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Demansionamento: il licenziamento è nullo

La Corte di Cassazione ha confermato l’illegittimità del licenziamento di un lavoratore, giustificato da un’azienda di vigilanza con la perdita di un appalto. La Corte ha stabilito che il licenziamento è nullo perché fondato su una precedente e continua condotta illecita del datore di lavoro: il demansionamento. Il lavoratore, infatti, era stato assegnato a mansioni inferiori presso quel cantiere in violazione di una precedente sentenza che gli riconosceva un inquadramento superiore. L’azienda non può, quindi, avvalersi delle conseguenze del proprio illecito per giustificare la fine del rapporto di lavoro.

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Pubblicato il 25 novembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Demansionamento: quando la condotta illecita del datore rende nullo il licenziamento

Introduzione: Il Demansionamento Protratto e le Sue Conseguenze

Il demansionamento, ovvero l’assegnazione di un lavoratore a mansioni inferiori rispetto al suo inquadramento, costituisce un grave inadempimento contrattuale da parte del datore di lavoro. Ma cosa accade se questa condotta illecita si protrae nel tempo e diventa la premessa per un successivo licenziamento? Con l’ordinanza in esame, la Corte di Cassazione ribadisce un principio fondamentale: il datore di lavoro non può trarre vantaggio dal proprio illecito. Un licenziamento basato su circostanze create artificialmente attraverso un demansionamento continuo è da considerarsi illegittimo e nullo.

I Fatti di Causa: Un Licenziamento Basato su un Illecito Precedente

Il caso riguarda un dipendente di una società di vigilanza privata. Anni prima, un tribunale aveva riconosciuto al lavoratore il diritto all’inquadramento nel III livello del CCNL di settore, con mansioni di capoturno. Nonostante la sentenza, l’azienda aveva continuato ad adibirlo a mansioni inferiori (IV livello), tipiche della guardia giurata addetta al piantonamento, assegnandolo a vari appalti presso ipermercati.

La situazione precipita quando l’azienda perde l’appalto presso l’ultimo sito a cui il lavoratore era stato illegittimamente assegnato. A questo punto, la società lo licenzia per giustificato motivo oggettivo, adducendo come causa la cessazione del servizio di vigilanza presso quel sito e il rifiuto del lavoratore di passare alle dipendenze dell’impresa subentrante. Sia il Tribunale che la Corte d’Appello dichiarano illegittimo il licenziamento, ordinando la reintegrazione. L’azienda ricorre quindi in Cassazione.

L’Analisi della Corte: Perché il demansionamento rende il licenziamento illegittimo

La Suprema Corte rigetta i ricorsi dell’azienda, confermando la decisione dei giudici di merito. Il ragionamento dei giudici è lineare e si fonda sul nesso di causalità tra l’illecito del datore e il motivo del recesso.

L’illecito permanente come causa invalidante

Il punto centrale della decisione è la qualificazione del demansionamento come “illecito permanente”. Non si tratta di un singolo atto che si esaurisce nel momento in cui viene compiuto, ma di una condotta che viola i diritti del lavoratore ogni giorno in cui persiste. La Corte chiarisce che il protrarsi di questa situazione non può essere interpretato come un’accettazione passiva (acquiescenza) da parte del lavoratore. Di conseguenza, l’azienda non può “cristallizzare” una situazione illegale per poi utilizzarla a proprio vantaggio.

L’insussistenza del nesso causale

Il licenziamento era stato motivato con la perdita dell’appalto presso un ipermercato. Tuttavia, la Corte osserva che il lavoratore non avrebbe mai dovuto trovarsi in quella posizione. Il suo corretto inquadramento come capoturno non era legato a quel singolo appalto di piantonamento. È stata la decisione illegittima e protratta dell’azienda di adibirlo a mansioni inferiori a creare il collegamento con il sito in questione. Pertanto, manca un nesso causale valido tra la riorganizzazione aziendale (la perdita dell’appalto) e la posizione lavorativa che il dipendente avrebbe legittimamente dovuto ricoprire.

Le Motivazioni della Decisione

La Corte di Cassazione motiva la sua decisione rigettando tutti i motivi di ricorso presentati dalla società. In primo luogo, i giudici affermano che la persistenza del demansionamento dopo la reintegrazione del 2015 costituisce un comportamento contra jus (contro la legge) che vizia alla radice la successiva decisione di licenziare. L’azienda non può invocare le norme sulla modifica delle mansioni (art. 2103 c.c., come modificato dal D.Lgs. 81/2015) o le clausole del CCNL, perché la premessa stessa della sua azione – l’assegnazione del lavoratore a quel cantiere specifico – era illegittima.

Inoltre, la Corte sottolinea che, alla luce delle recenti sentenze della Corte Costituzionale (n. 59/2021 e n. 125/2022), quando viene accertata la “manifesta insussistenza del fatto” posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la sanzione applicabile è unicamente la tutela reintegratoria. Il giudice non ha discrezionalità nel scegliere una tutela meramente indennitaria. In questo caso, il fatto (la soppressione del posto di lavoro del dipendente in quel cantiere) è insussistente proprio perché quel posto di lavoro non era quello che legittimamente gli spettava.

Le Conclusioni

L’ordinanza in esame offre un importante monito per i datori di lavoro. Un’azienda non può costruire le premesse per un licenziamento attraverso una precedente e persistente violazione dei diritti del lavoratore. Il principio di correttezza e buona fede impone che le ragioni oggettive di un recesso siano genuine e non il risultato di una strategia datoriale illegittima. Per i lavoratori, questa decisione rafforza la tutela contro il demansionamento, chiarendo che tale condotta, in quanto illecito permanente, non solo dà diritto al risarcimento e al corretto inquadramento, ma può anche invalidare un successivo licenziamento che ne sia la diretta conseguenza.

Può un datore di lavoro licenziare un dipendente per la perdita di un appalto se quel dipendente era stato assegnato a quell’appalto in violazione dei suoi diritti (demansionamento)?
No. La Corte di Cassazione ha stabilito che il licenziamento è illegittimo perché la sua causa (la perdita dell’appalto) è direttamente collegata a una precedente e continua condotta illecita del datore di lavoro, ovvero il demansionamento. L’azienda non può usare le conseguenze del proprio illecito per giustificare un recesso.

Il demansionamento è un illecito che si ‘cristallizza’ nel tempo o è una violazione continua?
Secondo l’ordinanza, il demansionamento è un “illecito permanente”. Ciò significa che la violazione si rinnova ogni giorno in cui il lavoratore è adibito a mansioni inferiori, e la pretesa di porvi fine non cade in prescrizione finché la condotta illecita non cessa.

Quando viene accertata l’insussistenza del fatto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il giudice può scegliere tra reintegrazione e indennità?
No. A seguito delle sentenze della Corte Costituzionale (in particolare la n. 59 del 2021 e la n. 125 del 2022), se il fatto posto a base del licenziamento oggettivo risulta insussistente, il giudice deve applicare la tutela reintegratoria, senza poter esercitare un potere discrezionale.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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