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Condotte vessatorie: prova e oneri del lavoratore

Una lavoratrice ha richiesto un risarcimento per presunte condotte vessatorie (mobbing e straining) subite sul luogo di lavoro. La Corte d’Appello ha respinto la domanda, confermando la decisione di primo grado, per insufficienza di prove. Nonostante alcuni episodi sgradevoli, il giudice ha ritenuto non dimostrata l’esistenza di un ambiente lavorativo sistematicamente ostile, sottolineando anche il breve periodo di lavoro effettivo della dipendente durante i fatti contestati. È stato invece accolto l’appello incidentale del datore di lavoro, condannando la lavoratrice al pagamento delle spese legali di entrambi i gradi di giudizio.

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Pubblicato il 4 novembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Condotte Vessatorie sul Lavoro: Quando la Prova Non Basta

Affrontare un ambiente di lavoro ostile può avere conseguenze devastanti per un dipendente. Tuttavia, per ottenere un risarcimento, non è sufficiente lamentare episodi sgradevoli. Una recente sentenza della Corte d’Appello di Ancona chiarisce i confini probatori delle condotte vessatorie, sottolineando come l’onere della prova gravi interamente sul lavoratore. Il caso analizzato riguarda una dipendente che, dopo 24 anni di servizio, ha citato in giudizio l’azienda per mobbing e straining, chiedendo un cospicuo risarcimento per i danni non patrimoniali subiti. La sua richiesta è stata però respinta sia in primo grado che in appello.

I Fatti del Contenzioso

La lavoratrice sosteneva di essere stata vittima di atti persecutori, minacce e intimidazioni da parte dei titolari dell’azienda al suo rientro da un periodo di malattia. Le accuse specifiche includevano:
* Negazione dell’accesso al bagno e all’armadietto personale.
* Pressanti controlli e un’offensiva telefonata da parte della moglie di uno dei titolari.
* Commenti sgradevoli e un clima di generale ostilità.
* Interruzione di pagamenti ‘fuori busta’ e imposizione di ferie forzate.
* Ingiustificata messa in cassa integrazione durante il periodo pandemico.

L’azienda si è difesa negando ogni addebito e ha proposto un appello incidentale per ottenere la condanna della lavoratrice al pagamento delle spese legali del primo grado, che erano state compensate dal Tribunale.

La Prova delle Condotte Vessatorie secondo la Corte

La Corte d’Appello ha rigettato l’appello principale della lavoratrice, confermando la sentenza di primo grado. I giudici hanno ritenuto che le prove presentate non fossero sufficienti a dimostrare l’esistenza di condotte vessatorie sistematiche e finalizzate a danneggiare la dipendente. Sebbene la giurisprudenza riconosca che per la responsabilità del datore di lavoro (ex art. 2087 c.c.) non sia necessario un intento persecutorio (mobbing), ma basti la creazione di un ambiente stressogeno (straining), nel caso di specie gli elementi erano troppo deboli.

Analisi delle Singole Accuse

La Corte ha smontato punto per punto le accuse della ricorrente:
* Bagno e armadietto: I testimoni hanno smentito che le chiavi del bagno fossero state tolte; al massimo si è verificato un ritardo nel trovarle. L’uso dell’armadietto personale non era una prassi comune a tutti i dipendenti.
* Controlli e telefonate: L’episodio del controllo fuori dall’azienda è stato giudicato isolato, mentre la telefonata offensiva, pur grave, è stata ricondotta a una reazione impulsiva e personale della moglie del titolare, non direttamente attribuibile all’azienda.
* Pagamenti e ferie: La cessazione dei pagamenti ‘in nero’ non può essere considerata una condotta illecita, essendo la pratica stessa illegale. Le ferie, inoltre, erano state accolte con favore dalla lavoratrice stessa in una comunicazione via email.
* Cassa integrazione: Non è emerso un trattamento discriminatorio, poiché anche altre colleghe erano state poste in cassa integrazione. Anzi, la misura ha permesso alla lavoratrice di avere un’entrata economica e di non superare il periodo di comporto per malattia.

Infine, la Corte ha accolto l’appello incidentale dell’azienda, condannando la lavoratrice al pagamento delle spese legali di entrambi i gradi di giudizio, in applicazione del principio di totale soccombenza.

Le Motivazioni della Sentenza

Il fulcro della decisione risiede nella debolezza probatoria della tesi della lavoratrice. I giudici hanno evidenziato come, nel periodo in cui si sarebbero verificate le vessazioni, la dipendente avesse lavorato per soli 21 giorni. Questo lasso di tempo estremamente limitato ha reso difficile dimostrare la sistematicità e la gravità delle condotte lamentate. La Corte ha ribadito un principio fondamentale: l’onere di provare i fatti costitutivi del proprio diritto spetta a chi agisce in giudizio. Gli episodi riportati, sebbene alcuni sgradevoli, sono stati considerati isolati o parte della normale dialettica lavorativa in un’azienda di piccole dimensioni, e non elementi di una strategia persecutoria. Inoltre, è stato correttamente negato il ricorso a una Consulenza Tecnica d’Ufficio (CTU), poiché questa non può essere utilizzata come strumento per ricercare prove che la parte non è stata in grado di fornire.

Conclusioni

Questa sentenza offre un importante monito per i lavoratori che si ritengono vittime di mobbing o straining. Per ottenere tutela legale, non è sufficiente sentirsi vessati, ma è indispensabile raccogliere prove concrete, oggettive e concordanti che dimostrino una condotta datoriale illecita e un nesso causale con il danno subito. Fatti isolati, impressioni soggettive o dinamiche relazionali spiacevoli, se non supportati da un solido impianto probatorio, non sono sufficienti a fondare una richiesta di risarcimento. La decisione evidenzia l’importanza di documentare ogni singolo evento, preferibilmente con prove scritte o testimonianze attendibili, per poter sostenere efficacemente le proprie ragioni in un’aula di tribunale.

È sufficiente dimostrare episodi sgradevoli per ottenere un risarcimento per condotte vessatorie?
No, la sentenza chiarisce che singoli episodi sgradevoli o scambi di battute pungenti, se non inseriti in un quadro di concreta ostilità sistematica, non sono sufficienti a provare l’esistenza di un ambiente di lavoro stressogeno o vessatorio.

La cessazione di pagamenti “in nero” può essere considerata una condotta punitiva da parte del datore di lavoro?
No, la Corte ha stabilito che i pagamenti “in nero” sono una pratica illecita. Pertanto, un lavoratore non può lamentarsi della loro interruzione come se fosse un’azione punitiva, ma dovrebbe piuttosto rivendicare la corretta retribuzione in busta paga per le prestazioni eseguite.

In un caso di presunto straining, il giudice può disporre una Consulenza Tecnica d’Ufficio (CTU) per accertare i fatti?
No, la CTU medico-legale non può essere utilizzata per sopperire alla mancanza di prove da parte del lavoratore. Il suo scopo è valutare un danno già provato nei suoi presupposti fattuali, non quello di ricercare la prova dei fatti che la parte non è riuscita a dimostrare.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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