Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 21363 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 21363 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 30/07/2024
ORDINANZA
sul ricorso 13327-2022 proposto da:
NOME COGNOME, elettivamente domiciliato in Roma, INDIRIZZO, presso lo studio degli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME (RAGIONE_RAGIONE_SOCIALEALE) che lo rappresentano e difendono unitamente all’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
RAGIONE_RAGIONE_SOCIALEALE, in persona dei legali rappresentanti pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO, presso lo RAGIONE_RAGIONE_SOCIALEALE, rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME RAGIONE_RAGIONE_SOCIALEALE, NOME COGNOME, NOME COGNOME;
Oggetto
Differenze retributive e risarcimento danno dirigente
R.G.N. NUMERO_DOCUMENTO/2022
COGNOME.
Rep.
Ud. 28/05/2024
CC
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 4006/2021 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 12/11/2021 R.G.N. 2967/2017; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 28/05/2024 dal AVV_NOTAIO COGNOME.
Fatti di causa
La Corte d’appello di Roma, con la sentenza in atti, ha rigettato il gravame proposto da NOME COGNOME avverso la sentenza del tribunale di Roma che aveva respinto tutte le sue domande volte ad ottenere la condanna della RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE S.p.A. al pagamento del premio previsto nel contratto di assunzione relativamente agli anni dal 2008 al 2013, al risarcimento del danno per il caso in cui non potesse essere quantificato il bonus spettante, al pagamento delle differenze dovute sul TFR e sul preavviso, al risarcimento del danno alla professionalità derivante demansionamento.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione NOME NOME con tre motivi, cui ha resistito RAGIONE_RAGIONE_SOCIALEALE, già RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_RAGIONE_SOCIALEALE SRAGIONE_RAGIONE_SOCIALEALE.A. con controricorso. Il ricorrente ha depositato memoria. Il collegio ha riservato la motivazione, ai sensi dell’art. 380bis1, secondo comma, ult. parte c.p.c.
Ragioni della decisione
Col primo motivo di ricorso si sostiene la violazione e/o falsa applicazione ex articolo 360 numero 3 e numero 5 c.p.c. per errata interpretazione dell’articolo 1362 c.c., omessa valutazione dell’interpretazione del documento assuntivo alla luce dell’articolo 1366, dell’articolo 1369 e dell’articolo 1370 c.c. Errato riferimento esclusivo all’interpretazione letterale della
clausola contrattuale, omesso accoglimento di determinati capitoli di prova.
Secondo il ricorrente la Corte d’appello avrebbe errato nell’interpretazione della clausola contrattuale riferita agli incentivi, in particolare per non avere indagato quale fosse stata la comune intenzione delle parti non potendosi limitare il giudice al senso letterale delle parole; atteso che sotto la voce incentivi inserita nel contratto del dottor COGNOME venivano previste due componenti retributive, variabili e sostanzialmente autonome. La prima era una premialità strettamente riferita al budget relativo alla filiale di Roma cui il COGNOME era assegnato e consisteva nell’erogazione una tantum dell’importo di 50 milioni di lire. La seconda totalmente diversa, avrebbe dovuto essere erogata a regime al COGNOME e quindi come bonus calcolato su base annuale, definito non più in relazione alle acquisizioni originarie da lui procurate ma in relazione agli utili netti raggiunti dalla banca nel suo complesso, definiti nel dato azionisti superante la franchigia di 500 milioni che gli consideravano loro intoccabile area di riserva dei profitti .
La Corte d’appello non aveva ammesso le prove testimoniali per capire il contesto entro cui era stata concordata quella clausola. Non aveva tenuto conto della mancanza di criteri idonei a dimostrare la tesi della RAGIONE_SOCIALE ed ha affermato apoditticamente la propria tesi basandosi si elementi di ordine letterale. Il Tribunale aveva utilizzando contro il ricorrente un unico insignificante elemento comportamentale quello relativo all’incasso nel 2011 da parte del COGNOME della somma erogata a titolo di incentivo e ciò solo perché lo stesso non avrebbe eccepito l’insufficienza.
La Corte d’appello invece nulla aveva fatto per indagare la comune intenzione delle parti che avrebbe imposto un esame
attento del contesto in cui il COGNOME venne assunto, da dove lo stesso provenisse, quale fosse il suo ruolo, sia nella tempistica tecnica di lancio della banca sia nei suoi sviluppi.
1.2.- Il motivo va disatteso posto che nella pur succinta motivazione adottata sul punto dalla Corte di appello non sono riscontrabili i vizi dedotti con le censure sollevate nel ricorso dalla parte ricorrente.
1.3. Non risultano anzitutto violati i criteri di ermeneutica contrattuale denunciati.
La Corte di appello ha bensì confermato innanzitutto la motivazione adottata dal primo giudice (‘ come già correttamente ritenuto dal primo giudice il tenore letterale della previsione, nonché ragioni di ordine logico conducono ad affermare che l’utile netto, da prendere in considerazione per il premio incentivante in esame sia quello conseguito dalla filiale RAGIONE_RAGIONE_SOCIALEALE Roma ‘). Ed ha pure espressamente giustificato il richiamo alle ragioni di ordine letterale e logico a cui ha fatto riferimento e che risultano suffragate, congiuntamente, dalla considerazione che i risultati da prendere a base del bonus dovessero essere ‘ direttamente ricollegabili all’attività svolta dal COGNOME quale responsabile della struttura ‘.
Si tratta di un’opzione interpretativa, chiaramente presente nella motivazione della sentenza; ed essa deve ritenersi coerente e conforme a diritto e pertanto tutt’altro che tautologica.
1.4. Anche il riferimento alla lettera della clausola appare parimenti giustificato in considerazione della complessiva formulazione della stessa, nella quale si fa riferimento alla filiale ed al ruolo di responsabile della filiale.
Non si capirebbe in ogni caso, secondo l’ipotesi di totale autonomia delle due previsioni in discorso sostenuta dal
ricorrente, come il COGNOME potesse aspirare al conseguimento di premi a prescindere dai risultati della filiale e giovarsi esclusivamente dei risultati ottenuti da altri lavoratori e collaboratori della RAGIONE_SOCIALE.
1.5. Non è contestato, inoltre, che il significato attribuito concordemente dai due giudici di merito alla clausola sia sostenuto anche dal comportamento successivo delle parti ed anche dall’attuazione dell’accordo sul punto in questione.
Non essendo, invero, discusso che nel 2011 il ricorrente abbia ricevuto la liquidazione del premio con riferimento ai risultati della propria filiale, e senza muovere alcuna doglianza in proposito. Non si spiega perché questa vicenda attuativa del negozio avrebbe dovuto essere ritenuta irrilevante dai giudici del merito quando al contrario configura un concreto comportamento delle parti che contribuisce a svelare il significato della clausola anche con riferimento alla loro comune intenzione.
1.6. La doglianza relativa all’omessa ammissione delle prove testimoniali, per come formulate, non risulta decisiva atteso il tenore generico, ipotetico e non decisivo (Cass. n. 4716/2022) delle stesse deduzioni istruttorie.
1.7.- Ciò detto, risulta altresì evidente come il ricorrente non censuri in realtà una errata applicazione dei criteri interpretativi negoziali previsti dalla legge, quanto piuttosto il risultato dell’attività ermeneutica in quanto tale, siccome non rispondente a quello desiderato dalla parte.
Come noto, invece, anche l’accertamento della volontà negoziale si sostanzia in un accertamento di fatto (tra molte, Cass. n. 9070 del 2013; Cass. n. 12360 del 2014), riservato all’esclusiva competenza del giudice del merito (cfr. Cass. n. 17067 del 2007; Cass. n. 11756 del 2006); tali valutazioni del
giudice di merito soggiacciono sì, nel giudizio di cassazione, ad un sindacato circa la verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, ma la denuncia della violazione delle regole che presiedono all’interpretazione dei contratti non p uò certo risolversi nella mera contrapposizione di una interpretazione diversa da quella criticata (tra le innumerevoli: Cass. n. 18375 del 2006; Cass. n. 12468 del 2004; Cass. n. 22979 del 2004, Cass. n. 7740 del 2003; Cass. n. 12366 del 2002; Cass. n. 11053 del 2000).
Nella specie, al cospetto dell’approdo esegetico cui è pervenuta la Corte distrettuale, la parte ricorrente, nella sostanza, si limita a rivendicare un’alternativa interpretazione più favorevole; ma per sottrarsi al sindacato di legittimità quella data dal giudice al testo negoziale non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; sicché, quando di un testo negoziale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito – alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito – dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l’altra (Cass. n. 10131 e 18735 del 2006).
1.8. E’ altresì opportuno ricordare più in generale che costituisce ius receptum che sia devoluto al giudice del merito l’individuazione delle fonti del proprio convincimento, e pertanto anche la valutazione delle prove, il controllo della loro attendibilità e concludenza, la scelta, fra le risultanze istruttorie, di quelle ritenute idonee ad acclarare i fatti oggetto della controversia, privilegiando in via logica taluni mezzi di prova e disattendendone altri, in ragione del loro diverso spessore probatorio, con l’unico limite della adeguata e congrua motivazione del criterio adottato; conseguentemente, ai fini di una corretta decisione, il giudice non è tenuto a valutare
analiticamente tutte le risultanze processuali, ne’ a confutare singolarmente le argomentazioni prospettate dalle parti, essendo invece sufficiente che egli, dopo averle vagliate nel loro complesso, indichi gli elementi sui quali intende fondare il suo convincimento e l’iter seguito nella valutazione degli stessi e per le proprie conclusioni, implicitamente disattendendo quelli logicamente incompatibili con la decisione adottata.
2.- Con il secondo motivo, in via subordinata (in quanto riferito al bonus in relazione al risultato della filiale di Roma), viene dedotta la violazione e falsa applicazione dell’articolo 2697 c.c. e degli articoli 115, 116 e 132 c.p.c. nonché violazione e falsa applicazione degli articoli 1218, 1226, 2043, 1353, 1358, 1359, 1362 e 1375 c.c. Omessa e insufficiente valutazione della prova, omesso rilievo dei dati presuntivi al fine della prova anche in ordine al danno subito dal lavoratore, e omesso accoglimento della richiesta di c.t.u. tecnico contabile.
Si sostiene che la sentenza impugnata abbia ritenuto in modo del tutto illegittimo che il dottor COGNOME dovesse farsi carico di dimostrare il raggiungimento del risultato utile netto di filiale, anno per anno, per ottenere l’incentivo previsto dal contratto di lavoro, sebbene la società non avesse mai fornito un qualsiasi criterio di calcolo per il suddetto utile. Al contrario, la clausola incentivante non poteva che essere letta in termini di condizione risolutiva con conseguente onere a carico della banca. Non poteva certamente ipotizzarsi che gli utili della filiale di Roma siano sempre stati al di sotto di € 258.000; al riguardo era sufficiente osservare il documento 17 allegato alla memoria difensiva di primo grado avversaria che si riporta in ricorso; la gestione degli assets patrimoniali per centinaia di milioni di euro non poteva certamente comportare un utile netto inferiore ad € 258.000. Contrariamente a quanto affermato nella sentenza
impugnata la perizia prodotta da COGNOME aveva correttamente esaminato i bilanci della RAGIONE_RAGIONE_SOCIALEALE
2.1. -Il motivo è inammissibile e va pertanto disatteso.
La Corte d’appello ha affermato sul punto che il secondo ed il terzo motivo di gravame fossero infondati poiché doveva convenirsi col tribunale circa la mancanza di allegazioni (e di prova) sulla circostanza legittimante la pretesa della corresponsione del bonus e cioè sulla produzione di un’utile netto della filiale di Roma nella misura superiore alla soglia euro 258.222 indicata nel contratto di assunzione.
Il ricorrente non aveva quindi dedotto l’ammontare dell’utile prodotto dalla filiale negli anni per cui è causa. Né a tal fine, secondo la Corte di appello, poteva ritenersi idonea la perizia contabile allegata al ricorso introduttivo, richiamata anche in appello, posto che tale perizia non conteneva dati fattuali ma piuttosto ipotesi di determinazione dell’utile netto e del conseguente premio incentivante.
Il consulente aveva determinato la quota dell’utile netto complessivo imputabile alla filiale di Roma utilizzando il divario del rapporto dei ricavi prodotti dalla filiale sul totale dei ricavi della banca. Tale criterio era assolutamente discrezionale e comunque non corretto, atteso che non era dato evincere come la proporzione fra i ricavi complessivi della banca e quelli della filiale di Roma si riproducessero in egual misura tra gli utili netti dei due complessi aziendali in particolare senza tener conto dei relativi costi gravanti su di essi.
Ha inoltre affermato la Corte che fosse destituita di fondamento la doglianza relativa alla mancata comunicazione da parte della banca dei criteri di calcolo dell’utile della sede di Roma che a dire del ricorrente non gli avrebbe consentito di concorrere concretamente per il riconoscimento dell’incentivo pattuito al
momento dell’assunzione. Non era dato apprezzare in che modo tale asserita mancata comunicazione avesse potuto incidere sulla produzione degli utili da parte della filiale di Roma e – conseguentemente laddove fosse stata raggiunta la soglia dei 500 milioni di lire previste nel contratto – sul conseguimento del premio incentivante spettante al COGNOME.
2.2.- Alla luce di tali chiare premesse vanno, in primo luogo, dichiarate inammissibili le censure con cui il ricorrente deduce il superamento del target fissato per il bonus in oggetto (in relazione all’utile imputabile alla filiale di Roma) senza censurare l ‘ assorbente ratio decidendi fondata sulla preliminare mancanza di allegazione (e di prova) del tetto aziendale e del suo superamento.
2.3. In secondo luogo, occorre rilevare che gli accertamenti di fatto non sono comunque sindacabili in sede di legittimità oltre i limiti imposti dal novellato art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., così come rigorosamente interpretato dalle Sezioni unite di questa Corte con le sentenze n. 8053 e n. 8054 del 2014 (con principi costantemente ribaditi dalle stesse Sezioni unite v. n. 19881 del 2014, n. 25008 del 2014, n. 417 del 2015, oltre che dalle Sezioni semplici), di cui parte ricorrente non tiene conto, pretendendo piuttosto una rivalutazione degli accadimenti storici ed una revisione del giudizio di fatto non ammissibile in questa sede.
2.4. Devono, in ogni caso, ritenersi inammissibili le stesse censure con cui il ricorrente sostiene che dalla documentazione in atti si deduca il superamento del tetto atteso che si tratta di un accertamento comunque precluso dalla ricorrenza di un caso d i ‘doppia conforme’ , senza che sia stato nemmeno allegata la diversità delle motivazioni rese dai due giudici che hanno proceduto all’accertamento di cui si tratta assumendo, appunto,
che, contrariamente a quanto affermato dall’odierno ricorrente, mancasse l’allegazione e la prova della produzione di un’utile netto della filiale di Roma nella misura superiore alla soglia di € 258.222 indicata nel contratto di assunzione.
2.5. Non può essere accolta neppure la immotivata tesi della condizione risolutiva ossia che il bonus fosse stata già stabilito ab initio nel contratto salvo la prova contraria del mancato raggiungimento dell’utile. La struttura della clausola che condiziona il diritto al bonus al raggiungimento di determinati obbiettivi di gestione è riconducibile piuttosto ad una condizione sospensiva (in conformità alle pronunce di questa Corte nn.1181/2012, 5492/2010, 18031/2020).
2.6. Quanto alla doglianza relativa alla reiezione della domanda risarcitoria avanzata dal ricorrente, non risulta censurata in modo pertinente l’affermazione sulla irrilevanza della comunicazione dei criteri di calcolo dell’utile della sede di Roma, né la mancata comunicazione dei criteri di riparto dei costi banca.
3.- Come terzo motivo si deduce la violazione e/o falsa applicazione degli articoli 24 e 111 Costituzione e dell’articolo 276 c.p.c. per errata applicazione del criterio della ragione più liquida. Omessa pronuncia sulla domanda di accertamento del demansionamento anche in violazione degli articoli 112, c.p.c., 99 c.p.c. , 2907 c.c., articolo 2103 c.c. e sull’omesso rilievo dei dati presuntivi al fine della prova del danno, in violazione degli articoli 2727 e 2729 c.c.
Si sostiene che la Corte d’appello, con riferimento al demansionamento dedotto in ricorso , a partire dal 2012 e fino alla data del licenziamento nel 10 dicembre 2013, non si fosse pronunciata sulla domanda di accertamento dell’illegittimo ius variandi posto in essere dalla RAGIONE_SOCIALE in violazione dell’art. 2103
c.c. e che avesse rigettato direttamente la pretesa di risarcimento del danno, in presunta applicazione del criterio della cosiddetta ragione più liquida ovvero sull’assunto che il ricorrente non avesse adempiuto ad una specifica allegazione del danno professionale lamentato, essendosi limitato ad una deduzione del tutto generica senza allegare alcuno specifico e concreto riferimento alla propria condizione personale.
3.1. Il motivo denuncia, nella sostanza, l’errata interpretazione del ricorso introduttivo della lite sul punto della sufficienza delle allegazioni sul danno alla professionalità, per aver i giudici di merito fatto ricorso al criterio della ragione più liquida così contravvenendo al corretto ordine con cui andrebbe accertata la dequalificazione di un lavoratore, dovendosi procedere dai fatti inerenti all’illecito di natura professionale per arrivare solo dopo alle conseguenze.
Il motivo risulta fondato. Ed invero il ricorrente aveva dedotto in ricorso che le azioni di dequalificazione si fossero tradotte inizialmente nella sottrazione delle mansioni di maggiore responsabilità e prestigio, inerenti all’attività di sviluppo nei rapporti commerciali, accompagnata dalla nomina di un nuovo direttore della sede di Roma, con inevitabile discreto della sua figura professionale. Inoltre, il ricorrente aveva affermato di essere stato totalmente esautorato da ogni mansione venendo limitata la sua attività alla sola vigilanza della contabilità, integrandosi l’ipotesi dello spoglio mansionistico.
Risulta poi, dalla stessa sentenza gravata, che il ricorrente avesse pure affermato di essere stato demansionato ed esautorato dalle mansioni con ‘evidenti conseguenze alla professionalità del lavoratore ed un forte discredito della persona nei confronti dei propri colleghi e all’esterno della ba nca …inevitabilmente incidendo sulla sua vita relazionale e
privata/familiare…ha compromesso la professionalità ed il prestigio del lavoratore anche nei confronti dei titolari dei patrimoni dallo stesso gestiti’.
3.4. Questa Corte ritiene che le allegazioni sui danni non fossero mancanti, essendo stati dedotti altri fatti ed elementi di prova relativi al demansionamento (alla sua natura, durata, consistenza) dai quali, attraverso un giudizio logico complessivo, i giudici di merito potevano desumere la dimostrazione delle conseguenze lesive, anche per via induttiva, applicando il consueto schema presuntivo seguito in materia di danni alla professionalità dalla consolidata giurisprudenza di legittimità, sulla base dello svolgimento della istruttoria relativa alla specifica vicenda ed alle particolari caratteristiche dell’attività svolta dal lavoratore danneggiato , prima e dopo l’asserito demansionamento.
3.5. E’ opportuno ricordare in materia che, come affermato anche di recente da questa Corte (Cass. n. 48/2024), ‘quando il lavoratore alleghi un demansionamento riconducibile ad inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell’art. 2103 c.c., incombe su quest’ultimo l’onere di provare l’esatto adempimento del proprio obbligo: o attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero attraverso la prova che l’adibizione a mansioni inferiori fosse giustificata dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali oppure, in base all’art. 1218 c.c., a causa di un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (v. Cass. n. 4766 del 2006; n. 4211 del 2016; v. in motivazione Cass. n. 1169 del 2018; n. 17365 del 2018; n. 22488 del 2019). 3.6. Inoltre, è stato pure ribadito (Cass.n. 6275/2024) che, sebbene sia vero che ‘ il danno da demansionamento non è in re ipsa (cfr. Cass. Sez. Un. n. 6572/2006; Cass. 6.12.2005 n.
26666); lo stesso orientamento giurisprudenziale ha precisato che la prova di tale danno può essere data, ai sensi dell’art. 2729 c.c., anche attraverso l’allegazione di presunzioni gravi, precise e concordanti, sicché a tal fine possono essere valutati, quali elementi presuntivi, la qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata qualificazione (cfr. Cass. n. 14729 del 2006; Cass. n. 29832 del 2008; da ultimo, fra le tante, cfr. Cass. n. 3822 del 2021). ‘
3.7. Infine, particolarmente in caso di inattività prolungata o sostanziale svuotamento delle mansioni, è ius receptum (tra le tante, Cass. nn. 10/2002, 2763/2003, 7693/2012, 10267/2024) che sussista un’evidente lesione dell’articolo 2103 c.c., sussistendo il diritto del lavoratore all’esecuzione della propria prestazione lavorativa; e che la fattispecie costituisce, al tempo stesso, danno alla professionalità da inattività forzata, poiché il fatto di non aver potuto esercitare la propria prestazione professionale, per un apprezzabile periodo di tempo, oltre all’immagine, lede la vita professionale e di relazione, e cagionando il depauperamento del patrimonio professionale; e conseguentemente incide sulla ricollocabilità sul mercato del lavoro, con una indubbia dimensione patrimoniale che rende il pregiudizio medesimo suscettibile di risarcimento e di valutazione, anche in via equitativa.
3.8. Poiché dalle allegazioni contenute nel ricorso introduttivo del giudizio risultano circostanze di fatto che possono essere valutate ai fini dell’accertamento di un eventuale danno, patrimoniale e/o non patrimoniale, occorrerà procedere comunque al relativo accertamento sull’an e sul quantum della pretesa risarcitoria in questione.
4.- Il terzo motivo di ricorso deve essere dunque accolto; mentre vanno rigettati il primo ed il secondo motivo.
La sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al motivo accolto e la causa rimessa al giudice di rinvio indicato in dispositivo il quale dovrà provvedere altresì sulle spese del giudizio di cassazione, conformandosi ai principi sopra espressi.
P.Q.M.
La Corte accoglie il terzo motivo di ricorso, rigetta il primo ed il secondo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di cassazione.
Così deciso nella camera di consiglio del 28.5.2024