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Demansionamento: durata e prova del danno professionale

Un dipendente di una società di telecomunicazioni, inquadrato al quinto livello, veniva assegnato a mansioni di call center inferiori. La Corte di Cassazione ha confermato la condanna dell’azienda per demansionamento, stabilendo che la notevole durata del declassamento professionale costituisce un elemento sufficiente per presumere l’esistenza di un danno risarcibile, invertendo di fatto l’onere della prova a carico del datore di lavoro.

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Pubblicato il 22 agosto 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Demansionamento: Quando la Durata Diventa Prova del Danno

Il demansionamento è una delle questioni più delicate nel diritto del lavoro, poiché tocca il nucleo della professionalità e della dignità del lavoratore. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha ribadito un principio cruciale: la lunga durata di un’assegnazione a mansioni inferiori può essere sufficiente a provare, in via presuntiva, il danno subito dal dipendente. Questa decisione chiarisce l’onere della prova a carico del datore di lavoro e offre una tutela più forte ai lavoratori ingiustamente dequalificati.

I Fatti del Caso: Dalle Mansioni di Quinto Livello al Call Center

Il caso riguarda un dipendente di una nota società di telecomunicazioni, assunto a tempo indeterminato nel 1989 e inquadrato, dal 2000, nel quinto livello del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) di settore. A partire dall’agosto 2013, il lavoratore veniva assegnato a un servizio di call center con mansioni tipiche del quarto livello, consistenti nel fornire assistenza a clienti aziendali di piccole dimensioni (cd. small enterprise).

Il lavoratore ha agito in giudizio, sostenendo di aver subito un demansionamento, poiché le sue nuove attività non possedevano la complessità, l’autonomia e la tipologia di clientela (definita “di fascia alta”) richieste dal suo livello di inquadramento. Sia il Tribunale che la Corte d’Appello hanno dato ragione al dipendente, condannando l’azienda a ripristinare mansioni equivalenti e a risarcire il danno alla professionalità, quantificato nel 30% della retribuzione percepita durante il periodo di dequalificazione.

La Decisione della Corte d’Appello e le Argomentazioni dell’Azienda

La Corte d’Appello ha confermato la sentenza di primo grado, sottolineando che l’azienda non aveva fornito la prova necessaria a dimostrare l’equivalenza delle nuove mansioni. Secondo i giudici, il quinto livello del CCNL implicava la gestione di clienti “top” (grandi aziende) con una logica personalizzata “one to one”, un’autonomia esecutiva significativa e l’uso di sistemi complessi. Al contrario, il lavoratore si trovava a rispondere in modo indistinto a chiamate di clienti di fascia bassa, svolgendo un’attività standardizzata e priva della richiesta autonomia.

L’azienda ha quindi presentato ricorso in Cassazione, basandolo su tre motivi principali:
1. Errata interpretazione del CCNL, sostenendo che per “clientela di fascia alta” si dovesse intendere tutta la clientela “business”, in contrapposizione a quella “residenziale”.
2. Errata valutazione delle prove testimoniali, che a suo dire avrebbero confermato lo svolgimento di attività di quinto livello.
3. Violazione dei principi in materia di prova del danno, ritenendo che il danno non potesse essere presunto ma dovesse essere provato direttamente dal lavoratore.

Le Motivazioni della Cassazione sul Demansionamento

La Corte di Cassazione ha rigettato integralmente il ricorso dell’azienda, confermando la correttezza delle decisioni dei giudici di merito. In primo luogo, ha ritenuto infondata l’interpretazione del contratto collettivo proposta dall’azienda, confermando che la Corte d’Appello aveva correttamente distinto tra diverse fasce di clientela business, basandosi anche su documenti prodotti dalla stessa società ricorrente.

Il secondo motivo è stato dichiarato inammissibile, poiché tendeva a una nuova valutazione dei fatti e delle prove, attività preclusa nel giudizio di legittimità. È su questo punto che la Corte riafferma il proprio ruolo di giudice della corretta applicazione della legge, non del merito della vicenda.

Le Motivazioni: La Prova Presuntiva del Danno

Il cuore della decisione risiede nel rigetto del terzo motivo, relativo alla prova del danno. La Corte ha chiarito che, sebbene il danno da demansionamento non sia automatico, esso può essere provato attraverso presunzioni, come previsto dall’art. 2729 del Codice Civile.

I giudici hanno evidenziato che la Corte d’Appello ha correttamente applicato questo principio, valorizzando un elemento fattuale di enorme peso: la considerevole durata del demansionamento. L’assegnazione a mansioni inferiori si era protratta per diversi anni (dall’agosto 2013 fino almeno alla sentenza di primo grado del novembre 2019). Secondo la Suprema Corte, un periodo così lungo è un fatto noto dal quale è logico presumere l’esistenza di un fatto ignoto, ovvero il danno alla professionalità. Tale danno consiste nell’impoverimento delle competenze, nella frustrazione delle aspettative di carriera e nella perdita di preziose opportunità professionali, specialmente per un lavoratore con una lunga anzianità di servizio e un inquadramento consolidato.

Le Conclusioni: Implicazioni per Lavoratori e Aziende

Questa ordinanza consolida un orientamento giurisprudenziale fondamentale a tutela dei lavoratori. Il principio affermato è chiaro: un datore di lavoro che modifica le mansioni di un dipendente ha l’onere di dimostrare che le nuove attività sono professionalmente equivalenti. Se non ci riesce e il demansionamento si protrae nel tempo, il danno alla professionalità può essere considerato presunto, senza che il lavoratore debba fornire prove dirette e spesso difficili da reperire del pregiudizio subito.

Per le aziende, questa decisione rappresenta un monito a gestire i cambiamenti organizzativi con la massima attenzione, garantendo il rispetto della professionalità acquisita dai propri dipendenti. Per i lavoratori, invece, è una conferma che il tempo è un fattore determinante: più a lungo dura l’ingiusta dequalificazione, più solida diventa la base per ottenere il giusto risarcimento.

In un caso di demansionamento, a chi spetta dimostrare che le nuove mansioni sono equivalenti a quelle precedenti?
Spetta al datore di lavoro. L’ordinanza conferma che l’onere probatorio di dimostrare l’equivalenza delle mansioni assegnate rispetto al livello di inquadramento del lavoratore è a carico dell’azienda. In mancanza di tale prova, il demansionamento è considerato accertato.

Il danno da demansionamento deve essere sempre provato con prove dirette dal lavoratore?
No. La Corte di Cassazione ha stabilito che il danno alla professionalità può essere provato anche tramite presunzioni. Elementi come la considerevole durata del demansionamento, la qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta e l’anzianità di servizio sono considerati fatti noti da cui il giudice può logicamente desumere l’esistenza di un danno risarcibile.

Cosa si intende per “clientela di fascia alta” per un operatore di quinto livello secondo questa ordinanza?
Secondo l’interpretazione confermata dalla Corte, non si tratta genericamente di tutta la clientela “business”, ma si riferisce specificamente a clienti di grandi dimensioni (definiti “top”). La gestione di tale clientela deve avvenire con una logica personalizzata (“one to one”), significativa autonomia e l’uso di sistemi complessi, distinguendosi nettamente dalla gestione indifferenziata di clienti di piccole dimensioni.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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