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Costituzione in mora: non serve un nuovo atto

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 14051/2024, ha stabilito un principio fondamentale in materia di interposizione illecita di manodopera. Nel caso esaminato, una lavoratrice, dopo aver ottenuto una sentenza che accertava il suo rapporto di lavoro con l’azienda utilizzatrice, si era vista negare le retribuzioni successive alla sentenza perché, secondo la Corte d’Appello, non aveva inviato un nuovo atto di costituzione in mora. La Cassazione ha ribaltato tale decisione, affermando che il ricorso introduttivo con cui si chiede l’accertamento del rapporto e la riammissione in servizio è già di per sé un atto idoneo a costituire in mora il datore di lavoro (mora credendi), facendo sorgere l’obbligo retributivo dal momento della sentenza senza necessità di ulteriori atti.

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Pubblicato il 16 novembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Costituzione in Mora: Non Serve un Nuovo Atto Dopo la Sentenza

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha fatto luce su un aspetto cruciale per i lavoratori coinvolti in casi di appalti illeciti. La Suprema Corte ha stabilito che l’atto con cui si avvia la causa per l’accertamento del rapporto di lavoro è sufficiente come costituzione in mora del datore di lavoro. Questo significa che non è necessario un ulteriore atto formale per richiedere le retribuzioni maturate dopo la sentenza di accertamento. Analizziamo insieme questa importante decisione.

I Fatti del Caso

La vicenda riguarda una lavoratrice formalmente assunta da una società di servizi, ma di fatto impiegata presso una grande azienda committente. A seguito del licenziamento da parte della società appaltatrice, la lavoratrice si è rivolta al Tribunale, che ha riconosciuto l’esistenza di un’interposizione illecita di manodopera.

Con una prima sentenza, il giudice ha quindi dichiarato:
* L’inefficacia del licenziamento.
* L’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato direttamente con l’azienda committente.
* La condanna di quest’ultima a ripristinare il rapporto e a pagare le retribuzioni dal giorno del licenziamento fino all’effettiva reintegra.

Dopo questa vittoria, la lavoratrice ha chiesto e ottenuto un decreto ingiuntivo per le retribuzioni maturate nel periodo successivo alla sentenza e fino alla sua effettiva riammissione al lavoro. Tuttavia, l’azienda si è opposta a tale richiesta.

La Decisione della Corte d’Appello

In secondo grado, la Corte d’Appello ha sorprendentemente dato ragione all’azienda, revocando il decreto ingiuntivo. Secondo i giudici d’appello, per ottenere le retribuzioni successive alla prima sentenza era necessario un nuovo e specifico atto di costituzione in mora. Il ragionamento si basava sulla distinzione tra l’obbligo risarcitorio (per il periodo precedente alla sentenza) e l’obbligo retributivo (per il periodo successivo). Secondo questa interpretazione, l’obbligo retributivo sorge solo con la sentenza, e quindi richiederebbe una nuova intimazione formale per essere esigibile.

La Costituzione in Mora secondo la Cassazione

La lavoratrice ha impugnato la decisione davanti alla Corte di Cassazione, che ha accolto il suo ricorso, cassando la sentenza d’appello. La Suprema Corte ha chiarito un punto fondamentale, distinguendo tra mora debendi (la mora del debitore, che deve pagare) e mora credendi (la mora del creditore, che deve ricevere la prestazione).

Nel rapporto di lavoro, il lavoratore è debitore della prestazione lavorativa e creditore della retribuzione, mentre il datore di lavoro è creditore della prestazione lavorativa e debitore della retribuzione.

Il Ricorso Iniziale è Sufficiente

La Cassazione ha affermato che la costituzione in mora rilevante in questo caso è quella del creditore della prestazione lavorativa (il datore di lavoro). Questa si realizza quando il lavoratore offre la propria prestazione e il datore di lavoro la rifiuta senza un motivo legittimo.

Secondo la Corte, l’atto di ricorso con cui il lavoratore chiede al giudice non solo di accertare il rapporto di lavoro, ma anche di condannare il datore di lavoro a riammetterlo in servizio, contiene già in sé un’offerta formale della prestazione lavorativa. Questo atto è quindi sufficiente a mettere in mora il datore di lavoro (mora credendi).

Le Motivazioni

La Corte Suprema ha motivato la sua decisione sottolineando che, una volta che il ricorso iniziale ha messo in mora il datore di lavoro, non è necessario alcun ulteriore atto formale dopo la sentenza che accerta l’illegittimità dell’interposizione. L’obbligo di pagare le retribuzioni decorre dalla sentenza proprio perché il datore di lavoro era già stato formalmente avvisato della disponibilità del lavoratore a prestare la propria attività lavorativa. Pretendere un nuovo atto sarebbe un formalismo ingiustificato che andrebbe a discapito del lavoratore, costringendolo a un ulteriore onere per far valere un diritto già riconosciuto. Il meccanismo descritto dalla sentenza delle Sezioni Unite n. 2990/2018, richiamato nell’ordinanza, conferma che l’obbligo retributivo decorre dalla costituzione in mora, che può benissimo essere precedente alla sentenza stessa, purché sia finalizzata a offrire la prestazione lavorativa.

Le Conclusioni

Questa ordinanza rappresenta una vittoria significativa per la tutela dei diritti dei lavoratori. Le conclusioni pratiche sono chiare: il lavoratore che agisce in giudizio per far accertare un rapporto di lavoro mascherato da un appalto illecito, chiedendo la riammissione in servizio, non dovrà inviare una nuova diffida dopo aver ottenuto la sentenza favorevole. L’atto introduttivo del giudizio è di per sé sufficiente a garantire il diritto alle retribuzioni per tutto il periodo in cui il datore di lavoro continua a non utilizzare la sua prestazione. Ciò semplifica le procedure e rafforza la protezione economica dei lavoratori in situazioni di precarietà e sfruttamento.

Dopo una sentenza che accerta un appalto illecito, serve una nuova diffida per avere gli stipendi successivi?
No. Secondo la Corte di Cassazione, il ricorso iniziale con cui si chiede la riammissione in servizio è già un atto sufficiente a costituire in mora il datore di lavoro, e quindi a far sorgere il diritto alle retribuzioni per il periodo successivo alla sentenza, senza bisogno di ulteriori atti.

Che differenza c’è tra mora del creditore (credendi) e mora del debitore (debendi) in questo caso?
La mora del debitore (mora debendi) si riferisce al ritardo nel pagamento di un debito (es. la retribuzione). La mora del creditore (mora credendi), invece, si riferisce al ritardo del datore di lavoro (creditore della prestazione lavorativa) nell’accettare il lavoro offerto dal dipendente. La Cassazione ha chiarito che in questi casi rileva la mora credendi, che si perfeziona con l’offerta della prestazione da parte del lavoratore.

L’atto con cui si inizia la causa vale come costituzione in mora?
Sì. Se nel ricorso introduttivo il lavoratore chiede l’accertamento del rapporto di lavoro e la condanna del datore di lavoro alla riammissione in servizio, questo atto è considerato una valida offerta della prestazione lavorativa e, di conseguenza, un idoneo atto di costituzione in mora del datore di lavoro.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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