Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 1394 Anno 2025
Civile Sent. Sez. L Num. 1394 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 20/01/2025
SENTENZA
sul ricorso 24242-2023 proposto da:
NOME, elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO presso lo studio dell’avvocato NOME COGNOME che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati NOME COGNOME NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
ISPETTORATO TERRITORIALE DEL RAGIONE_SOCIALE UDINE PORDENONE, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso ope legis dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia in ROMA, alla INDIRIZZO
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 82/2023 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE, depositata il 15/06/2023 R.G.N. 32/2023;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/12/2024 dal Consigliere Dott. COGNOME
Oggetto
Sanzioni amministrative
R.G.N. 24242/2023
COGNOME
Rep.
Ud. 04/12//2024
PU
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito l’avvocato NOME COGNOME
udito l’avvocato NOME COGNOME
Fatti di causa
Il Tribunale di Udine respingeva l’opposizione all’ordinanza ingiunzione n. 384/2018 – 53, proposta dalla RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante, e da NOME COGNOME (in proprio) con la quale veniva loro intimato il pagamento di euro 183.280,00 perché, a seguito di verbale unico di accertamento e notificazione del 2.10.2017, relativo al periodo 1.11.2013 – 31.12.2016, era stato ritenuto che i contratti stipulati con i propri collaboratori dalla predetta RAGIONE_SOCIALE non fossero genuini e legittimi e, pertanto, i relativi rapporti dovessero essere qualificati di natura subordinata.
La Corte di appello di Trieste, con la sentenza n. 83/2023, rigettava il gravame proposto dalla sola NOME COGNOME (nel corso del giudizio di primo grado, infatti, la RAGIONE_SOCIALE era stata posta in liquidazione coatta amministrativa) confermando la pronuncia del Tribunale.
I giudici di seconde cure rilevavano che: a) il verbale posto a base dell’ordinanza impugnata risultava conforme al disposto dell’art. 13 co. 4 lett. a) D.lgs. n. 124/04; l’eccezione sulla tardività della contestazione dell’illecito era inammissibile per tardiva proposizione della stessa, c) i contratti di collaborazione a progetto stipulati dalla RAGIONE_SOCIALE in forma standardizzata e ripetitiva (e ciò rendeva irrilevante il richiamo alla Circolare ministeriale n. 7/2013), nelle due tipologie di loro redazione, erano illegittimi in quanto in entrambi i casi, oltre a realizzarsi una sostanziale coincidenza con l’oggetto della Cooperativa, non risultava in alcun modo predeterminata la realizzazione di un risultato concreto, distinto ed autonomo rispetto alle attività demandate ai singoli collaboratori; d) il regime sanzionatorio applicabile era quello previsto dall’art. 69 D.lgs. n. 276/2003 con la conseguente conversione dei rapporti ope legis in quelli di natura subordinata; e) anche il tema dell’affidamento in buona fede, da parte della
Cooperativa, sulla legittimità dei contratti intercorsi con i collaboratori, per essere stati già oggetto in passato (maggio 2010) di accertamenti dell’Ispettorato del Lavoro, dell’INPS e della Guardia di Finanza relativamente a diversi periodi, non era accoglibile perché il profilo della genuinità dei rapporti non era stato mai esaminato e perché comunque l’omessa disamina non equivaleva ad un provvedimento positivo concernente la correttezza delle concrete modalità operative adottate.
Avverso la decisione di secondo grado NOME COGNOME in proprio, proponeva ricorso per cassazione affidato a due motivi cui resisteva con controricorso l’Ispettorato territoriale del Lavoro di Udine-Pordenone.
Il Procuratore Generale rassegnava conclusioni scritte chiedendo il rigetto del ricorso.
La ricorrente depositava memoria ove reiterava le istanze di riunione e di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, come articolate nel secondo motivo, di seguito illustrato, del presente ricorso.
Ragioni della decisione
I motivi possono essere così sintetizzati.
Con il primo motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, la violazione e/o falsa applicazione delle norme di cui agli artt. 61 e ss. del D.lgs. n. 276/2003 e/o della Circolare n. 7 del Ministero del lavoro, e/o di cui agli artt. 2 e 41 della Costituzione, la cui corretta considerazione avrebbe consentito una diversa decisione del giudizio. Si evidenzia l’erroneità della argomentazione della Corte territoriale che aveva ritenuto che i progetti indicati nei contratti di collaborazione coincidevano con l’oggetto sociale della Cooperativa e non contenevano un risultato specifico, dovendo, invece, la relativa valutazione svolgersi sulla base del contenuto negoziale e non delle concrete modalità di attuazione del rapporto; inoltre, si rappresenta anche l’erroneità dell’assunto della Corte territoriale che aveva ritenuto irrilevante il richiamo alla circolare n. 7 del Ministero del lavoro volta a consentire l’utilizzazione di collaborazioni a progetto nell’ambito delle organizzazioni socio-assistenziali, con margini di autonomia
laddove veniva concordato, di volta in volta con il destinatario della prestazione, gli aspetti operativi afferenti alla tipologia di intervento, gli orari di assistenza nonché le concrete modalità di erogazione del servizio.
Con il secondo motivo si censura, ai sensi dell’art. 360 co. 1 n. 3 cpc, la violazione e falsa applicazione della norma di cui all’art. 1 della legge n. 241/1990 e/o di cui all’art. 97 della Costituzione e/o di cui all’art. 3 della legge n. 689/1981, nonché del principio generale della tutela dell’affidamento in buona fede, la cui corretta considerazione avrebbe consentito una diversa decisione del giudizio. Si deduce che la Corte territoriale ha errato nel non avere ritenuto violato il principio generale della tutela dell’affidamento in buona fede a fronte di una contraddittorietà dell’azione amministrativa, costituente eccesso di potere degli organi accertatori, nella valutazione della genuinità dei contratti a progetto stipulati con i collaboratori della Cooperativa considerati in precedenza validi; si contesta che il comportamento della P.A. potesse essere considerato come mero silenzio e/o inerzia e che si era determinata una aspettativa di correttezza del proprio operato.
Si chiede, in via preliminare, che sia disposta la riunione del presente ricorso a quello recante il n. 3158/22, pendente tra le stesse parti innanzi a questa Corte. In via pregiudiziale si insta, poi, per la trasmissione degli atti alla Corte di Giustizia UE per violazione del diritto europeo e, in particolare del principio comunitario del legittimo affidamento, contemplato nei Trattati dell’Unione Europea e finalizzato a risolvere la contrapposizione tra l’interesse pubblico in relazione alle modificazioni della realtà e l’interesse dei privati e degli imprenditori a condurre la loro vita ed i loro affari sulla base del quadro giuridico loro tracciato e delle possibilità di azione loro riconosciute, in un certo momento, dall’amministrazione, a non trovarsi ‘spiazzati’ da inattesi mutamenti dello scenario: legittimo affidamento che può ritenersi leso non solo a seguito di un atto ampliativo della sfera giuridica ma anche per la mancata adozione di un atto sfavorevole.
Preliminarmente va respinta l’istanza di riunione del presente procedimento a quello recante il n. 3158/2022 r.g.,
perché i due giudizi in oggetto, pur riguardando analoghe questioni di merito, tuttavia concernono opposizioni a diverse ordinanzeingiunzioni, articolate con differenti motivi, di talché è opportuno trattarli separatamente; né ricorre l’ipotesi di cui all’art. 335 cpc.
Il primo motivo presenta profili di inammissibilità e di infondatezza.
Sono inammissibili tutte le doglianze riguardanti accertamenti di merito, come la valutazione che i progetti indicati coincidevano con l’oggetto sociale della RAGIONE_SOCIALE senza l’indicazione di uno specifico risultato, ovvero il rilievo che tutti i progetti inseriti nei contratti di collaborazione risultavano redatti in forma standardizzata e ripetitiva (tali da essere rispondenti a due tipologie generali) cosicché non era ipotizzabile l’utilizzazione di collaborazioni a progetto secondo quanto previsto dalla circolare n. 7/2013 del Ministero del Lavoro che richiedeva, ai fini della sua operatività, un accordo (tra collaboratore e destinatario finale della prestazione) specifico e particolare delle concrete modalità di erogazione del servizio, della tipologia di intervento e degli orari di assistenza.
Sono, poi, infondate le doglianze di diritto perché la verifica sulla legittimità ai sensi del primo comma dell’art. 69 d.lgs. n. 276/2003 del progetto va effettuata a priori e non a posteriori , come invece sostiene parte ricorrente (cfr. Cass. n. 17127/2016; Cass. n. 17707/2020; Cass. n. 34193/2022).
Invero, in tema di lavoro a progetto, l’art. 69, comma 1, del d.lgs. n. 276 del 2003 (“ratione temporis” applicabile, nella versione antecedente le modifiche di cui all’art. 1, comma 23, lett. f), della l. n. 92 del 2012), si interpreta nel senso che, quando un rapporto di collaborazione coordinata e continuativa sia instaurato senza l’individuazione di uno specifico progetto, programma di lavoro o fase di esso, si verifica un’automatica conversione in rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, sin dalla data di costituzione dello stesso, senza far luogo ad accertamenti volti a verificare se il rapporto si sia poi in concreto esplicato secondo i canoni dell’autonomia o della subordinazione, (cfr. Cass. n. 17127/2016; Cass. n. 17707/2020; Cass. n. 34193/2022).
Il secondo motivo è infondato.
Va premessa, in primo luogo, la infondatezza della denunciata violazione dell’art. 3 legge n. 689/1981, con riguardo alla asserita mancanza della colpa con conseguente esclusione della punibilità/sanzionabilità, in presenza di buona fede derivante da errore scusabile in quanto, in tema di violazioni amministrative, l’errore sulla liceità del fatto giustifica l’esclusione della responsabilità solo quando risulti inevitabile, occorrendo a tal fine un elemento positivo, estraneo all’autore dell’infrazione, idoneo ad ingenerare in lui la convinzione della stessa liceità, oltre alla condizione che, da parte sua, sia stato fatto tutto il possibile per osservare la legge e che nessun rimprovero possa essergli mosso, così che l’errore sia stato incolpevole, non suscettibile, cioè, di essere impedito dall’interessato con l’ordinaria diligenza: nella fattispecie, entrambi i presupposti non sono ravvisabili.
In ordine, poi, alla violazione del principio generale della tutela dell’affidamento in buona fede, deve osservarsi quanto segue.
La Corte territoriale ha respinto la eccezione della Cooperativa di avere agito nella incolpevole convinzione, indotta dal comportamento dell’Amministrazione, di essere nel giusto, sulla base delle seguenti argomentazioni:
il tema della genuinità dei rapporti di collaborazione a progetto non era stato mai specificamente esaminato dai pregressi accertatori;
il silenzio della PA non poteva legittimare alcun affidamento;
vi era la strada della certificazione ai sensi del D.lgs. n. 276/2003;
non vi era stata la prova di accertamenti della PA incompatibili con quanto successivamente contestato.
Vi è stato, pertanto, un accertamento di fatto, incensurabile innanzi a questa RAGIONE_SOCIALE, che ha escluso che le precedenti indagini avessero avuto riguardo alla genuinità dei rapporti di collaborazione a progetto, oggetto del verbale unico relativo al presente giudizio.
Tale accertamento ha, dunque, escluso i presupposti dell’affidamento incolpevole, che sono: i) l’imputabilità del fatto alla stessa PA agente; ii) la presenza di un atto favorevole determinato da un provvedimento o da una prassi su una medesima fattispecie; iii) un comportamento posto in essere dall’organo competente o da un organo collegiale regolare; iv) un significativo lasso temporale.
Resta da esaminare l’istanza di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ai sensi dell’art. 267 TFUE (già art. 234 del Trattato che istituisce la Comunità Europea), sul quesito formulato dalla ricorrente, per violazione del diritto europeo e, in particolare del principio comunitario del legittimo affidamento, contemplato nei Trattati dell’Unione Europea e finalizzato a risolvere la contrapposizione tra l’interesse pubblico in relazione alle modificazioni della realtà e l’interesse dei privati e degli imprenditori a condurre la loro vita ed i loro affari sulla base del quadro giuridico loro tracciato e delle possibilità di azione loro riconosciute, in un certo momento, dall’amministrazione, a non trovarsi ‘spiazzati’ da inattesi mutamenti dello scenario: legittimo affidamento che può ritenersi leso non solo a seguito di un atto ampliativo della sfera giuridica ma anche per la mancata adozione di un atto sfavorevole.
Opportuno premettere che, secondo questa Corte Suprema, l’obbligo di rinvio per il giudice nazionale di ultima istanza viene meno quando non sussista la necessità di una pronuncia pregiudiziale sulla normativa comunitaria, in quanto la questione sollevata sia materialmente identica ad altra, già sottoposta alla Corte in analoga fattispecie, ovvero quando sul problema giuridico esaminato si sia formata una consolidata giurisprudenza di detta Corte (tra molte: Cass. n. 4776 del 2012); similmente, il rinvio pregiudiziale, quantunque obbligatorio per i giudici di ultima istanza, presuppone che la questione interpretativa controversa abbia rilevanza in relazione al thema decidendum sottoposto all’esame del giudice nazionale e alle norme interne che lo disciplinano (Cass. SS.UU. n. 8095 del 2007).
Invero è noto (Cass. SS.UU. n. 20701 del 2013) che il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia non costituisce un rimedio giuridico esperibile automaticamente a semplice richiesta delle parti, spettando solo al giudice stabilirne la necessità: infatti, esso ha la funzione di verificare la legittimità di una legge nazionale rispetto al diritto dell’Unione Europea e se la normativa interna sia pienamente rispettosa dei diritti fondamentali della persona, quali risultanti dall’evoluzione giurisprudenziale della Corte di Strasburgo e recepiti dal Trattato sull’Unione Europea; sicché il giudice, effettuato tale riscontro, non è obbligato a disporre il rinvio solo perché proveniente da istanza di parte (tra le altre: Cass. n. 6862 del 2014; Cass. n. 13603 del 2011).
D’altro canto, è incontrastato l’enunciato, più volte ribadito da questa Corte a Sezioni unite, secondo cui la CGUE, nell’esercizio del potere di interpretazione di cui all’art. 234 del Trattato istitutivo della Comunità economica europea, non operi come giudice del caso concreto, bensì come interprete di disposizioni ritenute rilevanti ai fini del decidere da parte del giudice nazionale, in capo al quale permane in via esclusiva la funzione giurisdizionale (Cass. SS.UU. n. 30301 del 2017; in precedenza: Cass. SS.UU. nn. 16886/2013, 2403/14, 2242/15, 23460/15, 23461/15, 10501/16 e 14043/16).
Tali arresti risultano coerenti anche con quanto statuito dalla stessa Corte di Giustizia (da ultimo: CGUE, Grande Sezione, 15 ottobre 2024, C-144/23).
Qualora non esista alcun ricorso giurisdizionale di diritto interno avverso la decisione di una giurisdizione nazionale, quest’ultima è, in linea di principio, tenuta a rivolgersi alla Corte ai sensi dell’articolo 267, terzo comma, TFUE, quando è chiamata a pronunciarsi su una questione d’interpretazione del diritto dell’Unione o sulla validità di un atto di diritto derivato (v., in tal senso, sentenza del 18 luglio 2013, Consiglio Nazionale dei Geologi, C-136/12, punto 25; del 6 ottobre 2021, Consorzio RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, C-561/19, punto 32, nonché del 22 dicembre 2022, RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, C83/21, punto 79).
Tuttavia, una giurisdizione nazionale avverso le cui decisioni non possa proporsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno è esonerata dall’obbligo previsto dall’articolo 267 citato quando abbia constatato che la questione sollevata non è rilevante, o che la disposizione del diritto dell’Unione di cui trattasi è già stata oggetto d’interpretazione da parte della Corte di Giustizia, oppure che la corretta interpretazione del diritto dell’Unione si impone con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi (sentenze del 6 ottobre 1982, RAGIONE_SOCIALE e a., 283/81, punto 21, nonché del 6 ottobre 2021, RAGIONE_SOCIALE, C561/19, punto 33).
Spetta alla giurisdizione nazionale valutare sotto la propria responsabilità e in modo indipendente se ha l’obbligo di sottoporre alla Corte la questione del diritto dell’Unione sollevata dinanzi ad essa o se, al contrario, si trova in una delle situazioni che le consentono di essere esonerata da tale obbligo (cfr., sentenze del 15 settembre 2005, RAGIONE_SOCIALE, C495/03, punto 37, nonché del 6 ottobre 2021, RAGIONE_SOCIALE, C-561/19, punto 50 e giurisprudenza ivi citata) e, qualora si trovi in presenza di una di queste situazioni, non è quindi tenuta ad adire la Corte di Giustizia, anche se la questione relativa all’interpretazione del diritto dell’Unione fosse sollevata da una parte nel procedimento dinanzi ad essa (v. sentenza del 6 ottobre 2021, RAGIONE_SOCIALE, C-561/19, punto 57 e giurisprudenza ivi citata).
Tanto premesso, avuto riguardo alle circostanze di causa e alla concreta interpretazione delle norme di diritto interno applicabili alla controversia, questa Corte non ritiene sussistano le condizioni per attivare la procedura ex art. 267 TFUE.
Ciò perché, per quanto sopra detto in relazione all’esame del secondo motivo, la questione della violazione del principio del legittimo affidamento non è stata ritenuta, in punto di fatto, ipotizzabile per la mancanza dei presupposti che avrebbero legittimato l’operatività, in concreto, del suddetto principio.
La problematica interpretativa, sottesa al sollecitato rinvio pregiudiziale, si dimostrerebbe, pertanto, irrilevante ai fini della decisione del presente giudizio e, in quanto tale, non vi è un obbligo tassativo, da parte di questa Corte di legittimità di ultima istanza, di investire la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ai sensi dell’art. 267 TFUE.
Conclusivamente il ricorso deve essere respinto nel suo complesso, con spese liquidate come da dispositivo secondo il regime della soccombenza.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 8.000,00, oltre alle spese prenotate a debito. Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 4 dicembre 2024