Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 7209 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 7209 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 18/03/2024
ORDINANZA
sul ricorso 26907-2019 proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, (già RAGIONE_SOCIALE), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati NOME COGNOME, NOME COGNOME;
– ricorrente –
contro
COGNOME NOME, elettivamente domiciliato in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 140/2019 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 18/03/2019 R.G.N. 1229/2014;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 30/01/2024 dal AVV_NOTAIO COGNOME.
Fatti di causa
La Corte d’appello di Roma, con la sentenza in atti, in parziale accoglimento dell’appello principale proposto da COGNOME
Rep.
Ud. 30/01/2024
CC
NOME e in parziale riforma della sentenza impugnata, che confermava nel resto, ha condannato il RAGIONE_SOCIALE al risarcimento in favore di NOME COGNOME del danno da demansionamento per il periodo compreso tra il 13/3/2012 e il deposito del ricorso originario, liquidando il risarcimento dovuto nella misura del 30% della retribuzione globale di fatto percepita nel detto periodo, oltre accessori e spese liquidate per la metà.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione RAGIONE_SOCIALE con cinque motivi di ricorso ai quali ha resistito NOME COGNOME con controricorso.
Le parti hanno depositato memorie.
Il collegio ha riservato il deposito della motivazione all’esito della camera di consiglio.
Ragioni della decisione
1.- Col primo motivo di ricorso si sostiene la violazione e falsa applicazione degli artt. 2103, 2697 e 2727-2729 c.c. relativamente alla prova del danno da demansionamento avendo la sentenza d’appello ritenuto l’esistenza del danno alla professionalità in termini totalmente astratti ed apodittici.
2.- Con il secondo motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2103 e 2697 c.c. ex art.360 n. 3 c.p.c. per l’omesso accertamento da parte della sentenza d’appello del mancato assolvimento dell’onere della prova del danno da demansionamento da parte del lavoratore.
3.- Con il terzo motivo di ricorso per cassazione si è prospettata la violazione e falsa applicazione dell’articolo 1226 c.c. ex articolo 360 n. 3 c.p.c. per quanto riguarda la liquidazione del preteso danno alla professionalità sotto il profilo della quantificazione nei termini del 30% della retribuzione globale di fatto netta percepita dal convenuto in ragione della durata e dell’entità della demansionamento,
anche perché si parlava di un solo anno e di un demansionamento di limitata entità.
4.- Col quarto motivo di ricorso per cassazione si prospetta, ex art.360 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c. in ordine alla pretesa sussistenza del demansionamento, avendo la sentenza d’appello ritenuto che la mansione di addetto allo sviluppo fosse demansionante rispetto a quello di direttore di agenzia, in quanto la prima non avrebbe più comportato una responsabilità funzionale ossia la responsabilità di una struttura organizzativa e lo svolgimento di compiti direttivi e di controllo .
5.Col quinto motivo si sostiene la violazione falsa applicazione degli artt. 76 e 77 del CCNL per i quadri direttivi per il personale delle aree professionali dipendente delle imprese creditizie, finanziarie e strumentali dell’8 dicembre 2007 perché, diversamente da quanto sostenuto dalla sentenza appellata, il demansionamento è da escludersi quando lo svolgimento di un ruolo funzionale è, ai fini della declaratoria contrattuale collettiva, irrilevante.
Preliminarmente va osservato che sul piano logico giuridico assumono natura pregiudiziale, e vanno perciò trattati con precedenza rispetto ai primi tre motivi (che investono i danni), il quarto ed il quinto motivo che attengono all’an in relazione all’e sistenza di un illecito demansionamento.
7.- Ciò posto, il quarto motivo di ricorso deve essere respinto perché presenta profili di inammissibilità e profili di infondatezza.
La Corte d’appello ha confermato l’accertamento in fatto effettuato dal tribunale sulla natura demansionante delle mansioni di addetto sviluppo assegnate al COGNOME dopo il 9/3/2012, non essendo pienamente sovrapponibili a quelle di direttore di agenzia disimpegnate in precedenza sia quanto ad ampiezza di compiti, sia quanto a carico di responsabilità; ha poi ricordato che la stessa parte datoriale aveva
riconosciuto la mera similarità delle due posizioni, in quanto afferenti a ruoli ontologicamente diversi. Tanto premesso la Corte d’appello ha pure ribadito che il COGNOME quale direttore di agenzia era addetto ad un segmento aziendale con responsabilità funzionale e collocato in posizione sovraordinata ai numerosi dipendenti ad esso addetti che provvedeva a dirigere ed a controllare; e di contro, quale addetto allo sviluppo, provvedeva alla promozione di servizi bancari e finanziari nonché allo svolgimento delle attività propedeutiche alla apertura di conto corrente, senza disporre di alcuna struttura operativa, né di risorse sottostanti.
Né poteva rilevare in senso contrario, come pure correttamente osservato dalla Corte territoriale, l’evenienza che le due figure professionali al vaglio fossero riferibili alla medesima area contrattuale. Infatti, dall’esame della declaratoria di area si evinceva che la professionalità del direttore di agenzia era quella espressa dal quarto livello retributivo, che richiedeva la preposizione ad una struttura operativa autonoma aziendale cui fossero addetti almeno otto elementi oltre il titolare. Mentre per i livelli retributivi inferiori era sufficiente la preposizione ad uffici con operatività ridotta ossia con numero inferiore di risorse operanti ovvero la responsabilità di coordinamento e controllo di altri lavoratori e/o la fornitura di contributi professionali operativi o specialistici di natura tecnica o commerciale o amministrativa che richiedono applicazione intellettuale eccedente la semplice diligenza di esecuzione.
Secondo la Corte capitolina le mansioni svolte nel tempo dal COGNOME avevano espresso proprio la professionalità considerata nella declaratoria del quarto livello e poi degli inferiori livelli di riferimento; tanto che la prestazione lavorativa richiesta allo stesso dopo il 9/3/2012 si era discostata contenutisticamente da quella dovuta in precedenza, prevedendo compiti non più di tipo dinamico e
plurirelazionale, ma di tipo statico e senza contatti strutturati con personale di livello inferiore; ed altresì non richiedendo più alcuna responsabilità di preposizione, gerarchiche e funzionale a un certo Ufficio.
7.1. Quello sopra operato dai giudici di merito configura uno scrutinio conforme alle norme ed alla giurisprudenza di questa Corte, pure richiamata nella sentenza gravata, secondo cui premesso che il baricentro dell’art. 2103 c.c. è dato dalla protezione della professionalità acquisita dal prestatore di lavoro, il divieto di variazioni in peius delle mansioni opera anche quando al lavoratore, pur nella formale equipollenza delle precedenti e delle nuove mansioni, siano assegnati di fatto compiti sostanzialmente inferiori quanto a contenuto professionale; e che pertanto, nell’indagine circa l’esistenza o meno di una equivalenza tra i compiti a raffronto, non basta il riferimento in astratto a livello di categoria, ma è necessario accertare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza tecnica professionale del dipendente e siano tali da salvaguardarne il livello professionale acquisito, in una prospettiva dinamica di valorizzazione delle capacità di arricchimento del bagaglio di conoscenza e di esperienze (Cass. nn. 1916/2015, 5798/ 2013, Sez. Un. 25033/2006).
7.2 Il motivo è inoltre inammissibile laddove tende a rimettere in discussione la tipologia delle mansioni svolte in fatto, perché il relativo accertamento non può essere riconsiderato in questa sede di legittimità essendo pure coperto da ‘doppia conforme’ (cfr. art. 348 ter, ultimo comma, c.p.c., in seguito art. 360, comma 4, c.p.c., per le modifiche introdotte dall’art. 3, commi 26 e 27, d. lgs. n. 149 del 2022), senza indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono
tra loro diverse (v. Cass. n. 26774 del 2016; conf. Cass. n. 20944 del 2019).
8.- Il quinto motivo, col quale si sostiene la decisività, ai fini della configurazione del demansionamento, dello svolgimento di un ruolo funzionale rilevante alla luce della declaratoria contrattuale collettiva, è invece infondato atteso che il demansionamento accertato dalla Corte di appello è stato correttamente commisurato in concreto, in relazione alla specifica professionalità pregressa, al contenuto valoriale delle mansioni, al ruolo funzionale e gerarchico, al coordinamento ed alle responsabilità connesse; ed a nulla conta perciò il modo ampio con cui la figura professionale del quadro è regolato da parte del CCNL dal punto di vista delle mansioni riconducibili alla categoria. In punto, è stato infatti affermato che ‘ai fini della verifica del le gittimo esercizio dello “ius variandi” da parte del datore di lavoro, il giudice è tenuto a valutare la omogeneità tra le mansioni successivamente attribuite e quelle di originaria appartenenza, sotto il profilo della loro equivalenza in concreto rispetto alla competenza richiesta, al livello professionale raggiunto ed alla utilizzazione del patrimonio professionale acquisito dal dipendente, senza che assuma rilievo la clausola di fungibilità eventualmente prevista dalla contrattazione collettiva, che, sul piano formale, faccia rientrare entrambe le tipologie di mansioni nella medesima area operativa’ (Cass. n. 16594 del 03/08/2020).
8.1. Nemmeno è fondato, pertanto, argomentare in contrario dalla riforma dell’art. 2103 c.c. ad opera del d.lgs. 15 luglio 2015 n. 81 per negare rilevanza al giudizio di equivalenza in concreto, atteso che questa Corte ha già accertato l’esistenza di un discrimine nella regolamentazione dello ius variandi tra il periodo precedente e quello successivo alla indicata riforma; essendo stato pure affermato ( ordinanza n. 28240 del 06/11/2018) che ‘L’esercizio dello “ius variandi”
datoriale, vigente l’art. 2103 c.c. nella formulazione anteriore alla novella operata con il d.lgs. n. 81 del 2015, trova il suo limite nella salvaguardia del livello professionale raggiunto dal prestatore, sicché – pur in presenza dell’accorpamento convenzionale delle mansioni in una medesima qualifica l’equivalenza deve essere valutata in concreto dal giudice di merito, al fine di verificare che le nuove mansioni siano aderenti alla specifica competenza tecnico professionale acquisita dal dipendente.’
9.I primi tre motivi attengono all’esistenza, alla prova ed al quantum del danno da demansionamento liquidato dalla Corte di appello e possono essere affrontati unitariamente per la connessione che li avvince.
9.1. Essi sono infondati. La Corte di appello, quanto al danno patrimoniale da demansionamento, ha affermato che l’accertato demansionamento ha determinato la compressione del bagaglio professionale del lavoratore, ha impattato sulle capacità comunicative ed organizzative, minato la sua immagine professionale nel contesto aziendale di riferimento, inoltre si era protratto per un periodo apprezzabile di circa un anno ed era stato pertanto tale da impoverire la capacità professionale del lavoratore, considerata sul piano patrimoniale della sua spendibilità nel mercato.
Sulla scorta di tale motivato e congruo accertamento ha quindi liquidato, in conformità alle allegazioni attoree, il danno patrimoniale, prendendo a riferimento una quota della retribuzione nella misura del 30%; escludendo invece il danno esistenziale, morale e biologico per difetto di adeguata allegazione e prova.
9.2. Ciò la Corte territoriale ha fatto attraverso un accertamento del tutto in linea con la giurisprudenza di questa Corte sia sull’an, sia sulla prova, sia sul quantum (v. Cass. 19923/2019).
Occorre infatti considerare che, ai fini della dell’esistenza e della prova anche presuntiva del danno da demansionamento e dequalificazione professionale, costituiscono elementi indiziari gravi, precisi e concordanti la qualità e quantità dell’attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione (Cass. n. 25743 del 2018; n. 19778 del 2014; n. 4652 del 2009; n. 29832 del 2008); e che, per contro, l’accertamento in merito alle circostanze da cui il giudice ha argomentato, secondo un criterio di normalità necessaria, il contrasto con l’art. 2103 c.c. (anche in relazione al periodo di tempo apprezzabile) e la esistenza di un danno non può essere sindacato in questa sede attenendo alla quaestio facti. Essendo, peraltro, conforme all’art. 2697 c.c. sostenere che un periodo di un anno di demansionamento, per illecita adibizione a mansioni dequalificanti, debba essere apprezzato dal punto di vista della produzione di conseguenze pregiudizievoli per il lavoratore.
Inoltre, nell’ambito di una valutazione necessariamente equitativa, l’entità della retribuzione può essere legittimamente assunta a parametro del danno da demansionamento (v. Cass. n. 12253 del 2015; n. 7967 del 2002; n. 9228 del 2001) ed il parametro può essere rappresentato anche dalle retribuzioni effettivamente percepite (v. Cass. n. 7967/2002), come nella specie avvenuto, secondo un percorso motivazionale che sorregge a sufficienza l’esercizio del potere discrezionale di valutazione equitativa.
10.- Pertanto, alla stregua delle premesse il ricorso de quo va respinto. Le spese processuali seguono il regime della soccombenza, nella misura liquidata in dispositivo in favore della parte controricorrente; segue altresì il raddoppio del
contributo unificato ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535).
P.Q.M .
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese di lite, che liquida in complessivi euro 4500,00 per compensi e 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, di un importo pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso nella Adunanza camerale del 30.1.2024