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Dimissioni per giusta causa: reazione tardiva nega la NASpI

Una lavoratrice si dimette per presunto mobbing e illecite trattenute in busta paga, chiedendo la NASpI. La Corte d’Appello ha negato l’indennità, stabilendo che la mancata e tempestiva contestazione dei comportamenti del datore di lavoro esclude le dimissioni per giusta causa, rendendo il recesso un atto volontario non indennizzabile.

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Pubblicato il 6 dicembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Dimissioni per giusta causa: la reazione tardiva del lavoratore esclude il diritto alla NASpI

Le dimissioni per giusta causa rappresentano uno strumento fondamentale a tutela del lavoratore di fronte a gravi inadempimenti del datore di lavoro. Tuttavia, l’accesso all’indennità di disoccupazione (NASpI) che ne consegue non è automatico. Una recente sentenza della Corte di Appello di Bari ha ribadito un principio cruciale: la tolleranza prolungata di una condotta datoriale illecita, senza una tempestiva reazione, può far venir meno la configurabilità della giusta causa. Vediamo nel dettaglio il caso e le motivazioni della Corte.

I Fatti del Caso

Una lavoratrice rassegnava le proprie dimissioni, asserendo che fossero per giusta causa, a seguito di presunte condotte vessatorie e mobbizzanti da parte del datore di lavoro, unite a sistematiche e ingiustificate decurtazioni mensili della retribuzione. Successivamente, presentava domanda per ottenere l’indennità NASpI, che le veniva negata dall’ente previdenziale.

In primo grado, il Tribunale del Lavoro dava ragione alla lavoratrice, condannando l’ente al pagamento della prestazione. Il giudice riteneva provata la giusta causa sulla base della documentazione prodotta, tra cui la lettera di dimissioni, un certificato medico attestante uno “stato ansioso” e un verbale di conciliazione sindacale in cui l’azienda si impegnava a restituire le somme illecitamente trattenute.

L’ente previdenziale, tuttavia, proponeva appello, sostenendo che le circostanze non fossero sufficienti a integrare una vera e propria giusta causa, soprattutto per la mancanza di una reazione immediata da parte della dipendente.

La Decisione della Corte d’Appello

La Corte di Appello ha accolto il ricorso dell’ente previdenziale, riformando integralmente la sentenza di primo grado e respingendo la domanda della lavoratrice. Secondo i giudici, non sussistevano i presupposti per qualificare le dimissioni come determinate da giusta causa, rendendo di fatto il recesso un atto volontario e, come tale, non idoneo a far sorgere il diritto alla NASpI.

Le motivazioni sulle dimissioni per giusta causa e il principio di immediatezza

Il punto centrale della decisione ruota attorno al principio di immediatezza. La Corte ha osservato che le decurtazioni stipendiali, sebbene significative (circa 400 euro al mese), si erano protratte per un lungo periodo (dal gennaio 2022 all’aprile 2023) senza che la lavoratrice muovesse alcuna contestazione formale. Questo comportamento è stato interpretato come una sostanziale tolleranza della condotta datoriale, incompatibile con l’affermazione che la situazione fosse divenuta improvvisamente e intollerabilmente grave da non consentire la prosecuzione neanche temporanea del rapporto.

La reazione del lavoratore, per fondare una giusta causa, deve essere tempestiva rispetto al verificarsi del fatto grave. Una reazione tardiva, come avvenuto nel caso di specie, induce a ritenere che il lavoratore abbia, di fatto, “accettato” la situazione, facendo venir meno il nesso causale tra l’inadempimento del datore e la decisione di dimettersi.

Inoltre, la Corte ha ritenuto insufficienti le prove relative al presunto mobbing. La lettera di dimissioni, provenendo dalla stessa parte che intende avvalersene, non può costituire prova. Allo stesso modo, il certificato medico di “stato ansioso”, prodotto a pochi giorni dalle dimissioni, è stato giudicato inidoneo a dimostrare un nesso diretto con le condotte datoriali, in assenza di ulteriori e più approfondite perizie mediche. Anche il verbale di conciliazione, pur prevedendo la restituzione delle somme, non conteneva alcun riconoscimento di danno da mobbing, indebolendo ulteriormente la tesi della lavoratrice.

Le conclusioni

Questa sentenza offre importanti spunti di riflessione. Per un lavoratore che subisce un grave inadempimento, è fondamentale agire tempestivamente. Documentare e contestare formalmente e senza indugio le condotte illecite del datore di lavoro non è solo un passo necessario per la tutela dei propri diritti, ma è anche un presupposto essenziale per poter, in un secondo momento, far valere con successo le proprie ragioni in sede giudiziale, specialmente quando si tratta di ottenere prestazioni come la NASpI. La tolleranza, anche se dettata da necessità, può essere interpretata in tribunale come un’accettazione tacita che pregiudica la qualificazione delle dimissioni per giusta causa.

Quando le dimissioni sono considerate “per giusta causa” ai fini della NASpI?
Le dimissioni sono considerate per giusta causa quando sono determinate da un grave inadempimento del datore di lavoro (es. mancato pagamento della retribuzione, mobbing, molestie) che non consente la prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto. La cessazione del rapporto deve essere involontaria, cioè indotta da comportamenti altrui.

La tolleranza prolungata di un inadempimento del datore di lavoro influisce sul diritto alla NASpI?
Sì. Secondo la sentenza, il fatto che il lavoratore sopporti per un lungo periodo una condotta illecita senza una pronta e tempestiva contestazione è incompatibile con la pretesa che le dimissioni siano l’immediata conseguenza di tale condotta. Questa tolleranza può far venir meno il requisito della giusta causa e, di conseguenza, il diritto alla NASpI.

Un certificato medico di “stato ansioso” è sufficiente a provare il mobbing per giustificare le dimissioni?
No, da solo non è sufficiente. La Corte ha ritenuto che un certificato medico, per essere probante, deve essere supportato da ulteriore documentazione (come una perizia tecnica di parte) che dimostri in modo inequivocabile lo stretto collegamento tra la diagnosi e le condotte datoriali denunciate.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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