Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 21424 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 21424 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data pubblicazione: 25/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso 10056-2021 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
COGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 584/2020 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 27/10/2020 R.G.N. 1010/2019; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 05/06/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME .
FATTI DI CAUSA
Oggetto
Risarcimento danni Dequalificazione
R.G.N. 10056/2021
COGNOME
Rep.
Ud. 05/06/2025
CC
Con la sentenza in epigrafe indicata la Corte d’appello di Firenze respingeva l’appello proposto dalla Telecom Italia s.p.a. contro la sentenza del Tribunale della medesima sede n. 954/2019, con la quale, in accoglimento del ricorso proposto da NOME COGNOME, dipendente a tempo indeterminato dal 1989, inquadrato al quinto livello del CCNL delle imprese esercenti servizi di telecomunicazioni dal 2000, aveva dichiarato che la datrice di lavoro Telecom aveva demansionato detto lavoratore, assegnandolo al servizio 191 con mansioni di operatore di call center di quarto livello per la clientela ‘Affari’ dall’1 agosto 2013 (giorno dal quale il lavoratore aveva iniziato a prestare attività di front end, ossia, assistenza in linea con la clientela, e i back office, e, cioè, attività fuori linea, per la gestione di richiestesegnalazioni, reclami della clientela dotta di partita IVA di piccole dimensioni, cd. small enterprise); aveva, quindi, condannato la società a ripristinare le precedenti mansioni, ovvero ad assegnare il lavoratore a mansioni equivalenti di quinto livello, nonché al risarcimento del danno alla professionalità pari al 30% della retribuzione percepita dall’1 agosto 2013 alla data del ripristino, oltre accessori ex art. 429 c.p.c.
Per quanto qui interessa, la Corte territoriale, dopo aver dato conto di quanto considerato e deciso dal primo giudice e dei tre motivi d’appello della Telecom, riteneva che quest’ultima non avesse assolto all’onere probatorio a suo carico, come risultava dalle seguenti circostanze: – per quanto riguardava la necessità di assegnare agli operatori di quinto livello i clienti di fascia alta, al contrario risultava che il COGNOME fosse addetto esclusivamente a clientela aziendale di piccole
dimensioni, ovvero clientela business cd. small enterprise (studi professionali ed attività commerciali entrambi di piccole dimensioni), richiamando a riguardo un documento di provenienza Telecom, prodotto dall’attore; -per quanto riguardava la significativa autonomia esecutiva del quinto livello, contrapposta alla semplice autonomia esecutiva del quarto livello, in concreto la società appellante non aveva né dedotto né provato che la autonomia esecutiva di cui il COGNOME era fornito fosse connotata in modo tale da ritenersi significativa, ed anzi prova contraria si ricavava da altro documento; -per quanto riguardava le attività non standardizzate di tipo personalizzato, come puntualmente ritenuto in precedenti della medesima Corte territoriale, a loro volta confermati da indicate pronunce di legittimità, il carattere individualizzato della prestazione andava collegato necessariamente ad una assistenza ‘in logica One to One’, la quale richiedeva che vi fossero clienti business di fascia alta (ovvero poche grandi aziende, in gergo appunto definite top) assegnati in modo stabile ad un singolo operatore, o ad un ristretto gruppo di operatori di quinto livello, di modo che le relative richieste di assistenza transitassero da un canale diretto e dedicato che consentisse all’operatore di proseguire nel tempo le funzioni dedicate alla medesima clientela top, nei confronti della quale svolgere funzioni anche complesse con significativa autonomia esecutiva, per contro, nel caso di specie risultava che il COGNOME rispondesse in modo indistinto alle chiamate che la clientela di fascia bassa rivolgeva al call center; infine, nemmeno per quanto riguardava l’utilizzo di sistemi complessi la società appellante aveva assolto all’onere di allegazione e prova di una corrispondente strumentazione
di lavoro assegnata al COGNOME.
La Corte, inoltre, richiamati taluni precedenti di legittimità in tema di danno alla professionalità derivante da demansionamento, concordava con il primo giudice a proposito del fatto che in via presuntiva l’esistenza e l’entità del danno professionale subito dal lavoratore si desumessero fondamentalmente dalla considerevole durante del demansionamento, attuato già dall’agosto 2013 e successivamente proseguito -nonostante l’introduzione del giudizio nel giugno 2016 -quantomeno sino alla sentenza pronunciata nel novembre 2019, ritenendo perciò congrua la misura del 30% della retribuzione mensile del relativo periodo già stimata dal primo giudice.
Avverso tale decisione RAGIONE_SOCIALE ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.
Ha resistito l’intimato con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la ricorrente denuncia ‘Violazione e falsa applicazione dell’art. 23 del CCNL per il personale dipendente da imprese esercenti servizi di telecomunicazioni del 1° febbraio 2013 e violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 c.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.’.
Con il secondo motivo denuncia ‘Violazione e falsa applicazione dell’art. 23 del CCNL per il personale dipendente
da imprese esercenti servizi di telecomunicazioni del 1° febbraio 2013; violazione e falsa applicazione degli artt. 2103 c.c. e 2697 c.c. e 115 c.p.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.’.
Con il terzo motivo denuncia ‘Violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 1227, 2697, 2727 e 2729 c.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.
Il primo motivo è complessivamente infondato.
La ricorrente in esso sostiene essenzialmente che la declaratoria contrattuale del livello 5 .
Nota, anzitutto, il Collegio che la Corte di merito ha dato conto che analoghi rilievi a quelli testé riferiti formavano oggetto di punto di censura proposto da Telecom quale appellante (v. tra la pag. 2 e la pag. 3 dell’impugnata sentenza).
6.1. Si rileva, ancora, che la stessa Corte aveva individuato i tratti distintivi degli operatori di call center rispettivamente inquadrati nel terzo livello, nel quarto livello e nel quinto livello.
6.2. Osserva, inoltre, il Collegio che la causa non riguarda una pretesa di superiore inquadramento da parte del lavoratore, che lamentava all’opposto un proprio demansionamento, sicché la Corte ha correttamente evidenziato che, ‘poiché è pacifico che dal 2000 COGNOME fosse
inquadrato nel quinto livello, è decisivo verificare se i nuovi compiti assegnati dall’agosto 2013 in quanto addetto al servizio 191 rispettassero i necessari requisiti qualificanti della relativa descrizione contrattuale’.
Tanto rilevato, il profilo di censura in esame non risulta pertinente perché la Corte ha formato il proprio convincimento sul punto che dall’agosto 2013 all’attore non fossero più assegnati clienti di fascia alta, facendo specifico riferimento al doc. 28 della produzione del ricorrente, ma di provenienza Telecom, che ‘alla pag. 4 descrive la clientela business, distinguendo quella top di fascia alta, da quella piccola e media invece di fascia bassa’, reputando pacifico che ‘fosse proprio quest’ultima assegnata al COGNOME.
7.1. Per contro, l’assunto attuale della ricorrente che , è sostenuto in modo assertivo, senza far riferimento ad alcuna risultanza processuale, e in ogni caso in contrasto con quanto accertato dalla Corte territoriale.
La ricorrente, inoltre, addebita alla Corte d’appello di aver ‘totalmente omesso di soffermarsi sul senso letterale delle parole e di esaminare le declaratorie contrattuali di livello 4 e di livello 5 nella loro interezza e sistematicità, in palese contrasto con i criteri di ermeneutica contrattuale sanciti dagli artt. 1362 e 1363 ss. c.c.’.
8.1. Come già notato, però, la Corte territoriale si è comunque soffermata sui tratti distintivi dei tre livelli su visti (terzo, quarto e quinto), ed ha evidenziato, per quello che ora
interessa, che ‘il quarto livello riguarda la mansione di addetto al call center fornito di professionalità più ampia, di riflesso alla maggiore esperienza o ai percorsi formativi o alla autonomia esecutiva’, laddove ‘il quinto livello concerne l’operatore specialista di customer care che opera con autonomia significativa, svolgendo a vantaggio del cliente attività non standardizzata bensì di tipo personalizzato, operando con clienti di fascia alta in una logica one to one, ed adoperando sistemi complessi’.
8.2. Di seguito e in coerenza con tali rilievi, come già riportato in narrativa, ha constatato: a) che non era stato ‘né dedotto né provato che l’autonomia esecutiva del quarto livello di cui il COGNOME era fornito fosse connotata in modo tale da ritenersi significativa (ed anzi prova contraria si ricava dal doc. 27 ric. 1°); b) che era risultato ‘che il COGNOME rispondesse in modo indistinto alle chiamate che la clientela di fascia bassa rivolgeva al call center’, e non secondo la ‘logica one to one’, indica ta nella declaratoria del V livello; c) che neppure era stata dedotta e provata una ‘strumentazione do lavoro assegnata al COGNOME‘ corrispondente ai ‘sistemi complessi’, cui pure si riferisce la stessa declaratoria.
In definitiva, alla stregua di detto accertamento probatorio, la Corte d’appello ha riscontrato nell’attività svolta dal lavoratore da agosto 2013 l’assenza di una serie di tratti salienti e caratterizzanti il profilo del quinto livello, ed effettivamente presenti nella completa declaratoria relativa, che riferisce in ricorso (a pag. 6) la Telecom.
Quest’ultima, del resto, in disparte i suoi rilievi circa la clientela di fascia alta, neanche censura direttamente le
ulteriori valutazioni operate dalla Corte territoriale su differenti aspetti nell’ambito del primo motivo.
Una critica a riguardo si trova piuttosto nel secondo motivo di ricorso, che è tuttavia inammissibile.
Come risulta chiaramente, infatti, dallo svolgimento di tale censura (cfr. in particolare pagg. 11-17 del ricorso), la ricorrente ivi propone una propria lettura delle ‘dichiarazioni rese dai testi escussi’, sostenendo che questi ultimi avrebbero ‘confermato lo svolgimento da parte del sig. COGNOME di tutte le attività caratterizzanti il profilo professionale di livello 5 di sua appartenenza’; lettura che contrappone a quella operata dai giudici del doppio grado di giudizio nel merito; il che non può trovare ingresso in questa sede di legittimità.
11. Il terzo motivo non è fondato.
Giova evidenziare che la Corte territoriale nella propria motivazione ha fatto riferimento a precedenti di legittimità, in tema di prova del danno derivante da demansionamento, espressivi del medesimo indirizzo cui si riferisce anche la ricorrente (cfr. inizio del § 2) a pag. 7 della sua sentenza).
In particolare, ha richiamato anche Cass. n. 21/2019, secondo la quale il danno derivante da demansionamento e dequalificazione professionale non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale, ma può essere provato dal lavoratore, ai sensi dell’art. 2729 c.c., attraverso l’allegazione di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti, potendo a tale fine essere valutati la qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della
professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione.
13. E non è in discussione che, secondo un consolidato orientamento di questa Corte, espresso più volte anche a Sezioni unite (cfr. Sez. un., 22.2.2010, n. 4063; id., n. 6572/2006), ed anche di recente confermato (cfr. Cass., sez. lav., 11.11.2022, n. 33427), in tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva -non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale -non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo, dovendo il danno non patrimoniale essere dimostrato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento, assumendo peraltro precipuo rilievo la prova per presunzioni, per cui dalla complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro dell’oper ata dequalificazione, frustrazione di precisate e ragionevoli aspettative di progressione professionale, effetti negativi dispiegati nelle abitudini di vita del soggetto), si possa, attraverso un prudente apprezzamento, coerentemente risalire al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno.
Inoltre, è pressoché costante nei precedenti di legittimità, con precipuo riferimento al danno alla professionalità, il riferimento ad elementi presuntivi utilizzabili, quali la qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della
professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione (cfr., tra le altre, più di recente, Cass. n. 34073/2021); ma non si è mancato di includere tra tali elementi anche l’anzianità di servizio (cfr. Cass. n. 3822/2021; n. 4652/2009; n. 15955/2004).
Assume la ricorrente, ‘alla luce delle deduzioni svolte nei primi due motivi di ricorso’, che la Corte d’appello, nel confermare la sentenza di primo grado, sarebbe ‘incorsa in una violazione e falsa applicazione dei principi in materia di presunzione e prova del danno’ alla professionalità da demansionamento.
Ora, in disparte che i primi due motivi di ricorso sono stati qui disattesi (il primo in termini d’infondatezza, il secondo in chiave d’inammissibilità), la Corte di merito incensurabilmente ha evidenziato ‘la considerevole durata del demansionamento, attuato già dall’agosto 2013 e costantemente proseguito -nonostante l’introduzione del giudizio nel giugno 2016 -quantomeno fino alla sentenza pronunciata nel novembre 2019’.
Costantemente, infatti, come si è ora visto, la giurisprudenza di questa Corte ha incluso la durata del demansionamento tra gli elementi valutabili a riguardo, e nella specie i giudici di secondo grado hanno apprezzato il dato obiettivo di un demansionamento durato diversi anni e protrattosi anche in corso di causa, e quindi tale da aggravare l’impoverimento della professionalità acquisita da un lavoratore assunto a tempo indeterminato nel 1989 e che già dal 2000 era stato inquadrato nel quinto livello del CCNL.
Del resto, la censura presenta profilo d’inammissibilità laddove la ricorrente assume ‘che il sig. COGNOME anteriormente al mese di settembre 2013, si è sempre solo occupato di attività prettamente esecutive di estrapolazione dati e di reportistica (sul punto, infatti, la stessa Corte d’appello di Firenze ha dato atto che lo svolgimento delle attività enfaticamente descritte nel ricorso è stata categoricamente smentita dai testi escussi)’.
16.1. Tali deduzioni sarebbero anzitutto ininfluenti, in quanto il lavoratore, come più volte detto, era pacificamente inquadrato nel quinto livello dall’anno 2000 e lo era ancora ad agosto 2013.
In ogni caso, il dato che prima del settembre 2013 egli si sarebbe ‘sempre occupato di attività prettamente esecutive di estrapolazione dati e di reportistica’ è qualcosa di non accertato in causa, e la stessa ricorrente non specifica donde sarebbe stato tratto.
La Corte d’appello, piuttosto, ha fornito una differente spiegazione sul perché già il primo giudice aveva limitato la propria motivazione ‘all’accertamento del ruolo professionale assegnato al Vivoli dall’agosto 2013’ (v. inizio del § 1) a pag. 5 della sua sentenza).
La ricorrente, in quanto soccombente dev’essere condannata al pagamento, in favore del difensore del controricorrente, dichiaratosi anticipatario, delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, ed è tenuta al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove
dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 200,00 per esborsi e in € 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, IVA e C.P.A. come per legge, e distrae in favore del difensore del controricorrente.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così dec iso in Roma nell’adunanza camerale del 5.6.2025.
La Presidente NOME COGNOME