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Danno da demansionamento: guida alla prova e risarcimento

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza 7209/2024, ha rigettato il ricorso di un istituto di credito, confermando la condanna per aver demansionato un proprio dipendente, ex direttore di agenzia. La Corte ha ribadito che il danno da demansionamento può essere provato anche tramite presunzioni e che la sua quantificazione, effettuata in via equitativa come percentuale della retribuzione, è legittima se adeguatamente motivata.

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Pubblicato il 7 novembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Danno da demansionamento: la Cassazione chiarisce prova e risarcimento

Il danno da demansionamento è una delle questioni più delicate nel diritto del lavoro, poiché incide direttamente sulla professionalità e la dignità del lavoratore. Con l’ordinanza n. 7209 del 18 marzo 2024, la Corte di Cassazione è tornata sul tema, fornendo importanti chiarimenti su come si accerta il demansionamento, come si prova il danno conseguente e come si quantifica il risarcimento. L’analisi della Corte sottolinea l’importanza di una valutazione concreta delle mansioni, superando il mero confronto formale tra qualifiche.

Il caso: da direttore di agenzia a ruolo senza responsabilità

La vicenda riguarda un dipendente di un importante istituto di credito, con la qualifica di direttore di agenzia. A un certo punto, il lavoratore è stato assegnato a nuove mansioni di “addetto allo sviluppo”, un ruolo che, a suo dire, lo privava delle responsabilità funzionali, gerarchiche e di coordinamento del personale che caratterizzavano la sua precedente posizione.

La Corte d’Appello aveva dato ragione al lavoratore, riconoscendo il demansionamento e condannando la banca a un risarcimento pari al 30% della retribuzione percepita nel periodo interessato. L’istituto di credito ha quindi proposto ricorso in Cassazione, contestando sia l’esistenza del demansionamento sia la quantificazione del danno.

L’analisi della Corte sul danno da demansionamento

La Suprema Corte ha rigettato tutti i motivi di ricorso presentati dalla banca, confermando integralmente la decisione di merito. Il ragionamento dei giudici si è concentrato su due aspetti fondamentali: la corretta valutazione delle mansioni e la prova del danno.

La valutazione concreta delle mansioni

La Cassazione ha ribadito un principio cruciale: per verificare l’esistenza di un demansionamento, non è sufficiente un confronto astratto basato sulla declaratoria del contratto collettivo o sul livello di inquadramento. È necessario, invece, un esame concreto dei compiti effettivamente svolti.

Nel caso specifico, è emerso che:
– Il ruolo di direttore di agenzia comportava responsabilità funzionale, gestione di una struttura organizzativa e coordinamento di numerosi dipendenti.
– Il ruolo di addetto allo sviluppo, al contrario, si limitava alla promozione di servizi bancari, senza alcuna struttura operativa a disposizione né responsabilità gerarchica.

Anche se entrambe le figure professionali rientravano nella stessa area contrattuale, la differenza sostanziale nel contenuto professionale, nelle responsabilità e nel bagaglio di competenze richiesto era evidente. La Corte ha sottolineato che il baricentro dell’art. 2103 c.c. è la tutela della professionalità acquisita dal lavoratore. Pertanto, anche a fronte di una formale equipollenza, si ha demansionamento quando le nuove mansioni sono sostanzialmente inferiori e non consentono di salvaguardare e arricchire il patrimonio professionale del dipendente.

La prova presuntiva del danno da demansionamento

Un altro punto centrale del ricorso della banca riguardava la prova del danno. L’azienda sosteneva che il lavoratore non avesse fornito prove concrete del pregiudizio subito. La Cassazione ha respinto questa tesi, confermando l’orientamento consolidato secondo cui il danno da demansionamento può essere provato anche in via presuntiva.

Costituiscono indizi gravi, precisi e concordanti:
– La qualità e quantità dell’attività lavorativa precedentemente svolta.
– La natura della professionalità coinvolta.
– La durata del demansionamento (nel caso di specie, protrattosi per circa un anno).
– La diversa e nuova collocazione lavorativa.

Questi elementi, complessivamente considerati, possono essere sufficienti per dimostrare che l’impoverimento professionale ha avuto un impatto negativo sulla spendibilità del lavoratore nel mercato del lavoro, configurando così un danno patrimoniale risarcibile.

Le motivazioni della Corte di Cassazione

Nelle motivazioni, la Corte ha specificato che l’accertamento di merito, se logicamente argomentato, non è sindacabile in sede di legittimità. La Corte d’Appello aveva correttamente evidenziato come le nuove mansioni, di tipo statico e non relazionale, avessero compresso il bagaglio professionale del lavoratore, minato la sua immagine aziendale e impattato sulle sue capacità comunicative e organizzative.

Inoltre, la Corte ha ritenuto legittima la liquidazione del danno in via equitativa, secondo l’art. 1226 c.c. Utilizzare una quota della retribuzione (in questo caso il 30%) come parametro per quantificare il danno è una prassi consolidata, purché il percorso motivazionale del giudice sia congruo e sufficiente a sorreggere l’esercizio del potere discrezionale. La retribuzione, infatti, rappresenta un indice dell’importanza e del valore della prestazione lavorativa e può quindi essere usata come base per stimare il pregiudizio derivante dal suo svilimento.

Conclusioni: implicazioni pratiche della sentenza

Questa ordinanza rafforza la tutela del lavoratore contro il demansionamento, inviando un chiaro messaggio ai datori di lavoro. Le conclusioni che possiamo trarre sono le seguenti:
1. La sostanza prevale sulla forma: un cambio di mansioni è legittimo solo se i nuovi compiti sono concretamente equivalenti ai precedenti in termini di contenuto professionale e responsabilità, a prescindere dall’inquadramento formale.
2. La prova del danno può essere presuntiva: il lavoratore non è sempre tenuto a fornire una prova analitica e contabile del danno subito. La durata e la gravità del demansionamento possono essere di per sé sufficienti a far presumere l’esistenza di un pregiudizio professionale e patrimoniale.
3. Il risarcimento equitativo è valido: la quantificazione del danno come percentuale della retribuzione è un metodo legittimo se il giudice spiega adeguatamente le ragioni della sua scelta, basandosi su elementi come la durata e l’entità dello svilimento professionale.

Come si valuta se un cambio di mansioni costituisce demansionamento?
La valutazione non deve basarsi su un confronto astratto dei livelli di inquadramento, ma su un’analisi concreta delle nuove mansioni rispetto a quelle precedenti. È necessario verificare che i nuovi compiti siano aderenti alla specifica competenza tecnica del dipendente e tali da salvaguardarne il livello professionale acquisito, anche in una prospettiva di arricchimento del suo bagaglio di esperienze.

Come può un lavoratore provare di aver subito un danno da demansionamento?
Il danno può essere provato anche tramite presunzioni. Elementi come la qualità e la quantità dell’attività svolta in precedenza, la natura della professionalità, la durata del demansionamento e la nuova collocazione lavorativa costituiscono indizi gravi, precisi e concordanti che il giudice può utilizzare per ritenere provato il danno.

In che modo viene quantificato il risarcimento per il danno da demansionamento?
Quando è difficile provare l’esatto ammontare del danno, il giudice può procedere a una liquidazione in via equitativa. In questo contesto, è legittimo utilizzare come parametro una quota della retribuzione effettivamente percepita dal lavoratore, in quanto essa rappresenta un indicatore del valore della prestazione svilita.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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