
Il ricorso è rigettato, dovendosi ritenere manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10 del d.l. n. 90 del 2014 (Misure urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e per l’efficienza
degli uffici giudiziari), conv., con modif., dalla legge n. 114 del 2014, prospettata per violazione degli artt. 3, 36, 39, 53, 77 e 97 Cost.
Le spese di lite seguono la soccombenza ex art. 91 c.p.c. nei confronti della P.A. controricorrente e sono liquidate come in dispositivo.
Nessuna pronuncia deve essere emessa, sul punto, invece, con riferimento alla posizione del Ministero dell’Interno, non avendo svolto difese.
Si attesta che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale (d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater), se dovuto.
P.Q.M.
La Corte,
rigetta il ricorso;
condanna il ricorrente a rifondere le spese di lite in favore del Comune di Lecce , che liquida in complessivi € 4.000,00 per compenso, oltre € 200,00 per esborsi, accessori di legge e spese generali nella misura del 15%;
dà atto che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale (d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater), se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della IV Sezione Civile, il 5