Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 24503 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 24503 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: TRICOMI IRENE
Data pubblicazione: 04/09/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 18598/2024 R.G. proposto da :
COGNOME rappresentata e difesa dal l’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende, con cui domicilia PEC EMAIL
-ricorrente-
contro
COMUNE DI VENEZIA, in persona del Sindaco pro tempore , elettivamente domiciliato in ROMA INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che lo rappresenta
e difende unitamente agli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME
-controricorrente-
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO VENEZIA n. 106/2024 depositata il 11/03/2024, RG n. 522 del 2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 01/07/2025 dal Consigliere NOME COGNOME
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. NOME COGNOME ha agito in giudizio dinanzi al Tribunale di Venezia deducendo di aver stipulato con il Comune di Venezia più contratti a termine (graduatoria educatore sostegno handicap in asilo nido), e che tali contratti non erano stati più rinnovati nei propri confronti per il superamento del limite temporale dei 36 mesi (art. 36 d.lgs. n.165 del 2001, artt. 19, ssg, d.lgs. 81/2015, art. 50 CCNL Regioni ed Enti locali 21 maggio 2018) e che il Comune aveva assunto a termine altri lavoratori. Chiedeva, quindi la trasformazione del rapporto di lavoro a termine in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, ovvero la stipula di ulteriori contratti a termine, ovvero in via subordinata il risarcimento del danno ex art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001.
Il Tribunale ha rigettato la domanda volta alla trasformazione del rapporto di lavoro a termine in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, ha accertato l’abusiva reiterazione dei contratti stipulati tra la ricorrente ed il Comune, per lo sforamento del tetto massimo di 36 mesi, e ha condannato l’Amministrazione al risarcimento del danno ex art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001 nella misura di 2,5 mensilità della retribuzione percepita in forza dell’ultimo contratto stipulato tra le parti, oltre interessi leg ali.
La lavoratrice ha proposto appello insistendo nella domanda di trasformazione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
La Corte d’Appello di Venezia ha rigettato l’impugnazione atteso che, in ragione della giurisprudenza della CGUE e di legittimità, nel pubblico impiego non può darsi corso alla trasformazione del rapporto di lavoro a termine in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, una volta superato il termine di 36 mesi.
Per la cassazione della sentenza di appello ricorre la lavoratrice prospettando un motivo di ricorso.
Resiste con controricorso il Comune di Venezia.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con l’unico motivo di ricorso è dedotta la violazione o errata ricognizione di legge e contratto collettivo nazionale di lavoro -Clausola 5, lettera B) dell’Accordo Quadro sul tempo determinato recato dalla Direttiva UE 70/99/CE del 28 giugno 1999 – art. 19 D.Lgs. 81 del 15 giugno 2015 -art. 36 D.Lgs. 165 del 30 marzo 2001 -Art. 50 C.C.N.L. Regioni e Autonomie Locali del 21 maggio 2018 e successive modificazioni -i n riferimento all’art. 97 della Costituzione.
La ricorrente prospetta che il termine massimo di tempo totale stabilito dalla legge e dai contratti collettivi opera come un limite soggettivo applicabile al lavoratore, così impedendo la costituzione del rapporto di lavoro (benché soltanto a termine) con quel lavoratore e legittimando il datore di lavoro a preferirgli altro lavoratore collocato in posizione deteriore nella medesima graduatoria da cui si sta attingendo.
Di talché il limite massimo di tempo totale del lavoro a termine, individuato soggettivamente, prevalga sul principio di assunzione dei più meritevoli di cui all’art. 97 della Costituzione.
Deduce che il limite massimo totale di durata dei contratti a termine ha natura di misura di prevenzione degli abusi e quindi piegarlo alla funzione di privare del diritto al lavoro un candidato in favore di altro in posizione deteriore in una graduatoria di merito sarebbe una eterogenesi dei fini.
Il senso del limite di tempo totale, confermato dal richiamo della legislazione nazionale al principio eurounitario per cui il contratto di lavoro a tempo indeterminato è la forma normale del rapporto di lavoro (d.lgs. 81/2015), anche nel pubblico impiego (art. 36 del d.lgs. 165/2001), è che al superamento di quel termine si deve stipulare un contratto definitivo, a meno che non si verta in quelle particolari condizioni che giustifichino la prosecuzione dei rapporti a termine senza che ciò costituisca abuso.
2. Il motivo di ricorso non è fondato.
La ratio decidendi della sentenza della Corte d’Appello si incentra sulla esclusione nel pubblico impiego della trasformazione del rapporto di lavoro a termine in rapporto di lavoro a tempo indeterminato una volta che sia stato consumato/superato il termine massimo per il quale è consentita la stipula di contratti a tempo determinato. Ciò, anche nel caso di abusiva reiterazione della contrattazione a termine, come accertato nella specie dal giudice del merito che ha condannato l’Amministrazione al risarcime nto del danno cd. ‘comunitario’ in favore della lavoratrice.
Tale statuizione fa corretta applicazione dei principi enunciati dalla giurisprudenza eurounitaria, costituzionale e di legittimità in materia.
Ai sensi dell’art. 36, comma 5, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo
indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, salvo il diritto al risarcimento del danno.
Con la sentenza n. 89 del 2003 la Corte costituzionale ha affermato che il principio fondamentale in materia di instaurazione del rapporto di impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni è quello, del tutto estraneo alla disciplina del lavoro privato, dell’accesso mediante concorso, enunciato dall’ art. 97, Cost., che pone tale principio a presidio delle esigenze di natura pubblicistica della collettività di imparzialità e buon andamento dell’Amministrazione e giustifica la scelta del legislator e di ricollegare alla violazione di norme imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego dei lavoratori da parte delle amministrazioni pubbliche conseguenze di carattere esclusivamente risarcitorio, in luogo della conversione in rapporto a tempo indeterminato prevista per i lavoratori privati.
La CGUE, a sua volta, ha affermato che la suddetta previsione non è in contrasto con la clausola 5 dell’accordo -quadro allegato alla direttiva n. 1999/70/CE (ordinanza 1° ottobre 2010, causa C-3/10, Affatato ) quando l’ordinamento giuridico interno preveda, nel settore interessato, altre misure effettive per evitare, ed eventualmente sanzionare, il ricorso abusivo a contratti a tempo determinato stipulati in successione.
La giurisprudenza di legittimità ha più volte chiarito che, secondo i principi costituzionali, il lavoro pubblico e il lavoro privato non possono essere totalmente assimilati e le differenze, pur attenuate, permangono anche in séguito all’estensione della contrattazione collettiva a una vasta area del lavoro prestato alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni e che la medesima eterogeneità dei termini posti a raffronto connota l’area del lavoro pubblico contrattualizzato e l’area del lavoro pubblico estraneo alla
regolamentazione contrattuale: in particolare i principi costituzionali di legalità ed imparzialità concorrono comunque a conformare la condotta della pubblica amministrazione e l’esercizio delle facoltà riconosciutele quale datore di lavoro pubblico in regime contrattualizzato (cfr., Cass. n. 11537 del 2020, n. 11595 del 2016, Corte cost., n. 178 del 2015, n. 180 del 2021, punto 5.4.1. del Considerato in diritto).
Alcune pronunce della Corte di legittimità e della CGUE assumono precipuo rilievo per definire il quadro della disciplina sanzionatoria del superamento del termine di durata dei contratti a tempo determinato.
In particolare, si richiamano la sentenza CGUE, 7 settembre 2006, C-53/04, COGNOME -Sardino; la sentenza delle Sezioni Unite civili n. 5072 del 15 marzo 2016; la sentenza CGUE 26 novembre 2014, C-22/13, da C-61/13 a C-63/13 e C-418/13, COGNOME, con specifico riguardo alla disciplina delle supplenze nella scuola; la sentenza 7 marzo 2018, causa C494/16, COGNOME, quest’ultima intervenuta a seguito del rinvio pregiudiziale proposto dal Tribunale di Trapani, in relazione ai criteri di determinazione del danno come stabiliti dalle Sezioni Unite civili; la sentenza CGUE 8 maggio 2019, C-494/17, Rossato, e le decisioni di legittimità che hanno dato applicazione al diritto eurounitario.
La questione, che era stata posta alla CGUE, sentenza COGNOME, ha riguardato la compatibilità con il diritto comunitario dell’art. 36, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, che (in modo analogo all’attuale art. 36, comma 5) escludeva la conversione in presenza della violazione delle norme imperative concernenti la successione di contratti di lavoro a tempo determinato conclusi con amministrazioni pubbliche, a differenza della disciplina del lavoro privato.
La CGUE, con la sentenza COGNOME, ha ribadito che la direttiva 1999/70/CE e l’allegato accordo quadro si applicano ai contratti e ai rapporti di lavoro a tempo determinato conclusi con le amministrazioni e altri enti del settore pubblico. Ha, quindi, affermava che la clausola 5 dell’accordo quadro non osta, in quanto tale, a che uno Stato membro riservi un destino differente al ricorso abusivo a contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione a seconda che tali contratti siano stati conclusi con un datore di lavoro appartenente al settore privato o con un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico. Si legge al punto 49 della citata sentenza COGNOME – che richiama il punto 105 della sentenza 4 luglio 2006, C-212/04, COGNOME -che, affinché una normativa nazionale, come quella controversa nella causa principale, che vieta, nel solo settore pubblico, la trasformazione in contratto di lavoro a tempo indeterminato di una successione di contratti a tempo deter minato, possa essere considerata conforme all’accordo quadro, l’ordinamento giuridico interno dello Stato membro interessato deve prevedere, in tale settore, un’altra misura effettiva per evitare, ed eventualmente sanzionare, l’utilizzo abusivo di contratt i a tempo determinato stipulati in successione.
In esito alla citata sentenza CGUE, le Sezioni Unite civili, con la sentenza n. 5072 del 2016, hanno statuito proprio rispetto alla portata applicativa e alla parametrazione del danno risarcibile ai sensi dell’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001, in presenza di abusiva reiterazione dei contratti a termine. Le Sezioni Unite, preliminarmente, hanno ri badito l’attualità del divieto, già affermata dalla giurisprudenza di legittimità, di conversione del rapporto di lavoro a termine illegittimo in rapporto a tempo indeterminato. Le Sezioni Unite hanno rilevato che, nel rapporto di lavoro pubblico, è fuori dal risarcimento del danno la mancata conversione del rapporto
di lavoro, in quanto la stessa è legittima. Non c’è un danno da mancata conversione del rapporto e quindi da perdita del posto di lavoro: «il danno è altro. Il lavoratore, che abbia reso una prestazione lavorativa a termine in una situazione di ipotizzata illegittimità della clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro o, più in generale, di abuso del ricorso a tale fattispecie contrattuale, essenzialmente in ipotesi di proroga, rinnovo o ripetuta reiterazione contra legem , subisce gli effetti pregiudizievoli che, come danno patrimoniale, possono variamente configurarsi. Si può soprattutto ipotizzare una perdita di chance nel senso che, se la pubblica amministrazione avesse operato legittimamente emanando un bando di concorso per il posto, il lavoratore, che si duole dell’illegittimo ricorso al contratto a termine, avrebbe potuto parteciparvi e risultarne vincitore». Dunque, affermano le Sezioni Unite che «l’evenienza ordinaria è la perdita di chance risarcibile come danno patrimoniale nella mi sura in cui l’illegittimo (soprattutto se prolungato) impiego a termine abbia fatto perdere al lavoratore altre occasioni di lavoro stabile. Ma non può escludersi che una prolungata precarizzazione per anni possa aver inflitto al lavoratore un pregiudizio che va al di là della mera perdita di chance di un’occupazione migliore».
Le Sezioni Unite della Corte di cassazione, quindi, hanno ritenuto applicabile l’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010, rilevandone la diversa funzione nel caso di contratti a termine che attengano al rapporto di lavoro privato o al rapporto di lavoro di pubblico impiego contrattualizzato. In questa seconda evenienza, l’art. 32, comma 5, opera in chiave agevolativa, nel senso che in quella misura risulta assolto l’onere della prova del danno che grava sul lavoratore.
A seguito della sentenza S.U. n. 5072 del 2016, il Tribunale di Trapani ha sollevato rinvio pregiudiziale dinanzi alla CGUE in ragione di un dubbio di compatibilità della suddetta sentenza delle Sezioni Unite con le disposizioni dell’accordo quadro e la giurisprudenza europea in materia.
La CGUE, in relazione al suddetto rinvio pregiudiziale, ha pronunciato la sentenza 7 marzo 2018, C-494/16, COGNOME, con la quale ha ribadito che la clausola 5, punto 2, dell’accordo quadro non istituisce un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione in contratti a tempo indeterminato dei contratti di lavoro a tempo determinato, né prescrive a quali precise condizioni si possa far ricorso a questi ultimi, essa lascia un certo potere discrezionale, in materia, agli Stati membri, e che da ciò discende che la clausola 5 dell’accordo quadro non osta, in quanto tale, a che uno Stato membro riservi un destino differente al ricorso abusivo a contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione, a seconda che tali contratti o rapporti siano stati conclusi con un datore di lavoro appartenente al settore privato o con un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico.
La CGUE ha concluso affermando che «la clausola 5 dell’accordo quadro dev’essere interpretata nel senso che essa non osta a una normativa nazionale che, da un lato, non sanziona il ricorso abusivo, da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico, a una successione di contratti a tempo determinato mediante il versamento, al lavoratore interessato, di un’indennità volta a compensare la mancata trasformazione del rapporto di lavoro a tempo determinato in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato bensì, dall’altro, prevede la concessione di un’indennità compresa tra 2,5 e 12 mensilità dell’ultima retribuzione di detto lavoratore, accompagnata dalla possibilità, per quest’ultimo, di ottenere il
risarcimento integrale del danno dimostrando, mediante presunzioni, la perdita di opportunità di trovare un impiego o il fatto che, qualora un concorso fosse stato organizzato in modo regolare, egli lo avrebbe superato, purché una siffatta normativa sia accompagnata da un meccanismo sanzionatorio effettivo e dissuasivo, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare».
A sua volta, la Corte costituzionale con la sentenza n. 248 del 2018, dopo aver richiamato la sentenza della CGUE, COGNOME, e la sentenza n. 5072 del 2016 delle Sezioni unite civili, ha affermato che, se da una parte non può che confermarsi l’impossibilità per tutto il settore pubblico di conversione del rapporto da tempo determinato a tempo indeterminato – secondo la pacifica giurisprudenza eurou nitaria e nazionale -dall’altra sussiste una misura sanzionatoria adeguata, costituita dal risarcimento del danno nei termini precisati dalla Corte di cassazione.
Nella specie, a fronte della consumazione e abusiva reiterazione del termine di durata del contratto a tempo determinato, per cui il Tribunale ha già riconosciuto alla lavoratrice il cd. danno comunitario, correttamente la Corte d’Appello ha affermato che non poteva darsi luogo alla trasformazione del rapporto di lavoro a termine in esame in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, né tale effetto poteva discendere da vicende esterne al rapporto di lavoro per cui è causa che avrebbero riguardato altri lavoratori.
Il ricorso deve essere rigettato. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in euro 2.500,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi, spese generali in misura del 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1bis , dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione