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Danno da usura psico-fisica: pausa negata e risarcimento

Un’azienda sanitaria è stata condannata a risarcire i dipendenti per il danno da usura psico-fisica causato dalla sistematica mancata concessione della pausa di 10 minuti in turni superiori a sei ore. La Cassazione ha ritenuto provato il danno tramite presunzioni, basandosi sulla prolungata e illecita condotta del datore di lavoro.

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Pubblicato il 24 ottobre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Danno da usura psico-fisica: quando la pausa negata genera il diritto al risarcimento

La tutela della salute dei lavoratori è un principio cardine del nostro ordinamento. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha ribadito con forza questo concetto, affrontando il tema del danno da usura psico-fisica derivante dalla sistematica negazione della pausa giornaliera. Questa pronuncia chiarisce come, in determinate circostanze, la prova di tale danno possa essere raggiunta attraverso presunzioni, senza la necessità per il lavoratore di fornire complesse dimostrazioni mediche.

I Fatti di Causa

Un gruppo di dipendenti di un’azienda sanitaria regionale conveniva in giudizio il proprio datore di lavoro, lamentando la mancata fruizione della pausa di 10 minuti prevista dalla legge per i turni di lavoro superiori alle sei ore. Tale condotta, protrattasi per molti anni, aveva, a loro dire, causato un progressivo logoramento delle energie, configurando un vero e proprio danno da usura psico-fisica.

Sia il Tribunale in primo grado che la Corte d’Appello avevano dato ragione ai lavoratori, condannando l’azienda al risarcimento del danno. La Corte territoriale, in particolare, aveva sottolineato come la lesività intrinseca della condotta datoriale, consistente nell’assegnare turni consecutivi oltre le sei ore senza la dovuta pausa, consentisse di ritenere presuntivamente provato il danno subito dai lavoratori.

L’azienda sanitaria, non soddisfatta della decisione, proponeva ricorso per Cassazione, sostenendo principalmente due argomenti: l’errata applicazione delle norme sulla prova (art. 2697 c.c.), poiché il danno non poteva considerarsi in re ipsa ma andava dimostrato nelle sue concrete conseguenze, e la mancata valutazione di altri elementi, come la presenza di locali adibiti al riposo.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso dell’azienda inammissibile, confermando di fatto la condanna al risarcimento. I giudici hanno trattato congiuntamente i motivi del ricorso, riconducendoli a un tentativo, non consentito in sede di legittimità, di ottenere una nuova valutazione dei fatti di causa.

L’inammissibilità del ricorso e la prova del danno

Il fulcro della decisione risiede nell’applicazione dei principi sulla prova presuntiva (art. 2729 c.c.). La Corte ha chiarito che il giudice di merito può fondare la propria decisione su presunzioni, a patto che queste siano ‘gravi, precise e concordanti’. Nel caso di specie, la Corte d’Appello aveva correttamente identificato un fatto storico provato e grave: la sistematica e pluriennale violazione dell’obbligo di concedere la pausa.

Il valore della prova presuntiva nel danno da usura psico-fisica

La Cassazione ha stabilito che da questo fatto noto (la mancata pausa) si può logicamente inferire il fatto ignoto (l’esistenza di un danno da usura psico-fisica). La pausa, come specificato anche dall’art. 8 del d.lgs. 66/2003, non è una mera concessione, ma uno strumento essenziale per permettere al lavoratore il recupero delle energie e la tutela della sua integrità. La sua sistematica negazione, specialmente in un settore ad alto stress come quello sanitario, costituisce un elemento sufficiente a fondare una presunzione di danno.

Le Motivazioni

La Corte di Cassazione ha ritenuto che il ragionamento della Corte d’Appello fosse immune da vizi logici o giuridici. La critica dell’azienda ricorrente non contestava una violazione dei paradigmi normativi della prova presuntiva, ma si limitava a proporre una diversa ricostruzione delle circostanze fattuali e un’inferenza probabilistica alternativa. Questo tipo di critica, che attiene al merito della vicenda, non può trovare spazio nel giudizio di Cassazione, che è un giudizio di legittimità e non di fatto.

I giudici hanno quindi concluso che l’accertamento compiuto dalla corte territoriale, che ha ritenuto illegittima la condotta datoriale protrattasi per anni e ha presunto il conseguente danno all’integrità psico-fisica, è insindacabile in questa sede. Gli elementi presuntivi individuati (la violazione sistematica della norma sulla pausa e la sua durata nel tempo) sono stati considerati idonei a supportare la motivazione della sentenza impugnata.

Le Conclusioni

Questa ordinanza consolida un importante principio a tutela dei lavoratori: il danno da usura psico-fisica non richiede sempre una prova diretta e complessa, come perizie medico-legali specifiche per ogni lavoratore. Quando il datore di lavoro pone in essere una condotta palesemente e continuativamente illegittima, la cui finalità normativa è proprio quella di prevenire tale danno (come la negazione della pausa), il giudice può legittimamente presumere che il pregiudizio si sia verificato. Per le aziende, ciò rappresenta un monito a rispettare scrupolosamente le normative sull’orario di lavoro, poiché la loro violazione sistematica può portare a condanne risarcitorie basate su una prova presuntiva del danno.

Il danno da usura psico-fisica per mancata pausa deve essere sempre provato con perizie mediche?
No. Secondo la Corte, in caso di condotta datoriale illecita, protratta per molti anni e intrinsecamente lesiva (come la sistematica negazione della pausa), il danno può essere ritenuto provato in via presuntiva, senza che ogni lavoratore debba fornire una specifica prova medica delle conseguenze.

La semplice mancata fruizione della pausa obbligatoria è sufficiente per ottenere il risarcimento?
Sì. La Corte ha ritenuto che la violazione sistematica dell’obbligo di concedere la pausa, essendo una condotta finalizzata proprio a impedire il recupero delle energie psico-fisiche, è un elemento sufficiente per presumere l’esistenza del danno e il conseguente diritto al risarcimento.

L’aver predisposto una sala relax esonera il datore di lavoro da responsabilità?
No. Nel suo ricorso, l’azienda ha sostenuto che la presenza di locali per il riposo dovesse essere valutata. Tuttavia, la Corte ha rigettato questa argomentazione, implicitamente affermando che la predisposizione di tali locali non sostituisce né sana l’illecito derivante dalla mancata concessione della pausa formalmente prevista dalla legge.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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