Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 24826 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 24826 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 16/09/2024
ORDINANZA
sul ricorso 17471-2020 proposto da:
COGNOME NOME COGNOME, RAGIONE_SOCIALE, (già RAGIONE_SOCIALE, già RAGIONE_SOCIALE) in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA, INDIRIZZO, presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME, rappresentati e difesi dall’avvocato NOME COGNOME;
– ricorrenti –
contro
RAGIONE_SOCIALE –RAGIONE_SOCIALE DI CAGLIARI-ORISTANO, (già RAGIONE_SOCIALE), in persona del Direttore pro tempore, rappresentato e difeso ope legis dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia in ROMA, alla INDIRIZZO;
– controricorrente –
Oggetto
Opposizione ad ordinanza ingiunzione
R.G.N. 17471/2020
COGNOME.
Rep.
Ud. 28/05/2024
CC
avverso la sentenza n. 836/2019 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI, depositata il 23/10/2019 R.G.N. 9/2018; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 28/05/2024 dal AVV_NOTAIO COGNOME.
FATTI DI CAUSA
Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte d’appello di RAGIONE_SOCIALE rigettava l’appello proposto da NOME COGNOME COGNOME e dalla RAGIONE_SOCIALE (già RAGIONE_SOCIALE) contro la sentenza del Tribunale della medesima sede n. 2280/2017, che aveva respinto le opposizioni dei suddetti alle ordinanze ingiunzione prot. nn. 59841 e 59843, con le quali la RAGIONE_SOCIALE aveva loro ingiunto il pagamento della complessiva somma di € 12.961,40 a titolo di sanzioni amm inistrative per la violazione dell’art. 9 bis, co. 2, l. 608/1996 e dell’art. 4 bis, co. 2, d.lvo 181/2000, relativamente a n. 19 lavoratori, tutti assunti nell’arco di tempo 2009 -2011.
Per quanto qui interessa, la Corte territoriale respingeva il primo motivo d’impugnazione, con il quale gli appellanti avevano censurato la sentenza di primo grado, lamentando la ‘violazione e/o falsa applicazione degli artt. 61 e 62 d.lgs. n. 276/2003 nonché dell’art. 1, commi 23 e 24 L. n. 92/2012’, in quanto il Tribunale aveva valutato i contratti con esclusivo riferimento ad uno ‘specifico progetto’, escludendo ogni rilevanza all’individuazione nei medesimi contratti di una ‘fase di lavoro’.
2.1. La stessa Corte disattendeva, altresì, il secondo motivo d’appello a mezzo del quale era stata censurata la sentenza di primo grado, lamentando la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 69 d.lgs. n. 276/2003 nonché dell’art. 1, commi 24 e
25, L. n. 92/2012 per avere il Tribunale affermato la natura assoluta della presunzione sancita dall’art. 69 comma 1 d.lgs. n. 276/2003.
2.2. La Corte, infine, riteneva infondato il terzo motivo con il quale gli appellanti avevano censurato la stessa sentenza, lamentando la ‘violazione e/o falsa applicazione dell’art. 9 bis comma 2 L. n. 608/1996 e dell’art. 4 bis comma 2 d.lgs. n. 181/2000 ‘, sull’assunto che il giudice di prime cure avesse erroneamente ritenuto che dalla riqualificazione dei contratti discendesse la violazione delle suddette norme concernenti gli oneri di comunicazione e documentazione correlati all’instaurazione di rapport i lavorativi.
Avverso tale decisione NOME COGNOME COGNOME e RAGIONE_SOCIALE (quale incorporante di RAGIONE_SOCIALE) hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.
L’intimato resiste con controricorso.
I ricorrenti hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo i ricorrenti denunciano ‘Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 9 bis, comma 2, d.l. n. 510/1996 convertito con L. n. 608/1996 e dell’art. 4 bis, comma 2, D.lgs. n. 181/2000 (art. 360, n. 3, c.p.c.)’.
1.1. Secondo i ricorrenti, l’interpretazione resa dalla Corte di appello dell’art. 9 bis, comma 2, d.l. n. 510/1996, conv. in L. n. 608/1996, nel ritenere correttamente contestata la violazione di tale previsione, viola la lettera e la ratio della stessa. Quanto al dato letterale, rilevano che la norma prevede unicamente
l’obbligo di comunicare l’instaurazione del rapporto di lavoro, subordinato e parasubordinato, ed un termine perentorio per provvedere a tale comunicazione, sicché le condotte sanzionate devono individuarsi nella omissione e nella tardività della comunicazione. Nel ritenere che la comunicazione concernente l’instaurazione di un rapporto di lavoro a progetto successivamente riqualificato come subordinato sia equiparabile all’omessa comunicazione dell’instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato, la Cor te estendeva invero l’ambito di applicazione della norma in violazione del suo inequivocabile dato letterale.
Quanto alla ratio , rilevano che l’onere di comunicazione è volto a garantire all’amministrazione la conoscenza dei rapporti di lavoro (subordinati e parasubordinati) stipulati e la conseguente facoltà di effettuare i controlli circa la loro conformità alla disciplina vigente. Nel motivare detta equiparazione sulla pretesa ratio normativa di ‘monitoraggio dei flussi relativi alle singole tipologie contrattuali adottate’ il Collegio d’appello non coglieva l’effettiva volontà del legislatore che non aveva certo finalità statistiche ma di controllo del lavoro.
1.2. Circa, poi, l’interpretazione data dalla stessa Corte all’art. 4 bis, comma 2, d.lgs. n. 181/2000, i ricorrenti parimenti deducono che essa viola la lettera e la ratio della norma.
In merito al tenore letterale di questa, rilevano che la norma prevede unicamente l’obbligo di consegnare al lavoratore copia della comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro trasmessa al RAGIONE_SOCIALE ovvero copia del contratto di lavoro ; la condotta sanzionata è quindi data dall’omessa consegna di tali documenti. Omissione a cui non è equiparabile
la non rispondenza del contratto stipulato rispetto a quello effettivamente eseguito ovvero l’eventuale illegittimità formale del medesimo contratto. Equiparazione che non poteva nemmeno evincersi dalla ratio prospettata dalla Corte di appello. La ‘completa e corretta informazione … delle condizioni del proprio rapporto di lavoro’ doveva infatti riferirsi al contratto effettivamente stipulato dalle parti sì che il lavoratore, edotto delle relative condizioni, possa verificare, con l’ausilio del sindacato o di un legale di fiducia, la legittimità di tali condizioni.
Con un secondo motivo denunciano ‘Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 61 e 62, D.lgs. n. 276/2003 nonché dell’art. 1, commi 23 e 25, L. n. 92/2012 (art. 360, n. 3, c.p.c.)’.
2.1. Per i ricorrenti, l’impugnata sentenza è altresì censurabile, per vizio di sussunzione, relativamente all’affermata illegittimità dei contratti a progetto. Come emergeva dagli atti e documenti di causa, la società aveva stipulato contratti di lavoro a progetto concernenti determinate fasi di lavoro: in particolare, essa ha affidato ad alcuni collaboratori la fase di lavoro consistente nella notifica degli atti esattoriali e ad altri collaboratori la fase di lavoro consistente nelle attività preparatorie e successive alla notifica; fasi di lavoro indicate nei contratti di lavoro.
2.2. Ebbene., la Corte d’appello aveva escluso ogni rilievo a detta determinazione delle fasi di lavoro assegnate, così affermando l’illegittimità dei contratti a progetto.
2.3. Per tal modo, la stessa Corte aveva violato sia l’art. 61 d.lgs. n. 276/2003, nella versione vigente alla data di stipulazione dei contratti de quibus , sia l’art. 1, commi 23 e 25, L. n. 92/2012, che aveva novellato tale norma. Quest’ultima
distingue il ‘progetto’, il ‘programma di lavoro’ e la ‘fase di lavoro’; distinzione da cui poteva evincersi che il programma e la fase di lavoro, in quanto compresi nella complessità dell’attività aziendale, non possono avere l’autonomia e la specificità che caratterizzano il progetto. Distinzione che, secondo i ricorrenti, poteva ritenersi confermata, a contrario, dall’art. 1, comma 23, L. n. 92/2012.
2.4. Peraltro, volendo pure ritenere che sin dalla formulazione originaria la norma non prevedesse una distinzione tra progetto, programma e fase di lavoro, la sentenza sarebbe comunque censurabile per l’interpretazione data al requisito del progetto ed al suo rapporto con l’ordinaria attività aziendale, richiamando a riguardo talune decisioni di legittimità. L’attività affidata ai collaboratori a progetto non doveva pertanto essere estranea all’attività aziendale, come ribadito in altre più recenti sentenze di questa Corte.
2.5. Per i ricorrenti, nel ritenere i contratti illegittimi per assenza di una loro ‘caratterizzazione’ rispetto all’ordinaria attività aziendale, i giudici di appello hanno quindi erroneamente interpretato l’art. 61 d.lgs. n. 276/2003. E il collegio d’appello non aveva poi considerato che l’individuazione del progetto, programma o fase di lavoro costituisce non un requisito formale di redazione del contratto, bensì un requisito sostanziale correlato alla natura autonoma del rapporto.
Con un terzo motivo denunciano ‘Violazione e/o falsa applicazione dell’art. 69, comma 1, D.lgs. n. 276/2003 nonché dell’art. 1, commi 24 e 25, L. n. 92/2012 (art. 360, n. 3, c.p.c.)’. Secondo i ricorrenti, la sentenza impugnata era, infine, censurabile nella parte in cui ha affermato la natura assoluta della presunzione sancita dall’art. 69, comma 1, d.lgs. n.
276/2003. Difatti, la distinzione tra la fattispecie sancita dal primo comma di detto articolo e quella prevista nel secondo comma e la conseguente diversa ripartizione degli oneri probatori si apprezzavano proprio nella natura relativa della presunzione di subordinazione.
4. Il primo motivo è infondato.
Secondo un consolidato orientamento di questa Corte, anzitutto, le violazioni relative all’omessa o tardiva comunicazione di assunzione nel rapporto di lavoro, di cui all’art. 9 bis del d.l. n. 510 del 1996, conv. dalla l. n. 608 del 1996, hanno natura sostanziale poiché attengono all’esercizio da parte della p.a. della funzione di controllo del lavoro propria delle norme sul collocamento dei lavoratori, sicché non si applica l’art. 116, comma 12, della l. n. 388 del 2000, che ha abrogato le sole infrazioni sul collocamento di carattere meramente formale (così, tra le altre e più recenti, Cass., sez. lav., 30.10.2019, n. 27902; id., sez. lav., 25.9.2014, n. 20233).
Ebbene, la Corte di merito, nel disattendere il terzo motivo d’appello con il quale erano state poste le medesime questioni sollevate con il primo motivo del presente ricorso, aveva richiamato un precedente di legittimità, già espressivo del suddetto indirizzo (Cass. n. 3857/2008).
6.1. Indi, aveva considerato che ‘l’assolvimento degli oneri informativi e comunicativi in relazione agli instaurati rapporti di collaborazione a progetto e non ai rapporti di lavoro subordinato nei quali i primi sono stati convertiti, non consente di ritenere osservato il disposto delle predette disposizioni in quanto non risulta con esso soddisfatto la ratio ad esse sottesa. Infatti la comunicazione al RAGIONE_SOCIALE assolve la funzione, non
solo di far conoscere all’amministrazione l’esistenza del rapporto di lavoro, ma anche di consentirle il costante monitoraggio dei flussi relativi alle singole tipologie contrattuali adottate, funzione pregiudicata dalla errata comunicazione effettuata dagli appellati.
Con riguardo alla consegna al lavoratore al momento dell’assunzione del contratto di lavoro o della comunicazione di instaurazione del relativo rapporto è di tutta evidenza che la consegna di una documentazione relativa ad un rapporto avente un trattamento normativo ed economico diverso da quello effettivo, per effetto della conversione, non assolve l’obbligo di una completa e corretta informazione al lavoratore in ordine alle condizioni del proprio rapporto di lavoro’.
7. Tali considerazioni sono senz’altro condivisibili.
7.1. Questa Corte, infatti, a proposito dell’obbligo imposto dal datore di lavoro dall’art. 9 bis, comma 2, d.l. n. 510 del 1996, conv. con mod. nella l. n. 608/1996, ha più volte messo in luce che, esso, in caso di violazione, va autonomamente sanzionato in quanto diretto ad assicurare il costante monitoraggio dei flussi di manodopera nell’ambito del mercato del lavoro (cfr. Cass., sez. lav., 14.10.2015, n. 20727; id., 25.6.2009, n. 14960); per l’appunto come affermato dai giudici d’appello.
Corretta, pertanto, è la ratio della specifica previsione, ritenuta dalla Corte territoriale, a sua volta, in linea con la natura sostanziale di tale violazione.
Neppure, del resto, è condivisibile l’assunto dei ricorrenti, secondo il quale l’interpretazione sostenuta dalla Corte distrettuale sarebbe antiletterale.
Come ben risulta, infatti, dal testo della norma, i datori di lavoro sono tenuti non ad una comunicazione quale che sia circa le varie forme di lavoro ivi indicate, ma tale comunicazione ‘deve indicare’ una serie di dettagliate informazioni, tra le quali, per quello che qui maggiormente interessa, ‘la tipologia contrattuale, la qualifica professionale e il trattamento economico e normativo applicato’. Pertanto, la stessa molteplicità e specificità dei dati da fornire all’ufficio pubblico inducono a concludere che gli stessi debbano essere veridici; il che, a sua volta, risponde all’intenzione del legislatore di consentire all’amministrazione competente di monitorare i flussi relativi alle tipologie contrattuali adottate in modo corrispondente all’effettiva e reale natura di tali rapporti; esigenza, quest’ultima, tanto più avvertita a fronte del moltiplicarsi e del vario atteggiarsi nel tempo delle tipologie contrattuali di lavoro.
Perfettamente plausibile è, perciò, che sia sanzionata la ‘violazione’ dell’art. 9 bis, comma 2, cit. anche sotto tali profili (cfr. art. 19, comma 3, d.lgs. n. 276/2003), non essendo esatto l’assunto dei ricorrenti secondo il quale ‘Le condotte sanzionate devono … individuarsi’ soltanto ‘nella omissione e nella tardività della comunicazione’. Tanto, invero, non dicono sia la previsione degli obblighi informativi in questione che quella sanzionatoria in senso stretto, e, al contrario, la violazione globalmente punita copre tutti gli aspetti in ordine ai quali l’apposita comunicazione è prevista come doverosa.
Analoghe considerazioni valgono per la contestata violazione dell’art. 4 bis, comma 2, d.lgs. n. 181/2000, come sostituito dall’art. 40, comma 2, d.l. n. 112/2008 conv. con mod. in l. n. 133/2008, ossia, nella versione ratione temporis applicabile (la norma è stata in seguito più volte modificata).
Tale comma, infatti, recita(va) all’epoca dei fatti contestati: ‘All’atto dell’assunzione, prima dell’inizio della attività di lavoro, i datori di lavoro pubblici e privati, sono tenuti a consegnare ai lavoratori una copia della comunicazione di instaurazione del rapporto di lavoro di cui all’art. 9 -bis, comma 2, del decretolegge 1° ottobre 1996, n. 510, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 novembre 1996, n. 608, e successive modificazioni, adempiendo in tal modo anche alla comunicazione di cui al decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 151. L’obbligo si intende assolto nel caso in cui il datore di lavoro consegni al lavoratore, prima dell’inizio dell’attività lavorativa, copia del contratto individuale di lavoro che contenga anche tutte le informazioni previste dal decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 152′.
8.1. Orbene, quanto al riferimento alla comunicazione ex art. 9 bis, comma 2, d.l. n. 510/1996 convertito, è sufficiente richiamare le considerazioni svolte a proposito della diretta violazione di quest’ultima disposizione. E’ evidente, infatti, che la copia di tale comunicazione da far tenere al lavoratore dev’essere appunto conforme alla stessa comunicazione e, pertanto, come quest’ultima dev’essere completa e veridica quanto ai dati riportati, segnatamente circa la natura del rapporto lavorativo. Circa l ‘alternativa ed equipollente forma di adempimento del medesimo obbligo consistente nella consegna di copia del contratto individuale di lavoro al lavoratore, appare
dirimente il rilievo che la disposizione impone che la copia ‘contenga anche tutte le informazioni previste dal decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 152’. Invero, com’è agevole constatare, il solo art. 1 di quest’ultimo d.lgs. (sempre nel testo vigente ratione temporis , essendo stato in seguito modificato), sotto la rubrica (all’epoca) ‘Obbligo di informazione’, già contemplava un nutrito elenco d’informazioni da fornire al lavoratore, tra le quali al comma 1, lett. f) ‘le caratteristiche o la descrizione sommaria del lavoro’.
Anche in questo caso, perciò, non è esatto l’assunto dei ricorrenti secondo cui ‘La condotta sanzionata è quindi data dall’omessa consegna di tali documenti’. La violazione ricorre, infatti, anche quando la copia dell’apposita comunicazione o in alternativa la copia del contratto individuale di lavoro con tutte le informazioni previste non siano complete e veridiche quanto alla natura effettiva del rapporto. A loro volta, poi, le previsioni in questione, benché sanciscano obblighi da assolversi nei confronti del lavoratore, parimenti rispondono alle finalità sostanziali di controllo sopra illustrate, tanto che, come s’è visto, l’art. 4 bis, comma 2, d.lgs. n. 181/2000, nel testo da considerare ratione temporis , esplicitamente richiamava l’art. 9 bis, comma 2, d.l. cit. e la loro violazione è sanzionata a livello pubblicistico.
9. Parimenti infondato è il secondo motivo di ricorso.
Invero, le diffuse considerazioni svolte dalla Corte di merito a proposito della stessa questione ad essa posta con il primo motivo d’appello (cfr. pagg. 7 -15 della sua sentenza), sono del tutto aderenti sul piano giuridico ad un consolidato
orientamento di questa Corte di legittimità, cui del resto i giudici d’appello si sono espressamente riferiti.
10.1. In termini generali, infatti, è stato ribadito che il combinato disposto di cui al d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, artt. 61 e 69, palesa l’intenzione del legislatore delegato di vietare, in armonia con la finalità enunciata dalla L. n. 30 del 2003, art. 4, comma 1, lett. c), n. 1-6 (e fatte salve le specifiche eccezioni ivi previste e poi trasfuse nel d.lgs. n. 276 del 2003, art. 61, commi 1-3), il ricorso a collaborazioni coordinate e continuative che non siano riconducibili ad uno o più progetti o programmi di lavoro o fasi di esso, allo scopo di porre un argine all’abuso della figura della collaborazione coordinata e continuativa, in considerazione della frequenza con cui giudizialmente ne veniva accertata la funzione simulatoria di rapporti di lavoro subordinato (così Cass., sez. lav., 20.5.2020, n. 9308). Si è affermato, allora, che il senso complessivo delle disposizioni contenute negli artt. 61-69 d.lgs. n. 276/2003 si ricava dalla previsione contenuta nell’art. 61, comma 1, stesso d.lgs., secondo il quale i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, prevalentemente personale e senza vincolo di subordinazione, di cui all’art. 409 n. 3 c.p.c., devono essere riconducibili a uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con la organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione della attività lavorativa (Cas s., sez. lav., 27.4.2021, n. 11109).
Anche dopo l’emanazione della sentenza qui impugnata, è stato, perciò, confermato che, seppur il progetto, il programma
di lavoro o la fase di esso non debbano per forza inerire a un’attività eccezionale, originale o diversa da quella ordinaria svolta dal datore, tuttavia occorre che l’attività dedotta in contratto sia riconducibile ad uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di lavoro, determinati dal committente e gestiti dal collaboratore proprio in funzione del risultato stesso dedotto in contratto, essendo proprio l’individuabilità del risultato ciò che giustifica l’autonomia gestionale del rapporto (in tal senso Cass., sez. lav., 6.2.2020, n. 2854).
Infatti, il progetto (come il programma di lavoro o fase di esso): (a) deve risultare ‘specifico’, nel senso della individuazione, di un ‘contenuto caratterizzante’ (art. 62, comma 1, lett. b), d.lgs. n. 276/2003) e cioè di una indicazione, da inserirsi nel contratto, che ne delimiti con chiarezza e precisione l’oggetto e la portata; (b) deve essere gestito ‘autonomamente dal collaboratore’ e (c) tendere, nel rispetto del coordinamento con l’organizzazione del committente, ad un ‘risultato’, vale a dire al conseguimento di un obiettivo definito, che, se pur non eccezionale o del tutto sconnesso rispetto alla ordinaria e complessiva attività di impresa, deve nondimeno da questa essere concretamente distinguibile e tale da integrare un apporto collaborativo non circoscritto a un segmento distinto di una più ampia organizzazione produttiva (Cass., sez. lav., 28.10.2020, n. 23768; e in analoga prospettiva Cass., sez. lav., 25.2.2019, n. 5418, la quale ha messo in luce che, in tema di contratto a progetto, la def inizione legale di cui all’art. 61 d.lgs. n. 276 del 2003 richiede la riconducibilità dell’attività ad un progetto o programma specifico -senza alcuna differenza concettuale tra i due termini -il cui contenuto, sebbene non inerente ad una attività eccezionale, originale o del tutto diversa
rispetto alla ordinaria attività di impresa, sia comunque suscettibile di una valutazione distinta da una routine ripetuta e prevedibile, dettagliatamente articolato ed illustrato con la preventiva individuazione di azioni, tempi, risorse, ruolo e aspettative di risultati, e dunque caratterizzato da una determinata finalizzazione, anche in termini di quantità e tempi di lavoro).
11. Ebbene, la Corte distrettuale, come il Tribunale, ha fatto riferimento alla disciplina della materia anteriore alla riforma di cui alla legge n . 92/2012; ha osservato che non era contrastato dagli allora appellanti che l’attività dei collaboratori oggetto dei contratti de quibus non configuri un progetto specifico e determinato (pur essendo stata adottata l’espressione letterale ‘progetto’ in tali contratti); ha considerato, nel verificare se l’attività di quei collaboratori integrasse gli estremi di un a ‘fase di lavoro’, che la descrizione contenuta nei contratti in esame non poteva ritenersi assolutamente idonea a consentire l’apprezzamento dell’identità della fase del programma di lavoro affidata ai collaboratori e a consentire l’identificazione della sua caratterizzazione rispetto alla ordinaria attività aziendale che giustifichi il ricorso alle collaborazioni in questione; ha aggiunto che non poteva sostenersi che l’attività dei messi notificatori costituirebbe una fase di lavoro distinta da quella dei dipendenti addetti al back office, condividendo pienamente la motivazione del Tribunale laddove aveva rilevato la natura artificiosa della dedotta distinzione e della ripartizione delle due fasi di lavoro, tenuto conto degli evidenti ed imprescindibili elementi di collegamento funzionale sussistenti tra le attività dei messi notificatori e degli addetti alla realizzazione delle attività preparatorie e susseguenti le operazioni di notificazione, che fanno sì che la
sommatoria di tali attività realizzi nella sua totalità l’attività e l’oggetto sociale del committente che risultano semplicemente frazionate tra le categorie di collaboratori.
11.1. Pertanto, le valutazioni così riassunte, compiute dai giudici d’appello in base a motivato accertamento fattuale non sindacabile in questa sede di legittimità, risultano conformi ai principi di diritto sopra richiamati.
12. E’ infine infondato il terzo motivo.
Difatti, contrariamente a quando deducono i ricorrenti, questa Corte ha costantemente ribadito che, in tema di lavoro a progetto, l’art. 69, comma 1, d.lgs. n. 276 del 2003 ( ratione temporis applicabile, nella versione antecedente le modifiche di cui alla l. n. 92 del 2012, art. 1, comma 23, lett. f), si interpreta nel senso che, quando un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa sia instaurato senza l’individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso, non si fa luogo ad accertamenti volti a verificare se il rapporto si sia esplicato secondo i canoni dell’autonomia o della subordinazione, ma ad automatica conversione in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, sin dalla data di costituzione dello stesso (così, tra le tante, Cass. n. 28918/2021, la quale ha confermato il ‘carattere assoluto della presunzione legale’).
I ricorrenti, in quanto soccombenti, devono essere condannati al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, e sono tenuti al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 5.000,00 per compensi professionali, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
Così dec iso in Roma nell’adunanza camerale del 28.5.2024.