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Danno da demansionamento: onere della prova e risarcimento

Un medico subisce una riduzione dell’attività chirurgica dal suo superiore. La Cassazione conferma la condanna dell’Azienda Sanitaria per danno da demansionamento, chiarendo l’onere della prova a carico del lavoratore e la possibilità di liquidazione equitativa del danno patrimoniale alla professionalità.

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Pubblicato il 19 ottobre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Danno da demansionamento: onere della prova e risarcimento

Il demansionamento sul luogo di lavoro rappresenta una delle violazioni più lesive della dignità e della professionalità del lavoratore. Ma cosa succede quando questo comportamento è posto in essere da un superiore gerarchico? Chi ne risponde e come si può ottenere un risarcimento? Una recente ordinanza della Corte di Cassazione fa luce su questi aspetti, delineando i confini della responsabilità del datore di lavoro e i criteri per la prova del danno da demansionamento.

I Fatti di Causa

La vicenda ha origine dalla denuncia di un medico che si è visto progressivamente emarginato dall’attività chirurgica all’interno della struttura sanitaria pubblica per cui lavorava. Il lavoratore lamentava una drastica riduzione degli interventi chirurgici assegnatigli e un ingiustificato cambiamento del suo ruolo, da ‘secondo reperibile’ a ‘primo reperibile’, che di fatto lo escludeva dagli interventi urgenti. Tali condotte, secondo il medico, erano state poste in essere dal suo diretto superiore, configurando una dequalificazione professionale e un danno alla sua carriera.

Il Percorso Giudiziario

In primo grado, il Tribunale aveva respinto integralmente le domande del lavoratore, non ritenendo provata né una condotta di mobbing né altre condotte lesive. La Corte d’Appello, invece, ha ribaltato parzialmente la decisione. Pur escludendo il mobbing, i giudici di secondo grado hanno riconosciuto la sussistenza di un demansionamento, condannando l’Azienda Sanitaria a risarcire il lavoratore con una somma liquidata in via equitativa. Inoltre, la Corte ha condannato il dirigente, chiamato in causa dall’Azienda, a tenere indenne quest’ultima per gran parte della somma dovuta al dipendente.

L’Azienda Sanitaria ha quindi proposto ricorso in Cassazione, contestando la decisione della Corte d’Appello su diversi punti, tra cui l’errata applicazione delle norme sull’onere della prova e sulla valutazione del danno.

Danno da demansionamento: i motivi del ricorso

L’ente sanitario ha basato il proprio ricorso su quattro motivi principali:
1. Omesso esame di un fatto decisivo: L’Azienda sosteneva che la sua responsabilità derivasse non da una violazione diretta (ex art. 2087 c.c.), ma da una responsabilità per fatto illecito del preposto (ex art. 2049 c.c.), con un regime probatorio diverso e più gravoso per il lavoratore.
2. Errata applicazione delle norme sul demansionamento e sull’onere della prova: Secondo la ricorrente, la Corte d’Appello aveva erroneamente ritenuto provati i fatti sulla base della mancata contestazione, nonostante l’Azienda avesse sempre negato il mobbing e difeso la legittimità delle scelte organizzative del dirigente.
3. Insussistenza della prova del danno: L’Azienda contestava la sussistenza stessa del danno, sostenendo che la riduzione degli interventi non fosse stata così prolungata da deprimere la professionalità del medico.
4. Discrezionalità del dirigente: Infine, si affermava che le scelte del dirigente rientrassero nella sua autonomia organizzativa e non potessero essere qualificate come illecite.

Le Motivazioni della Cassazione

La Corte di Cassazione ha rigettato tutti i motivi del ricorso, confermando la decisione d’appello. Gli Ermellini hanno chiarito principi fondamentali in materia di danno da demansionamento.

In primo luogo, la Corte ha ribadito che il datore di lavoro ha un obbligo contrattuale di proteggere la professionalità del dipendente. Questo obbligo non viene meno nemmeno di fronte all’autonomia organizzativa di un dirigente. L’Azienda è tenuta a vigilare sull’operato dei suoi preposti e a intervenire se le loro scelte ledono i diritti dei lavoratori. La responsabilità del datore di lavoro è quindi diretta e deriva dall’inadempimento dell’obbligo di tutelare il lavoratore.

Per quanto riguarda l’onere della prova, la Cassazione ha precisato che spetta al lavoratore allegare e provare i fatti costitutivi del demansionamento (ad esempio, la riduzione qualitativa e quantitativa delle mansioni). Una volta provata la dequalificazione, il danno patrimoniale alla professionalità può essere desunto dal giudice anche in via presuntiva e liquidato equitativamente. Non è necessaria una prova rigorosa del suo esatto ammontare. La Corte territoriale ha correttamente applicato questo principio, basando la sua decisione sui fatti non specificamente contestati dall’Azienda e valutando il danno in base a elementi concreti come la durata del demansionamento e il tipo di professionalità colpita.

La Corte ha inoltre dichiarato inammissibili i motivi con cui l’Azienda cercava di ottenere una nuova valutazione dei fatti, ricordando che il giudizio di legittimità non può trasformarsi in un terzo grado di merito.

Le Conclusioni

Questa ordinanza consolida un importante principio a tutela dei lavoratori: il datore di lavoro è sempre il garante della professionalità dei suoi dipendenti e non può nascondersi dietro la discrezionalità dei suoi dirigenti. L’azienda ha il dovere di vigilanza e di intervento per prevenire e far cessare condotte lesive. Per i lavoratori, la sentenza conferma che, una volta dimostrata l’ingiusta dequalificazione, il risarcimento del danno alla professionalità può essere ottenuto anche attraverso una valutazione presuntiva ed equitativa del giudice, senza la necessità di fornire una prova complessa del pregiudizio economico subito.

Quando è responsabile il datore di lavoro per il demansionamento causato da un superiore gerarchico?
Il datore di lavoro è sempre responsabile in via contrattuale. Ha l’obbligo di tutelare la professionalità del dipendente e di vigilare sull’operato dei suoi preposti, assumendo le iniziative necessarie quando l’esercizio del potere organizzativo del responsabile lede i diritti dei lavoratori.

Come si prova il danno patrimoniale da demansionamento?
Il lavoratore deve allegare e provare i fatti che costituiscono il demansionamento (es. la riduzione delle mansioni). Una volta provata la dequalificazione, il giudice può desumere l’esistenza del danno alla professionalità in via presuntiva e determinarne l’entità in via equitativa, considerando la qualità e quantità dell’esperienza lavorativa, la durata del demansionamento e altre circostanze del caso.

L’autonomia organizzativa di un dirigente giustifica il demansionamento di un dipendente?
No. L’autonomia organizzativa del dirigente trova un limite invalicabile nel rispetto dell’obbligo generale di assegnare al lavoratore le mansioni di sua competenza, evitando di compromettere la sua qualificazione professionale. La violazione di questo obbligo costituisce un inadempimento contrattuale del datore di lavoro.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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