Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 24564 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 24564 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data pubblicazione: 04/09/2025
ORDINANZA
sul ricorso 9297-2024 proposto da:
COGNOME rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME, NOME COGNOME;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 927/2024 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 26/02/2024 R.G.N. 1220/2023;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 30/04/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME.
Oggetto
Licenziamento disciplinare
R.G.N. 9297/2024
COGNOME
Rep.
Ud. 30/04/2025
CC
FATTI DI CAUSA
Con la sentenza in epigrafe indicata la Corte d’appello di Napoli rigettava il reclamo proposto da NOME COGNOME contro la sentenza del Tribunale della medesima sede n. 2799/2023, che aveva respinto la sua opposizione all’ordinanza dello stesso Tribunale, che, nella fase sommaria del procedimento ex lege n. 92/2012, pure aveva rigettato la sua impugnativa del licenziamento disciplinare per giusta causa intimatogli dalla RAGIONE_SOCIALEaRAGIONE_SOCIALE con lettera del 10.11.2020.
Per quanto qui interessa, la Corte territoriale, nell’ambito della propria motivazione tra l’altro: a) riportava l’intero contenuto testuale della lunga nota di contestazione disciplinare del 29.10.2020, con la quale al lavoratore, dipendente della società datrice di lav oro con le mansioni di ‘letturista’, era stato addebitato in sintesi: -‘ che da accertamenti eseguiti è emerso che lei, nelle giornate di seguito meglio descritte nel dettaglio, ha dichiarato, attraverso il device in sua dotazione, l’inizio e la cessazione dell’attività lavorativa in orario di gran lunga antecedente all’effettiva uscita dalla sua abitazione o successivo al suo rientro e durante l’orario di lavoro si è recato in luoghi estranei alle attività che avrebbe dovuto svolgere ed è più volte rimasto immotivatamente inoperoso all’interno della vettura aziendale a lei concessa in uso (ovvero la Fiat Panda di colore bianco targata TARGA_VEICOLO ‘, tanto in relazione ai giorni 28.9.2020; 29.9.2020; 5.10.2020; 6.10.2020; 7.10.2020, come meglio specificato per ognuno di tali giorni; che ‘ Durante tutti i periodi sopra indicati lei non ha mai indossato gli abiti forniti dall’azienda, né tantomeno i dispositivi di protezione individuali ‘; -che ‘ Inoltre abbiamo effettuato una verifica dell’attività che lei, nel periodo 03 Agosto 09 Ottobre, ha
dichiarato di aver svolto mediante l’uso del device in sua dotazione e da tale verifica era emerso quanto ‘ pure in dettaglio precisato nella stessa nota; che ‘ Lei inoltre ha frequentemente inviato mail, attribuendo un ritardo nell’inizio dell’attività lavorativa a ragioni di traffico e/o di pioggia, ore dopo l’orario da lei dichiarato di partenza da casa e di inizio della prestazione lavorativa come dettagliato nel prospetto riepilogativo sotto riportato ‘ … ( omissis ) …; b) parimenti riportava il testo del la lettera del 10.11.2020, nella quale, nell’irrogare il licenziamento, in sintesi la datrice di lavoro, richiamando integralmente la precedente contestazione disciplinare, rappresentava ‘ che non riteniamo sufficienti le giustificazioni da Lei fornite con nota del 31/10/2020, acquisita al nostro prot. n. 65418 del 03/11/2020, dal momento che con le stesse Lei conferma l’andamento dei fatti contestati e l’assoluta illegittimità ed irregolarità del suo comportamento. Le comunichiamo, quindi, ai sensi dell’art . 21 del Ccnl settore GasAcqua pro tempore vigente, il licenziamento per giusta causa con conseguente risoluzione immediata del rapporto di lavoro ‘.
La Corte, dopo aver riferito il pregresso iter processuale ed aver dato conto dei motivi di reclamo del lavoratore, anzitutto giudicava infondato il motivo con il quale quest’ultimo lamentava la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2 e 3 della L. n. 300/1970, per avere il giudice di prime cure ignorato la differenza tra i controlli difensivi (attinenti al patrimonio dell’azienda) per i quali era legittimo il ricorso all’agenzia investigativa ed i controlli sull’attività lavorativa del dipendente vietati dall’art. 2 della legge 300/1970.
Quanto al motivo di reclamo relativo alla specificità della motivazione del licenziamento, come il primo giudice, riteneva
legittima tale motivazione per relationem , atteso che ciò che rilevava erano la specificità della contestazione, richiamata nel successivo atto, e l’indicazione della norma del contratto collettivo a cui si riferiva la condotta contestata.
Parimenti la Corte reputava infondata la doglianza relativa alla tardività della contestazione disciplinare, ritenendo evidente che il tempo trascorso tra i fatti e la contestazione era assolutamente esiguo e, riguardo alla conoscenza dei fatti già all’inizio dell’anno 2019, in particolare sulla minore performance lavorativa rispetto agli obiettivi assegnati e quelli conseguiti dagli altri dipendenti, trattavasi di circostanza che veniva richiamata solo a sostegno del ridotto numero di ore lavorative effettive rese dal lavoratore.
Riguardo al merito dei fatti contestati, per la Corte la prova degli stessi emergeva con tutta chiarezza dalle dichiarazioni rese dal teste NOME COGNOME responsabile dell’Unità di Misura, ed era evidente che l’aver il NOME riportato dati falsi rigu ardo all’inizio e alla cessazione dell’attività lavorativa, in maniera ripetuta nel tempo, per dedicarsi ad attività estranee a quelle lavorative, come accertato attraverso le indagini investigative, integrava senza dubbio alcuno l’ipotesi di cui all’art. 21 sub 5 del CCNL applicato al rapporto.
Avverso tale decisione NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi.
L’intimata ha resistito con controricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo il ricorrente denuncia ‘Violazione e falsa applicazione degli articoli 115, 116, 214 c.p.c. -mancanza
di valore probatorio del rapporto dell’agenzia investigativa posto a base del licenziamento -integrante il vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 -error in iudicando ‘. Lamenta che: ‘La Corte d’appello, in adesione alla decisione del Tribunale, a fronte della decisa contestazione operata dal lavoratore, in merito alla verificazione dei fatti addebitatigli, ha ritenuto provate le suddette circostanze in forza di un rapp orto di un’agenzia investigativa, versato in atti dalla difesa della RAGIONE_SOCIALE, privo di sottoscrizione e del nome degli agenti investigatori’.
Con un secondo motivo denuncia ‘Violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 3 della legge 300/1970 -inutilizzabilità del rapporto dell’agenzia investigativa -integrante il vizio ex art. 360 c.p.c. comma 1, n. 3) -error in iudicando ‘. Deduce che emergeva evidente, dagli atti del giudizio, che la RAGIONE_SOCIALE è ricorsa all’agenzia investigativa per controllare la sua prestazione lavorativa e le sue modalità di esecuzione, con specifico riferimento al rispetto dell’orario di inizio e fine lavoro, alle pause non autorizzate, al corretto utilizzo dell’auto aziendale, all’impiego del vestiario aziendale e dei dpi.
Con un terzo motivo denuncia ‘Violazione di legge e falsa applicazione dell’art. 7 della legge n. 300/1970 mancanza della preventiva contestazione dell’illecito disciplinare -integrante il vizio ex art. 360 c.p.c. comma 1 n. 3) -error in iudicando ‘. Secondo il ricorrente, appariva evidente che l’avverbio ‘ falsamente ‘, utilizzato in un punto della nota di contestazione disciplinare, non è riferito alla ‘ attestazione della presenza in servizio ‘, che il lavoratore doveva effettuare presso il proprio dom icilio tramite il proprio ‘device’, ma nell’aver
lavorato per un tempo di lavoro inferiore al ‘ normale orario di lavoro ‘ proprio perché ‘ ha ritardato l’inizio della sua attività ‘.
Con un quarto motivo denuncia ‘La violazione e falsa applicazione degli artt. 2119, 1175 e 1375 c.c. e art. 7 della legge n. 300 del 20/05/1970 -tardività della contestazione disciplinare -integrante il vizio ex art. 360 c.p.c. comma 1, n. 3) -error in iudicando ‘. Sostiene il ricorrente che la motivazione data dalla Corte distrettuale circa la dedotta tardività della contestazione disciplinare ‘non è condivisibile soprattutto alla luce della dichiarazione del teste indicato dalla RAGIONE_SOCIALE, e tenendo conto della lettera del 24.7.2019, successiva all’insorgenza della criticità disciplinare, nella quale la società aveva comunicato al lavoratore l’avvenuta promozione dal primo al secondo livello.
Con un quinto motivo denuncia ‘violazione e falsa applicazione all’articolo 2, comma 2, della legge 15 luglio 1966, n. 604 -genericità e mancanza della motivazione del licenziamento -integrante il vizio ex art. 360 c.p.c. comma 1 n. 3) -error in iudicando ‘. Assume che il richiamo all’art. 21 del CCNL, nel quale sono inclusi tutti gli illeciti disciplinari e tutte le fattispecie sanzionatorie (conservative ed espulsive), appariva assolutamente generico, sicché il lavoratore non era stato messo in grado di conoscere, con compiutezza, il motivo del licenziamento.
6. Il primo motivo è inammissibile.
Secondo un consolidato indirizzo di questa Corte, i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena di inammissibilità, questioni che siano già comprese nel thema decidendum del precedente grado di giudizio, non essendo
prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito, tranne che non si tratti di questioni rilevabili d’ufficio, non potendo la parte modificare, nel giudizio di legittimità, la posizione rivestita nel giudizio di merito (in tal senso ex plurimis Cass. n. 11468/2022; n. 23792/2021).
Orbene, la questione che il ricorrente pone nel motivo in esame non risulta assolutamente sia stata trattata in secondo grado (e neanche nel primo), e del resto lo stesso ricorrente non deduce di aver posto la stessa in sede d’appello (cfr. ancora, tra le altre, Cass. n. 23792/2021 cit., Cass. n. 2038/2019).
Per contro, dalla sentenza impugnata risulta che, con il primo motivo di reclamo, l’attuale ricorrente per cassazione, in relazione all’avere la datrice di lavoro utilizzato un’agenzia investigativa, aveva lamentato esclusivamente la violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 3 l. n. 300/1970 (cfr. tra la facciata 2 e la facciata 3 dell’impugnata sentenza), ma non si fosse assolutamente doluto che il rapporto di detta agenzia fosse privo di sottoscrizione e persino del nome degli agenti investigatori, sicché non poteva costituire nemmeno una scrittura privata proveniente da terzi.
Quest’ultima diversa questione è, quindi, nuova in fatto e in diritto nella presente sede di legittimità.
Il secondo motivo è complessivamente infondato.
Fermo restando che il controllo di terzi, sia quello di guardie particolari giurate così come di addetti di un’agenzia investigativa, non può riguardare, in nessun caso, né l’adempimento, né l’inadempimento dell’obbligazione contrattuale del lavoratore di prestare la propria opera, essendo
l’inadempimento stesso riconducibile, come l’inadempimento, all’attività lavorativa, che è sottratta alla suddetta vigilanza (tra le recenti, v. Cass. n. 17004 del 2024; in precedenza Cass. n. 9167 del 2003; Cass. n. 15094 del 2018; Cass. n. 21621 del 2018; Cass. n. 25287 del 2022), secondo le medesime pronunce si afferma reiteratamente che il controllo delle agenzie investigative può avere ad oggetto il compimento di ‘atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero inadempimento dell’obbligazione contrattuale’ (così ancora Cass. n. 9167 del 2023, che cita la giurisprudenza precedente); ad esempio, è costantemente ritenuto legittimo il controllo tramite investigatori che non abbia ad oggetto l’adempimento della prestazione lavorativa ma sia ‘finalizza to a verificare comportamenti che possano configurare ipotesi penalmente rilevanti od integrare attività fraudolente’, come nel caso di controllo finalizzato all’accertamento dell’abusivo utilizzo dei permessi ex lege n. 104/1992 (v. Cass. n. 4984 del 2014; Cass. n. 9217 del 2016; Cass. n. 15094 del 2018; Cass. n. 4670 del 2019; da ultimo Cass. n. 6468 del 2024). E’ stato anche precisato (Cass. n. 20440 del 2015) che – ribadito come i divieti contenuti nello Statuto dei lavoratori non riguardino ‘comportame nti del lavoratore lesivi del patrimonio e dell’immagine aziendale’ ovvero ‘intesi a rilevare mancanze specifiche e comportamenti estranei alla normale attività lavorativa nonché illeciti’ (comportamenti, questi ultimi, che possono essere controllati ‘anch e mediante agenzie investigative private’) -‘ciò tanto più vale quando il lavoro dev’essere eseguito, (…) al di fuori dei locali aziendali, ossia in luoghi in cui è facile la lesione dell’interesse all’esatta esecuzione della prestazione lavorativa e dell ‘immagine dell’impresa, all’insaputa dell’imprenditore’. In ogni caso, si è
statuito che ‘l’accertamento circa la riferibilità (o meno) del controllo investigativo allo svolgimento dell’attività lavorativa rappresenta una indagine che compete al giudice del merito, involgendo inevitabilmente apprezzamenti di fatto’ (in termini, da ultimo: Cass. n. 22051 e n. 27610 del 2024).
10.1. Per altro verso si giustifica l’intervento in questione ‘per l’avvenuta perpetrazione di illeciti e l’esigenza di verificarne il contenuto, anche laddove vi sia un sospetto o la mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione’ (v. Cass. n. 359 0 del 2011; Cass. n. 15867 del 2017).
10.2. Come noto, più recentemente, questa Corte, chiamata a pronunciarsi sulla questione di rilievo nomofilattico circa la compatibilità dei c.d. ‘controlli difensivi’ con la modifica dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori recata dall’art. 23 del d.lgs. n. 151 del 2015 e successive integrazioni, ha affermato (cfr. Cass. n. 25732 del 2021; successiva conf. Cass. n. 34092 del 2021) i seguenti principi: occorre distinguere, anche per comodità di sintesi verbale, ‘tra i controlli a difesa del patrimonio aziendale che riguardano tutti i dipendenti (o gruppi di dipendenti) nello svolgimento della loro prestazione di lavoro che li pone a contatto con tale patrimonio, controlli che dovranno necessariamente essere realizzati nel rispetto delle previsioni dell’art. 4 novellato in tutti i suoi aspetti e ‘controlli difensivi’ in senso stretto, diretti ad accertare specificamente condotte illecite ascrivibili -in base a concreti indizi -a singoli dipendenti, anche se questo si verifica durante la prestazione di lavoro ‘; questi ultimi ‘controlli’, anche se effettuati con strumenti tecnologici, non avendo ad oggetto la normale attività del lavoratore’, si situano, ancora oggi, ‘all’esterno del perimetro applicativo dell’art. 4’; per non avere ad oggetto una
‘attività in senso tecnico del lavoratore’, il controllo ‘difensivo in senso stretto’ deve essere ‘mirato’ ed ‘attuato ex post ‘, ossia ‘a seguito del comportamento illecito di uno o più lavoratori del cui avvenuto compimento il datore abbia avuto il fondato sospetto’, perché solo a partire ‘da quel momento’ il datore può provvedere alla raccolta di informazioni utilizzabili; anch e ‘in presenza di un sospetto di attività illecita’, occorrerà ‘nell’osservanza della disciplina a tutela della riservatezza del lavoratore, e segnatamente dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo come interpretato dalla giurisprudenza della Corte EDU, ‘assicurare un corretto bilanciamento tra le esigenze di protezione di interessi e beni aziendali, correlate alla libertà di iniziativa economica, rispetto alle imprescindibili tutele della dignità e della riservatezza del lavoratore, con un contemperamento che non può prescindere dalle circostanze del caso concreto’.
Ancor più di recente (v. Cass. n. 18168 del 2023), ribaditi i richiamati principi, è stato anche stabilito che se incombe sul datore di lavoro l’onere di allegare prima e provare poi le specifiche circostanze che lo hanno indotto ad attivare il controllo tecnologico ex post , tuttavia, una volta ‘consegnati al contraddittorio gli elementi che la parte datoriale adduce a fondamento dell’iniziativa di controllo tecnologico, spetterà al giudice valutare, mediante l’apprezzamento delle circostanze del caso, se gli stessi fossero indizi, materiali e riconoscibili, non espressione di un puro convincimento soggettivo, idonei a concretare il fondato sospetto della commissione di comportamenti illeciti’.
Da ultimo, il panorama della giurisprudenza di legittimità in subjecta materia è stato riepilogato come sopra nella motivazione di Cass., sez. lav., ord. 21.11.2024, n. 30079.
Poco prima, in base alla medesima impostazione, questa Corte aveva rigettato il ricorso per cassazione avverso sentenza della corte territoriale che aveva considerato illegittimo il licenziamento disciplinare intimato al lavoratore anche sulla base della ritenuta inutilizzabilità dei dati attinti dalla datrice di lavoro attraverso le registrazioni di un apparecchio telepass, rispetto a quanto previsto dall’art. 4, comma 3, l. n. 300/1970, come novellato dall’art. 23 d.lgs. n. 151 del 2015, rilevandosi, tra l’altro, che nel corso dei gradi di merito la datrice di lavoro non ‘avesse allegato che l’installazione dell’apparecchio telepass sull’autovettura aziendale utilizzata dal lavoratore per l’esecuzione delle proprie prestazioni rientrasse tra i cd. controll i difensivi nei termini dianzi chiariti, e tantomeno che la stessa avesse allegato e chiesto di provare le specifiche circostanze che l’avevano indotta ad attivare quel controllo tecnologico’ (Cass., sez. lav., ord. 3.6.2024, n. 15391).
La sentenza impugnata è conforme a tutti i fin qui ricordati principi di diritto (cui in parte ha fatto esplicito riferimento: cfr. facciate 9 e 10 della sua sentenza).
In particolare, rilevato che l’attuale ricorrente non ha mai posto il problema della legittimità del cd. device in sua dotazione per lo svolgimento dell’attività lavorativa di ‘letturista’ quale controllo tecnologico, la Corte di merito in punto di fatto ha accertato che: ‘Nel caso di specie è accaduto che il NOME ha posto in essere attività non rientranti nella prestazione lavorativa, provvedendo a permanere presso la propria abitazione per un notevole lasso di tempo prima di
iniziare la giornata lavorativa, nonché sostando all’interno della propria autovettura per un rilevante lasso di tempo, senza provvedere a svolgere le sue mansioni, recandosi in luoghi estranei al lavoro, per motivi personali, e ciononostante provvedendo a d attestare falsamente l’inizio e la cessazione del lavoro’.
13.1. Ebbene, la Corte ha così accertato il principale illecito addebitato al lavoratore cui veniva contestato, come si è riportato in narrativa, già in apertura della nota del 29.10.2020 di aver ‘dichiarato, attraverso il device in sua dotazione, l’inizio e la cessazione di attività lavorativa in orario di gran lunga antecedente all’effettiva uscita dalla sua abitazione o successivo al suo rientro e durante l’orario di lavoro si è recato in luoghi estranei alle attività che avrebbe dovuto svolgere ed è più volte rimasto immotivatamente inoperoso all’interno della vettura aziendale a lei concessa in uso …’. E, all’esito di minuta ed estesa descrittiva di quanto constatato dalla datrice, come pure riferito dalla Corte distrettuale, essa aveva ribadito e concluso che: ‘Risulta quindi in primo luogo che lei, nei giorni e nelle occasioni da noi specificamente indicate ha falsamente attestato di aver reso la prestazione lavorativa nel normale orario di lavoro laddove ha ritardato l’inizio della sua attività, si è per lunghi periodi della giornata astenuto dallo svolgere alcuna prestazione senza alcun giustificato motivo e senza alcuna necessità, ha più volte tentato di nascondere il reale inizio della sua attività lavorativa ed ha inoltre utilizzato il mezzo messole a disposizione dall’Azienda per motivi personali e per recarsi più volte presso luoghi estranei a quelli relativi alle letture alle quali era adibito’ (cfr. facciate 7 -8 dell’impugnata sentenza).
Dunque, il lavoratore era così chiaramente incolpato di condotte non prive di note di fraudolenza, riscontrate dai giudici di merito.
Del resto, non considera il ricorrente che la Corte d’appello aveva, altresì, ritenuto che ‘correttamente il Giudice di prime cure, dopo aver riportato sul punto i principi generali elaborati in materia di tutela della privacy sul luogo di lavoro ex art. 8 CEDU da Corte EDU, 5 settembre 2017, Kopke c. Germania, n. 420/07; v. arg. a contrario ex Corte EDU, 9 gennaio 2018, COGNOME c. Spagna, n. 1874/2013, ha altresì motivato che ‘ l’avvio dell’attività di controllo per mezzo dell’agenzia investigativa non è frutto di un’iniziativa arbitraria ed estemporanea del datore di lavoro, bensì è conseguenza delle incongruenze riscontrate nel rendimento specifico del dipendente. Tale circostanza offre una base giustificativa oggettiva a fondamento delle successive iniziative di verifica intraprese dalla società datrice di lavoro; in terzo luogo, la società resistente ha fatto ricorso ad uno strumento di indagine che risulta essere il meno invasivo tra quelli concretamente disponibili e comunque utili allo scopo (v. Corte EDU, GC, 5 settembre 2017, COGNOME c. Romania, n. 61496/08) ‘ (così alla facciata 11 dell’impugnata sentenza).
Ora, già nella nota di contestazione disciplinare (cfr. facciata 7 della decisione gravata) si faceva dettagliato riferimento ad un minor rendimento del lavoratore incolpato, in termini di media giornaliera di visite, in confronto a quello degli , sia pure in relazione al periodo 03 Agosto09 Ottobre’ 2020.
Inoltre, lo stesso lavoratore, anche se al diverso fine di sostenere la tardività della contestazione disciplinare, aveva
dedotto che ‘la società era a conoscenza dei fatti già dall’inizio dell’anno 2019’ (cfr. facciata 3 dell’impugnata sentenza); tesi tuttora coltivata in questa sede nell’ambito del quarto motivo di ricorso.
In definitiva, la datrice di lavoro prima dei fatti specificamente contestati nella nota del 29.10.2020 (fatti che sono tutti del secondo semestre 2020), accertati anche tramite agenzia investigativa, disponeva di elementi circa l’attività del lavoratore, segnatamente per il suo minor rendimento, che giustificavano uno più specifico controllo a suo carico anche mediante attività investigativa in relazione a successive condotte, poi risultate essere illecite e fraudolente nei termini sopra esposti.
Il terzo motivo, che presenta profili d’inammissibilità, è comunque privo di fondamento.
Invero, il ricorrente, senza denunciare la violazione dei canoni ermeneutici legali di cui agli artt. 1362 e segg. c.c., ivi propone una propria interpretazione di un passo specifico della nota di contestazione disciplinare, che lo stesso riconosce essere ‘lunga’.
Sennonché, come si è già visto nell’esaminare il precedente secondo motivo, detta nota, che la Corte territoriale ha avuto cura di riportare ‘preliminarmente’ e ‘testualmente’ all’inizio della propria motivazione (cfr. facciate 4-7 della sua sentenza), il lavoratore era incolpato anzitutto, e sin dall’apertura della stessa nota, di un comportamento dichiarativo non corrispondente alla realtà (‘… ha dichiarato, attraverso il device in sua dotazione …’); e l’idea, attualmente perorata dal ricorrente, che il successivo punto quasi conclusivo della stessa
nota che richiama (qui sopra trascritto al § 13.1.), possa essere inteso nel senso che l’avverbio ‘falsamente’ si riferisca all’ , è senz’altro insostenibile.
Trattasi, invero, di proposta interpretativa all’evidenza contrastante in primo luogo con il principale criterio dell’interpretazione letterale di cui all’art. 1362, comma primo, c.c. (sul terreno logico e sintattico-grammaticale), oltre che con quello ex art. 1363 c.c. (avuto riguardo a quanto addebitato già in apertura della nota di contestazione).
Il quarto motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.
Secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte, in materia di licenziamento disciplinare, l’immediatezza della contestazione, espressione del generale precetto di correttezza e buona fede, si configura quale elemento costitutivo del diritto di recesso del datore di lavoro (Cass. n. 19115 del 2013; n. 15649 del 2010; n. 19424 del 2005; n. 11100 del 2006) e va inteso in senso relativo, potendo, nei casi concreti, essere compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, in ragione della complessità di accertamento della condotta del dipendente oppure per l’esigenza di una articolata organizzazione aziendale (Cass. n. 14726 del 2024; n. 1248 del 2016; n. 281 del 2016; n. 15649 del 2010; Cass. n. 22066 del 2007), restando comunque riservata al giudice del merito la valutazione delle circostanze di fatto che in concreto giustificano o meno il ritardo (Cass. n. 23346 del 2018; n. 16841 del 2018; n. 281 del 2016; n. 20719 del 2013, n. 19115 del 2013).
19.1. Su quest’ultimo aspetto si è puntualizzato che compete al giudice di merito verificare in concreto quando un potenziale illecito disciplinare sia stato scoperto nei suoi connotati sufficienti a consentire la contestazione, mentre costituisce questione di diritto, sindacabile in sede di legittimità, determinare se l’arco temporale intercorso tra la scoperta dell’illecito disciplinare e la sua contestazione dia luogo, o meno, a violazione del diritto di difesa del lavoratore (v. Cass. n. 23346 del 2018). Sotto altro profilo, si è aggiunto che il ritardo della contestazione può costituire un vizio del procedimento disciplinare solo ove sia tale da determinare un ostacolo alla difesa effettiva del lavoratore, tenendo anche conto che la ponderata e responsabile valutazione dei fatti da parte del datore di lavoro può e deve precedere la contestazione anche nell’interesse del prestatore di lavoro, che altrimenti sarebbe esposto ad incolpazioni non adeguatamente meditate o comunque non sorrette da un sufficiente approfondimento (v. Cass. n. 109 del 2024).
Tutti tali principi di diritto sono stati, da ultimo, ribaditi in Cass. n. 22617/2024.
Ebbene, rispetto a questi principi, la censura si appalesa inammissibile per la parte in cui s’incentra sulla valutazione di elementi di prova diversi da quelli a riguardo considerati dalla Corte di merito, e, in particolare, sulla deposizione del teste NOME COGNOME e sulla lettera datoriale (di promozione) del 24.7.2019 (cfr. pag. 17 del ricorso).
Per il resto (cfr. inizio di pag. 18 del ricorso), il ricorrente censura un passaggio motivazionale svolto solo ad abuntantiam e in chiave concessiva dalla Corte di merito (dove ha osservato che: ‘Anche a voler dare rilievo alla circostanza
che proprio da tale momento hanno preso avvio le indagini aziendali e che, pertanto la contestazione è avvenuta ad un anno circa di ritardo, trattasi comunque di tempo necessario per accertare i fatti particolari in oggetto, anche a garanzia del lavoratore ‘).
Nell’esaminare il secondo motivo di ricorso, difatti, si è già evidenziato che le contestazioni mosse al lavoratore riguardano senza eccezioni fatti del secondo semestre 2020, e che la precedente minore performance del lavoratore ‘rispetto agli obiettivi assegnati e quelli conseguiti dagli altri dipendenti’ (come accertata dalla Corte), costituiva piuttosto lo spunto oggettivo per approfondimenti sulle condotte del lavoratore non tenute, però, già nell’anno 2019, ma in quello seguente.
Infine, è complessivamente infondato il quinto motivo.
Anche in questa censura, invero, come nel terzo motivo (riferito alla contestazione disciplinare), il ricorrente non denuncia la violazione dei canoni ermeneutici legali, pur deducendo la genericità dei motivi di licenziamento in base a rilievi circa il contenuto della relativa nota datoriale.
Osserva, comunque, il Collegio che la Corte territoriale pure su questo aspetto ha in primo luogo riportato il testo integrale della lettera del 10.11.2020 (cfr. facciate 8-9 della sua sentenza).
Nel valutare, poi, il motivo di gravame, analogo a quello ora in esame, la Corte, richiamando Cass. n. 2851/2006, al pari del primo giudice ‘ha ritenuto legittima la motivazione del licenziamento per relationem, come è accaduto nel caso di specie, atteso che ciò che rileva è la specificità della contestazione, richiamata nel successivo atto, e l’indicazione
della norma del contratto collettivo a cui si riferisce la condotta contestata’.
25. E tale apprezzamento è incensurabile in punto di diritto.
Nella nota in questione, infatti, la Corte di merito non ha affatto riscontrato una ‘assoluta genericità’, tale da essere ‘totalmente inidonea ad assolvere il fine cui la norma tende’ (per usare la terminologia presente in Cass. n. 15877/2017, richiamata dal ricorrente).
La relatio , considerata dalla Corte, afferisce alla prima parte della lettera in cui si legge: ‘Facciamo seguito alla nostra contestazione disciplinare del 29/10/2020 prot. n. 64125 qui da intendersi integralmente trascritta’, e la stessa Corte ha posto in luce che la lettera del 10.11.2020 seguiva alle giustificazioni del lavoratore (cfr. facciata 8 della sentenza). Il rinvio, quindi, era ad atto senz’altro già conosciuto del lavoratore che vi aveva replicato. Infatti, nel seguito del testo si legge: ‘In merito si rappresenta che non riteniamo sufficienti le giustificazioni da Lei fornite con nota del 31/10/2020, acquisita al nostro prot. n. 65418 del 3/11/2020, dal momento che con le stesse Lei conferma l’andamento dei fatti contestati e l’assoluta illegittimità ed irregolarità del suo comportamento’.
Pertanto il globale riferimento all’art. 21 del CCNL del settore (peraltro, presente anche nell’oggetto della comunicazione di licenziamento e in precedenza nella nota di contestazione disciplinare), non era assolutamente in grado di offendere il diritto di difesa del lavoratore, essendo chiari e oltremodo dettagliati i fatti che gli erano contestati.
Il ricorrente, in quanto soccombente, dev’essere condannato al pagamento, in favore della controricorrente, delle
spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, ed è tenuto al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 200,00 per esborsi ed € 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, I.V.A. e C.P.A. come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così dec iso in Roma nell’adunanza camerale del 30.4.2025.
La Presidente
NOME