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Commento inappropriato non è molestia: reintegra

Un lavoratore, licenziato per un commento inappropriato verso una collega, ottiene la reintegrazione. La Corte d’Appello aveva derubricato il fatto da molestia a commento inappropriato, decisione confermata dalla Cassazione. L’ordinanza sottolinea che un codice etico aziendale non è una fonte normativa e che la valutazione dei fatti non può essere riesaminata in sede di legittimità. Il ricorso dell’azienda è stato dichiarato inammissibile, confermando la tutela reintegratoria per il dipendente.

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Pubblicato il 4 settembre 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Commento Inappropriato al Lavoro: Quando Non Giustifica il Licenziamento

Un commento inappropriato sul posto di lavoro, rivolto a una collega, non sempre integra la fattispecie di molestia sessuale e, di conseguenza, potrebbe non costituire giusta causa di licenziamento. Questa è la conclusione a cui è giunta la Corte di Cassazione con una recente ordinanza, confermando la decisione della Corte d’Appello che aveva disposto la reintegrazione di un lavoratore. La vicenda offre spunti cruciali sui limiti del potere disciplinare del datore di lavoro e sulla distinzione tra condotte inopportune e illeciti più gravi.

I Fatti: Dal Licenziamento alla Decisione della Corte d’Appello

Il caso trae origine dal licenziamento per giusta causa intimato da un’importante società a un suo dipendente. Il motivo del recesso era una frase che il lavoratore aveva rivolto a una collega di sesso femminile. L’azienda aveva qualificato tale condotta come molestia sessuale, ritenendo che avesse irrimediabilmente leso il vincolo fiduciario.

Il Tribunale di primo grado aveva dichiarato risolto il rapporto di lavoro, condannando però il datore al pagamento di un’indennità. La Corte d’Appello, in riforma della prima sentenza, ha ribaltato la prospettiva: pur riconoscendo la natura inappropriata della frase, ha escluso che costituisse una molestia sessuale. Di conseguenza, ha dichiarato illegittimo il licenziamento e ordinato la reintegrazione del lavoratore nel suo posto, con un risarcimento del danno pari a 12 mensilità di retribuzione.

Il Commento Inappropriato e il Giudizio della Cassazione

La società datrice di lavoro ha impugnato la decisione d’appello dinanzi alla Corte di Cassazione, basando il proprio ricorso su tre motivi principali. Sostanzialmente, l’azienda lamentava che i giudici di merito avessero errato nel non considerare la condotta del dipendente come molestia sessuale, anche alla luce delle previsioni del codice etico aziendale, violando così l’elemento fiduciario che è alla base del rapporto di lavoro.

La Suprema Corte ha respinto il ricorso, dichiarandolo inammissibile. La decisione si fonda su due pilastri argomentativi di grande importanza.

Le Motivazioni

In primo luogo, la Cassazione ha chiarito che il codice etico aziendale non è una fonte normativa la cui violazione può essere denunciata in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c. Si tratta di un atto di natura privatistica che, sebbene rilevante nel rapporto di lavoro, non assurge al rango di legge. Pertanto, il datore di lavoro non poteva fondare il proprio ricorso sulla presunta errata interpretazione del codice etico da parte della Corte d’Appello.

In secondo luogo, e in modo ancora più decisivo, i Giudici hanno rilevato che il ricorso, al di là dei richiami normativi formali, mirava in realtà a ottenere una nuova e diversa valutazione dei fatti. Un’operazione, questa, preclusa nel giudizio di legittimità, dove la Corte di Cassazione non può riesaminare il merito della vicenda, ma solo verificare la corretta applicazione delle norme di diritto.

La Corte d’Appello aveva correttamente esaminato il contesto, le dichiarazioni della presunta persona offesa e le altre prove, concludendo, con una valutazione di merito insindacabile in Cassazione, che il fatto contestato (la molestia) era insussistente. Di conseguenza, era corretta l’applicazione della cosiddetta “tutela reintegratoria attenuata”, prevista dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori per i casi in cui il fatto addotto a fondamento del licenziamento risulti non provato.

Le Conclusioni

Questa ordinanza ribadisce un principio fondamentale: non ogni comportamento sgradevole o inopportuno sul luogo di lavoro può essere automaticamente qualificato come giusta causa di licenziamento. È necessaria una valutazione rigorosa della gravità della condotta, distinguendo ciò che è un commento inappropriato da ciò che costituisce una vera e propria molestia. Per le aziende, la sentenza rappresenta un monito a non fare affidamento esclusivo su codici etici interni per giustificare le massime sanzioni disciplinari, ma a basare le proprie decisioni su una solida ricostruzione dei fatti. Per i lavoratori, è una conferma che il licenziamento deve essere sempre proporzionato alla mancanza commessa e che, in caso di insussistenza del fatto contestato, la reintegrazione nel posto di lavoro rimane una tutela concreta.

Un commento inappropriato rivolto a una collega giustifica sempre il licenziamento per giusta causa?
No, secondo l’ordinanza, un commento, sebbene inappropriato, non costituisce necessariamente una molestia sessuale tale da integrare la giusta causa di licenziamento. La valutazione sulla gravità del fatto è rimessa al giudice di merito, che può disporre tutele conservative come la reintegrazione.

Il codice etico aziendale ha lo stesso valore di una legge in un processo?
No. La Corte di Cassazione ha specificato che un codice etico aziendale non è una fonte normativa e la sua presunta violazione non può essere usata come motivo di ricorso per cassazione per violazione di legge. È un atto interno all’azienda.

Cosa accade se il fatto contestato alla base del licenziamento viene giudicato insussistente?
Qualora venga accertata in giudizio l’insussistenza del fatto contestato (in questo caso, la molestia sessuale), al lavoratore si applica la tutela reintegratoria prevista dall’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, che comporta il diritto a essere riammesso in servizio e a percepire un’indennità risarcitoria.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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