Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 27043 Anno 2025
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Civile Ord. Sez. L Num. 27043 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 08/10/2025
Oggetto
RISARCIMENTO PUBBLICO IMPIEGO
R.G.N. 22154/2021
COGNOME
Rep.
Ud. 24/09/2025
CC
ORDINANZA
sul ricorso 22154-2021 proposto da:
COGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI COGNOME, in persona del Sindaco pro tempore , rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 660/2021 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 07/06/2021 R.G.N. 689/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24/09/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Con sentenza del 7 giugno 2021, la Corte d’Appello di Lecce confermava la decisione resa dal Tribunale di Lecce e rigettava
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la domanda proposta da NOME COGNOME nei confronti del Comune di Patù, avente ad oggetto l’accertamento del demansionamento subito per effetto della revoca della posizione organizzativa dell’area economico -finanziaria di cui era titolare e dell’assegnazion e ad un diverso servizio.
Lo COGNOME, dipendente del Comune di Patù dal settembre 1982, con inquadramento e profilo economico D5, titolare dal 2000 di posizione organizzativa dell’area economico-finanziaria, prestando, con tale posizione, anche servizio a scavalco presso il Comune di Surano, di Tiggiano e di Alessano, nonché presso l’Unione Terra di Leuca aveva dedotto che con delibera della Giunta comunale n. 99 del23.12.2013 si era visto revocare l’incarico di posizione organizzativa, a suo dire senza alcuna giustificazione.
Sul presupposto che tale revoca avesse finalità puramente ritorsiva aveva agito in giudizio deducendo di essere stato vittima di una serie di comportamenti di demansionamento (tra cui il trasferimento presso una presso una struttura museale inesistente o l’assegnazione ad un nuovo servizio senza essere messo in condizione di svolgere alcuna attività) in quanto dipendente non più gradito.
Aveva, pertanto, chiesto la condanna dell’Ente al risarcimento di distinti danni, in misura non inferiore ad euro 17.000,00, in relazione alla condotta tenuta, alla sua ingiustificatezza integrante inadempimento contrattuale ai sensi degli artt. 1175 e 1375 c.c. nonché al porsi della condotta come ritorsiva.
La decisione della Corte territoriale discende dall’aver questa ritenuto la legittimità dell’operato posto in essere dal Comune non integrando la posizione organizzativa l’assegnazione a mansioni superiori ed essendo l’adibizione a funzioni diverse da
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quelle originariamente svolte conforme al disposto dell’art. 52 del d.lgs. n. 165/2001 e tale da escludere, per il rilievo da queste rivestito, attestato dal riconoscimento all’istante dell’indennità di responsabilità, il lamentato svuotamento di mansioni ed il conseguente demansionamento.
Per la cassazione di tale decisione ricorre lo COGNOME, affidando l’impugnazione a tre motivi, cui resiste, con controricorso, il Comune di Patù.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo, il ricorrente, nel denunciare la violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 2 e 52 d.lgs. n. 165/2001 e 3 CCNL 31.3.1999, imputa alla Corte territoriale di essersi pronunziata secondo una logica puramente formale intesa a privilegiare il principio di equivalenza delle mansioni, disconoscendo la valenza sostanziale della revoca della posizione organizzativa implicante nei fatti il ridimensionamento del ruolo del ricorrente e la mortificazione della sua professionalità.
Con il secondo motivo, denunciando la violazione e falsa applicazione degli artt. 2727, 2697, 1175 e 1375 c.c., 115 e 116 c.p.c. in relazione agli artt. 2087 e 2103 c.c. nonché del d.lgs. n. 165/2001, il ricorrente lamenta a carico della Corte territoriale l’ error in procedendo dato dall’omessa considerazione delle prove testimoniali offerte dal ricorrente medesimo al fine di dimostrare il denunciato svuotamento di mansioni inferendo l’insussistenza di tale pregiudizio da elementi presuntivi per di più riferiti ad un periodo di oltre un anno posteriore a quello che si chiedeva di valutare,
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antecedente alla revoca della posizione organizzativa ed immediatamente successivo a quella.
Con il terzo motivo, rubricato con riferimento al vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, il ricorrente deduce la carenza di motivazione dell’impugnata sentenza in ragione dell’omessa considerazione da parte della Corte territoriale dei principi di buona amministrazione cui andrebbe informata la gestione del personale e dei rigorosi limiti di ammissibilità dello ‘ spoil system ‘.
I primi due motivi, i quali, in quanto strettamente connessi, per essere entrambi volti a censurare il modus procedendi seguito dalla Corte territoriale nell’accertamento del denunciato svuotamento di mansioni, orientato a disconoscerlo, fino al punto di pretermettere l’esame delle risultanze istruttorie in atti limitandolo ad un periodo irrilevante allo scopo, per dare es clusivo rilievo al principio dell’equivalenza formale delle mansioni, possono essere trattati congiuntamente, presentano profili di inammissibilità e sono comunque infondati.
Il ricorrente si limita a confutare, senza dar conto degli errores in procedendo in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale, l’esito dell’accertamento negativo da questa operato in ordine al denunciato svuotamento di mansioni, che dovendosi ritenere legittimamente sancito è inidoneo ad incidere sull’operatività nella specie del prin cipio dell’equivalenza delle mansioni di successiva adibizione qualificate dalla Corte territoriale come riconducibili al medesimo livello di inquadramento senza che sul punto il ricorrente abbia avanzato una specifica censura.
Si ricorda, del resto, che in tema di pubblico impiego privatizzato, l’art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001 assegna rilievo solo al criterio dell’equivalenza formale delle mansioni, con
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riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che il giudice possa sindacare la natura equivalente della mansione, non potendosi avere riguardo alla norma generale di cui all’art. 2103 c.c. (v. ex multis Cass. 16 gennaio 2024, n. 1665).
Nello specifico, la Corte territoriale, rimarcando che lo Spano non rivestiva qualifica dirigenziale, svolgendo unicamente mansioni di funzionario titolare di posizioni organizzative, ha evidenziato che il predetto aveva ricevuto comunque nuove funzioni percependo per gli anni 2015, 2016 e 2017 l’indennità di responsabilità ed ha escluso che tali nuove funzioni fossero di scarso rilievo trattandosi di un servizio che, pur se di nuova istituzione, richiedeva un particolare impegno da parte del responsabile per il raggiungimento degli obiettivi.
L’accertata assenza di uno svuotamento di mansioni ovvero anche di un demansionamento esclude di per sé il danno.
In ogni caso, il danno da demansionamento non è in re ipsa e deve pur sempre essere dimostrato (seppure, eventualmente, a mezzo presunzioni e/o massime di esperienza) da chi si assume danneggiato (cfr., ex aliis , Cass., Sez. Un., 24 marzo 2006, n. 6572); il principio è stato ulteriormente precisato in successive decisioni in particolare evidenziandosi che il risarcimento del danno professionale, non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale, non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo (così Cass. 14 novembre 2016, n. 23146; Cass. 17 novembre 2016, n. 23432) e che, se la relativa prova può essere acquisita in giudizio con tutti i mezzi
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consentiti dall’ordinamento, assumendo precipuo rilievo quella per presunzioni ex art. 2729 c.c., potendosi dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro dell’operata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto) coerentemente risalire, attraverso un prudente apprezzamento, al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno (Cass. 19 dicembre 2008 n. 29832 e negli stessi termini Cass. 18 settembre 2015, n. 18431), tuttavia il ricorso alle presunzioni è consentito a condizione che sia stata allegata la natura del pregiudizio e che il ricorrente abbia dedotto e provato circostanze diverse ed ulteriori rispetto al mero inadempimento, che possano essere valorizzate per risalire dal fatto noto a quello ignoto (v. Cass. 19 agosto 2016, n. 17214). È stato, al riguardo, precisato che, in tema di prova del danno da dequalificazione professionale ex art. 2729 cod. civ., non è sufficiente a fondare una corretta inferenza presuntiva il semplice richiamo alle indicate categorie generali, dovendo il giudice di merito procedere, pur nell’ambito di tali categorie, ad una precisa individuazione dei fatti che assume idonei e rilevanti ai fini della dimostrazione del fatto ignoto, alla stregua di canoni di probabilità e regole di comune esperienza (Cass. 10 luglio 2019, n. 18560).
Sul punto il ricorso è del tutto carente, facendosi in esso mero riferimento, al fine di sorreggere la asserita valenza punitiva e pregiudizievole dei provvedimenti impugnati, al ‘trentennale rapporto di lavoro e relativa esperienza professionale nell’area economico finanziaria’.
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Inammissibile risulta il terzo motivo.
E’ infatti inammissibile la censura che invoca il vizio di cui al n. 5 dell’art. 360 c.p.c. per la configurabilità nella specie dell’ipotesi di ‘doppia conforme’, ai sensi dell’art. 348 -ter , commi 4 e 5, c.p.c., applicabile ratione temporis , che ricorre non solo quando la decisione di secondo grado è interamente corrispondente a quella di primo grado, ma anche quando le due statuizioni siano fondate sul medesimo iter logicoargomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa, non ostandovi che il giudice di appello abbia aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo giudice (Cass. 9 marzo 2022, n. 7724).
Ne consegue che il motivo di ricorso per cassazione per superare il vaglio di ammissibilità deve indicare anche le divergenze delle ricostruzioni fattuali contenute nella sentenza di primo grado ed appello, il che difetta nell’articolazione del motivo qui all’attenzione.
Senza dire che assorbente, sul punto, è l’accertamento della Corte territoriale circa il fatto che l’Amministrazione ha operato nella piena legittimità delle sue prerogative, come previsto dalla legge e dalla regolamentazione contrattuale (pag. 8 della sentenza impugnata).
Il ricorso va, dunque, rigettato e le spese, che seguono la soccombenza, sono liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 4.000,00 per compensi oltre spese generali al 15% ed altri accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso norma del comma 1bis , dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma nell’adunanza camerale del 24.9.2025
La Presidente
(NOME COGNOME)