SENTENZA CORTE DI APPELLO DI ANCONA N. 329 2025 – N. R.G. 00000341 2024 DEPOSITO MINUTA 31 10 2025 PUBBLICAZIONE 31 10 2025
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
la CORTE d’APPELLO di ANCONA sezione RAGIONE_SOCIALE
in persona dei magistrati:
AVV_NOTAIO
NOME COGNOME
presidente
AVV_NOTAIO NOME COGNOME
consigliere
AVV_NOTAIOAVV_NOTAIO NOME COGNOME
consigliere COGNOME.
Riuniti in camera di consiglio, all’esito dell’u dienza di discussione del 9 ottobre 2025, previa lettura del dispositivo, ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile in grado di appello iscritta al n. rNUMERO_DOCUMENTO. NUMERO_DOCUMENTO promossa da:
rappresentato e difeso dall’AVV_NOTAIO COGNOME e dall ‘ SILVIA elett. dom.to in INDIRIZZO
AVV_NOTAIO
APPELLANTE/I
contro
rappresentato e difeso dall’AVV_NOTAIO
NOME NOME dall ‘AVV_NOTAIO . COGNOME NOME elett.te dom.to in INDIRIZZO
APPELLATO/I
Conclusioni come in atti
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con atto depositato il 21 novembre 2024,
dipendente della
per 24 anni come operaia, ha proposto appello avverso la sentenza del Tribunale di Ancona -Sezione Lavoro n.110/2024 del 17 aprile 2024, con la quale veniva rigettato il ricorso formulato dalla stessa teso ad ottenere il risarcimento del danno non patrimoniale subito a causa delle condotte poste in essere dalla datrice di lavoro. In particolare, la stessa lamentava che, al suo rientro al lavoro (4
novembre 2019), dopo un periodo di malattia, veniva colpevolizzata dai fratelli e (soci titolari dell’azienda) per non essere andata al lavoro e, da qu el momento, la medesima subiva atti persecutori, minacce, attacchi verbali e intimidazioni da parte degli stessi signori e e della signora moglie di quest’ultimo .
L’appellante ha articolato i motivi dell’impugnazione secondo i seguenti profili: 1) violazione e falsa applicazione dei principi costituzionali e normativi in materia di diritti inviolabili della persona con riferimento alla negata sussistenza di condotte vessatorie subite dalla signora ed idonee a provocarle una danno alla salute; violazione degli artt.2, 4 e 32 cost., 2087 c.c. e 115 c.p.c.; 2) violazione o falsa applicazione di una norma di diritto, nonché omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione al mancato accoglimento delle eccezioni proposte dall’appellante in ordine all’idoneità dei mezzi di prova proposti ; violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e 2712 c.c.; 3) erroneità della sentenza nella parte in cui ha escluso la prova del nesso causale; violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c..
L’appellante chiede, dunque, di accogliere la domanda introduttiva e per l’effetto accertare e dichiarare che dal 2-4 novembre 2019 al 21 dicembre 2020 la signora è stata oggetto da parte della resistente di sistematici, reiterati e diversi atti persecutori e di demansionamento diretti alla emarginazione dal contesto aziendale e/o porla nella condizione di licenziarla o farla dimettere, in violazione degli artt.2043 e/o 2087 c.c., delle norme del C.C.N.L. di categoria di tutela del lavoratore come persona e sul luogo di lavoro, nonché di tutte le altre norme vigenti in materia; – accertare e dichiarare che lo svolgimento degli atti posti in essere dalla in danno alla signora di attività costituiscono il cosiddetto straining come da narrativa sopra esposta e, per l’effetto, accertare e dichiarare il diritto della signora ad essere risarcita per il consequenziale danno subito; – condannare, pertanto, la resistente al risarcimento dei danni non patrimoniali e patrimoniali subiti in conseguenza dell’illegittimo comportamento datoriale sia diretto che anche ex art. 2049 e /o 2056-2057 e 2059 c.c. e/o delle altre norme vigenti nessuna esclusa, che si quantificano in € 89.823,00, oltre le spese di relazioni mediche dei Dottori e o nella somma maggiore o minore che verrà ritenuta di giustizia, da determinarsi anche in via equitativa o da quantificarsi in seguito ad apposita c.t.u. medica; – condannare la a rifondere alla ricorrente spese e competenze professionali di entrambi i gradi di giudizio ‘.
Nel giudizio di appello si è costituita in giudizio la società resistendo al gravame e chiedendone l’integrale rigetto nonché proponendo appello incidentale volto ad ottenere la condanna della appellante al pagamento delle spese del primo grado.
Ritiene, infatti, la società appellata che il Giudicante avrebbe dovuto condannare la ricorrente alle spese di lite, tenuto conto non solo del principio della soccombenza, ma anche del dettato di cui all’art. 91 c.p.c., avendo la Società -con propria nota del 26 gennaio 2023- aderito alla proposta conciliativa, così facendo propria la proposta del Giudice del grado, non ottenendo il consenso della ricorrente.
La Corte, fissata udienza di trattazione scritta in seguito all’introduzione dell’art. 127 ter c.p.c., sulle conclusioni come in atti, si è riservata di decidere.
MOTIVI DELLA DECISIONE
L’appello deve ritenersi infondato per le ragioni di seguito esposte.
Deve, innanzitutto, escludersi che il primo giudice abbia omesso di valutare la vicenda in esame, non solo sotto il profilo del c.d. mobbing, ma anche del c.d. straining, avendo, invece, lo stesso espressamente ribadito la necessità di ‘verificare all’esito della valutazione di esse se possa ritenersi provata da parte del lavoratore la condotta di mobbing o straining denunciata nel ricorso introduttivo’ .
Si ricorda, infatti, che, secondo il più recente orientamento della Suprema Corte, quand’anche venga dedotta dal lavoratore una ipotesi di mobbing ‘ al fine di rintracciare una responsabilità ex art. 2087 cod. civ. in capo al datore di lavoro (..) non è necessaria, la presenza di un ‘unificante comportamento vessatorio’, ma è sufficiente l’adozione di comportamenti, anche colposi, che possano ledere la personalità morale del lavoratore, come l’adozione di condizioni di lavoro stressogene o non rispettose dei principi ergonomici’ .
Occorre, pertanto, valutare/interpretare le varie condotte poste in essere da parte datoriale ‘ che a prescindere dalla sussistenza di comportamenti intenzionalmente vessatori nei confronti del -ben possono essere state, anche in ragione della reiterazione delle stesse, esorbitanti od incongrue rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, e così poste in violazione dell’art. 2087 cod. civ. anche eventualmente sotto il profilo della contribuzione causale alla creazione di un ambiente logorante e determinativo di ansia, come tali causative di pregiudizi per la salute (si richiamano le già citate pronunce di legittimità secondo cui, ai sensi dell’art. 2087 cod. civ., ‘norma di chiusura’ del sistema antinfortunistico e suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro, il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l’adozione di condizioni lavorative ‘stressogene’, e a tal fine il giudice del merito, pur se accerti l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di ‘mobbing’, è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti – per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze
del caso concreto possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell’esistenza di questo più tenue danno)’ (v. Cass. ordinanza n. 4664/2024) .
Ebbene, come già ritenuto dal primo giudice, gli elementi probatori offerti in valutazione non permettono di ritenere provata la violazione da parte del datore di lavoro dell’obbligo di tutela di cui all’art. 2087 c.c. non essendo emersa l’adozione nei confronti della lavoratrice di condotte mortificanti, umilianti ovvero, semplicemente, l’esistenza di un ambiente lavorativo ostile e ‘stressogeno’.
La debolezza di fondo della tesi attorea risulta, infatti, già di per sé evidente ove si osservi che, nel periodo di denunciata sottoposizione a condotte incongrue (dal 2-4 novembre 2019 al 21 dicembre 2020), la lavoratrice ha, di fatto, lavorato per soli 21 giorni.
In particolare, come specificato da parte datoriale, senza avversa smentita, una volta rientrata in servizio il 4 novembre 2019, la medesima ha lavorato, in tutto, una settimana a novembre (precisamente i giorni 4, 5 e 6 novembre 2019, allontanandosi dal lavoro il giorno 7 per una presunta malattia professionale disconosciuta dall’ , e qualificata dall’ quale malattia comune), sei giorni a dicembre 2019 e tre settimane a gennaio 2020 (pari a 12 giornate lavorative), andando nuovamente in malattia sino al di lei licenziamento del 13 gennaio 2021.
In questo limitato periodo, esclusa la sussistenza di una ipotesi di demansionamento, punto sul quale l’appello tace (come si legge nella sentenza di primo grado, la ricorrente, al rientro dalla malattia si vedeva mutare le mansioni per essere le mansioni di verniciatura state legittimamente esternalizzate), molte delle condotte datoriali lamentate in ricorso non hanno ricevuto conferma probatoria.
Innanzitutto, non è risultato provato che la datrice di lavoro avesse tolto le chiavi del bagno o impedito l’uso dell’ armadietto alla ricorrente, oggi appellante, avendo i testimoni ricordato che esistevano dei bagni divisi tra uomini e donne e che vi erano sempre state le relative chiavi (v. testi , . Solo la teste (medico del lavoro) ha ricordato che, in effetti, in una occasione, non si era trovata la chiave del bagno che, però, era stata consegnata, davanti a lei, alla nel giro di un quarto d’ora. In questo senso, anche il teste ha ricordato che ‘ per un periodo un bagno delle donne è stato chiuso e non si trovava la chiave ma non so perché ‘ . Dunque, quand’anche per un periodo il bagno fosse rimasto privo della chiave, non vi è prova che ciò fosse stato deliberatamente fatto per nuocere alla ricorrente (e, d’altronde, la ricorrente non lamenta il fatto che le fosse impedito di andare in bagno quanto un problema di privacy che non risulta sia mai stata violata in concreto).
Ugualmente, in merito all’armadietto nessun testimone ha riferito che alla ricorrente ne fosse stato impedito l’uso e, comunque, anche altri dipendenti hanno riferito di non avere mai avuto l’uso di un armadietto personale.
Quanto ai pressanti controlli fuori e dentro il luogo di lavoro, è emerso che, sicuramente, la condotta della lavoratrice sia stata attenzionata da parte datoriale il sabato mattina del 2 novembre 2019, allorquando la medesima (che sarebbe tornata al lavoro il lunedì successivo) veniva trovata all’esterno dell’azienda. Come riferito dalla stessa figlia dell’appellante, il datore di lavoro (non è dato sapere se perché fosse stato riferito che la stessa stesse fotografando l’esterno) era uscito per chiedere il motivo della sua presenza ed aveva fatto anche indagini sull’effettivo appuntamento da questa dichiarata con un amico abitante nelle vicinanze, perché pensava che la lavoratrice fosse lì di sabato mattina per acquisire prove in merito allo svolgimento di lavoro straordinario non pagato da parte dei colleghi. In questo contesto, si pone la telefonata fatta dalla moglie del legale rappresentante della società che inveiva pesantemente nei confronti della con epiteti offensivi, sempre rimproverandola di presunte condotte lesive nei confronti dei datori di lavoro (riferendosi probabilmente a denunce della stessa ai vari ispettorati). Tale ultimo episodio, pur se di rilevante gravità per le offese arrecate (e provate dall’audio prodotto in atti), non appare direttamente riconducibile a parte datoriale, essendo evidentemente una incomposta reazione impulsiva da parte della moglie del titolare (e collega della ricorrente) che ne dovrà rispondere a titolo personale.
Allo stesso modo, non paiono sintomatiche di pressanti controlli le altre registrazioni audio prodotte dalla lavoratrice che documentano singoli, isolati scambi di battute tra datore di lavoro e lavoratrice che, per le pacate modalità di espressione, non paiono esorbitare dalla ordinaria dialettica sul posto di lavoro (in un caso, veniva chiesto il numero di pezzi lavorati ed il confronto con quelli di altra giornata per evidenziare che vi era stata negligenza, in un altro la lavoratrice chiedeva la rotazione delle mansioni al che il datore rispondeva che non aveva altro da farle fare, se non mansioni che già la stessa aveva rifiutato di fare per problemi di salute).
In proposito, del tutto corretta è l’interpretazione e valutazione compiuta dal primo giudice in sentenza.
Ugualmente, deve ritenersi in relazione alla battuta rivolta dal datore di lavoro allorquando la ricorrente si presentava al lavoro, al rientro dalla malattia, in anticipo sul turno lavorativo. Il medesimo le chiedeva di attendere aggiungendo che la stessa non era ‘molto’ gradita (il che è diverso, comunque, dall’affermare che non fosse gradita tout court) . Si tratta di battuta, di per sé poco piacevole, che lascia desumere l’esistenza di pregressi dissapori tra le parti o, in generale, nell’ambiente di lavoro ma che, in assenza di traduzione in atti di concreta ostilità, rimane di valore soltanto astratto.
Lamenta, poi, l’appellante che il primo giudice non avrebbe valorizzato anche l’imposizione di giornate di ferie. Sul punto, l’appello è piuttosto confuso, comparendo, alternativamente, le ferie di ottobre 2019 o ottobre 2020. Agli atti, comunque, in relazione alla tematica delle ferie viene prodotta
una unica mail (doc. 8 ricorrente, mail del 25/10/2019) che si riferisce al collocamento in ferie dal 14 al 25 ottobre 2019, ossia immediatamente prima del suo rientro al lavoro, dopo la malattia. Ebbene, oltre ad osservarsi che tale comportamento sarebbe collocabile temporalmente al di fuori del periodo in cui si ritengono esser avvenute le condotte aziendali illecite, in ogni caso, era la stessa nel messaggio di risposta alla messa in ferie, ad esprimere il proprio gradimento e condivisione: ‘Ok era quello che volevo sentire dire grazie saluti ‘ .
Va, comunque, rimarcato come ai sensi dell’ art. 2109 comma 2 c.c. il diritto alle ferie va esercitato ‘nel tempo che l’imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell’impresa e degli interessi del prestatore di lavoro ‘, sicché l’attribuzione di giorni di assenza per ferie da parte del datore di lavoro non può dirsi condotta illecita (v. anche Cass. Sez. L – , Ordinanza n. 24977 del 19/08/2022).
Lamenta, inoltre, l’appellante che il primo giudice non avrebbe correttamente valutato la portata vessatoria e punitiva dell’avere il datore di lavoro privato la lavoratrice dei pagamenti ‘fuori busta’ prima corrisposti.
In proposito, va, innanzitutto, precisato come la dedotta prassi di tali pagamenti in nero sia evidentemente un comportamento illecito, sicché il lavoratore non può dolersi della cessazione di una simile condotta. Laddove, naturalmente, tali pagamenti fossero stati a compensazione di prestazioni eseguite in connessione con il rapporto di lavoro (eventuali straordinari o mansioni superiori), spetterebbe al lavoratore la corresponsione del compenso in busta paga che, laddove manchi, dovrebbe essere rivendicato. Nel caso in esame, invece, la lavoratrice si è solo limitata a dolersi del mancato pagamento dei fuori busta senza, da un lato, allegare con precisione la relativa causa, dall’altro, senza lamentare l’esistenza di prestazioni rimaste non retribuite, ovvero l’indebita sottrazione di mansioni che avrebbero portato a maggiori soddisfazioni economiche.
Oltre alle argomentazioni spese dal primo giudice, dunque, anche sotto tale aspetto non si rilevano trattamenti discriminatori o ingiustamente punitivi nei confronti della lavoratrice.
Quanto alla lamentata indebita sottoposizione a cassa integrazione a 0 ore durante il periodo pandemico, il primo giudice ha affermato come dall’esame del d oc. 15 del fascicolo di parte resistente si potesse desumere che la stessa non fosse stata l’unica dipendente ad essere stata richiamata con ritardo rispetto agli altri dopo la cassa integrazione per il periodo di emergenza pandemica, risultando, al contrario, nel medesimo periodo in cassa integrazione anche le dipendenti e Ha, poi, aggiunto che anche quando la lavoratrice era stata richiamata al lavoro (a dicembre 2020 per lavorare tre giorni alla settimana), la stessa non si era presentata a causa delle sue condizioni di salute, che presumibilmente le avrebbero impedito di rientrare anche nei mesi precedenti, ‘ sicché la collocazione
in ferie e la cassa integrazione avevano da un lato permesso alla lavoratrice di avere un’entrata economica, dall’altro avevano evitato ulteriori assenze per malattia, visto il rischio di superamento del periodo di comporto come effettivamente avvenuto nel dicembre 2020 portando al licenziamento dell’interessata ‘. Tale motivazione non è stata sottoposta a valida censura dall’appellante che si è limitato a riproporre le stesse argomentazioni svolte in primo grado, secondo cui il datore di lavoro aveva l’intento di mettere in difficoltà economica la ricorrente , intenzionalità che non risulta essere stata dimostrata.
In conclusione, deve ritenersi che non vi siano stati elementi probatori non correttamente esaminati o valutati da parte del Tribunale, dovendosi anche in questo grado confermare come le prove orali svolte, anche laddove valutate unitamente alle registrazioni audio e video prodotte in atti, non consentano di provare l’esistenza di un ambiente di lavoro ostile alla lavoratrice ovvero l’adozione nei suoi confronti di comportamenti esorbitanti rispetto ad una normale gestione dei rapporti. D’altronde, anche lo scambio di battute pungenti o canzonatorie attestato dalle registrazioni va inquadrato nel particolare rapporto confidenziale instaurato tra le parti determinatosi, come comprensibile, in ragione delle modeste dimensioni aziendali e della lunga durata del rapporto di lavoro.
Correttamente, dunque, non è stata data ammissione alla consulenza medico legale non potendo la CTU essere utilizzata per esonerare le parti dal proprio onere di allegare e provare i fatti a fondamento delle loro domande o eccezioni, ai sensi dell’articolo 2697 del codice civile e non potendosi condurre indagini esplorative o acquisire autonomamente la prova dei fatti che le parti non siano riuscite a provare con gli ordinari mezzi istruttori.
Deve, di conseguenza, confermarsi il rigetto della domanda come disposto dalla sentenza gravata.
Venendo, ora, all ‘a ppello incidentale, parte datoriale lamenta la violazione del disposto di cui all ‘art. 91 c.p.c., dovendosi con siderare anche il mancato accoglimento della proposta di conciliazione da parte della lavoratrice, accettata, invece, da parte datoriale.
L’art. 91 c.p.c. prevede , infatti, che ‘ Se accoglie la domanda in misura non superiore all’eventuale proposta conciliativa, condanna la parte che ha rifiutato senza giustificato motivo la proposta al pagamento delle spese del processo maturate dopo la formulazione della proposta’.
Ebbene, l ‘appello incidentale va accolto, non sussistendo nel caso in esame quelle gravi ed eccezionali ragioni che, pur in una situazione di soccombenza totale, possono giustificare la compensazione integrale delle spese di lite.
Il mero richiamo in sentenza alla complessità della vertenza e alla qualità delle parti non è idoneo, per la sua genericità, a sorreggere la pronuncia in esame che, peraltro, si pone anche in contrasto con il disposto di cui al sopra richiamato art. 91 c.p.c..
Di conseguenza, in considerazione della totale soccombenza della originaria ricorrente oggi appellante, la stessa va condannata alla refusione delle spese di lite per entrambi i gradi del giudizio in favore della controparte, come da liquidazione in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte così provvede: 1) Rigetta l’appello; 2) accoglie l’appello incidentale ed, in parziale riforma della sentenza gravata, che per il resto conferma, condanna a rifondere alla le spese del primo grado che liquida in euro 7.000,00, oltre rimborso forfetario, IVA e CPA come per legge; 3) condanna a rifondere alla le spese del presente grado che liquida in euro 5.000,00, oltre rimborso forfetario, IVA e CPA come per legge; 3) dichiara che a carico dell’appellante sussistono i presupposti per il versamento dell’i ntegrazione del contributo unificato (art. 13, comma 1-quater del D.P.R. n. 115/2002), fatti salvi eventuali motivi di esenzione.
Ancona, 9 ottobre 2025 Il Consigliere est. Il Presidente Dott.ssa NOME COGNOME AVV_NOTAIO NOME COGNOME