Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 20606 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 20606 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 24/07/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 15339/2023 R.G. proposto da:
RAGIONE_SOCIALE, rappresentata e difesa dall’AVV_NOTAIO, domicilio PEC EMAIL
–
ricorrente- contro
COGNOME NOME, COGNOME NOME, COGNOME NOME rappresentato e difeso da ll’avvocato NOME COGNOME, domicilio PEC EMAIL
-controricorrente-
avverso SENTENZA di CORTE D’APPELLO NAPOLI n. 445/2023 depositata il 9/02/2023, RG 321 del 2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 05/07/2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. Con l ‘ impugnata sentenza, la Corte di appello di Napoli ha accolto l’appello proposto dai lavoratori in epigrafe nei confronti dell’RAGIONE_SOCIALE avverso la decisione del Tribunale di S. Maria C.V. che rigettava la domanda proposta dagli stessi di accertamento del diritto degli stessi, infermieri professionali, ad usufruire del servizio mensa, nella modalità alternativa del ticket mensa, ogniqualvolta avessero prestato attività lavorativa dalle ore 20.00 alle ore 8.00, e in riforma della decisione di primo grado ha condanna to l’ RAGIONE_SOCIALE a pagare ai lavoratori le somme rispettivamente indicate, oltre gli interessi legali ex art. 16, c.6, della legge n. 412 del 1991.
Per la cassazione di tale decisione propone ricorso l’RAGIONE_SOCIALE affidato a due motivi.
Resistono i lavoratori con controricorso, illustrato da memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di ricorso è dedotto il vizio di erronea interpretazione della norma contrattuale e degli accordi sindacali -contrasto con la previsione del CCNL del 2001 art. 29, nonché con il d.lgs. 66/2003, art. 8 -in relazione all’art. 360 , c.p.c., n. 3, 4 e 5. Nella sentenza impugnata, la Corte di Appello di Napoli, in violazione e falsa applicazione dell’articolo 29, comma 2, CCNL Comparto sanità del 7 aprile 1999, modificato e integrato dal CCNL in data 20.9.2001 nonché del Decreto Legislativo n. 66 del 2003, articolo 8, ha
erroneamente identificato il diritto alla pausa con il diritto alla mensa le cui modalità di fruizione sono, invece, oggetto di concertazione con le organizzazioni sindacali ed il relativo accordo risale al 16/12/2008 e nel quale espressamente si dà atto che il riconoscimento a far data dal 1° gennaio 2009 avveniva a modifica dei precedenti accordi.
Né sarebbe condivisibile il richiamo effettuato dalla Corte d’Appello alla sentenza di legittimità n. 15614 del 2015.
1.1. Il motivo non è fondato. Trovano applicazione i principi già enunciati da questa Corte che le argomentazioni prospettate nel ricorso non inducono a rivedere.
La questione controversa riguarda l’individuazione della «particolare articolazione dell’orario» ai fini dell’attribuzione del diritto alla mensa ai dipendenti presenti in servizio, prevista nell’art. 29, comma 2 ( ‘Hanno diritto alla mensa tutti i dipendenti, ivi compresi quelli che prestano la propria attività in posizione di comando, nei giorni di effettiva presenza al lavoro, in relazione alla particolare articolazione dell’orario’ ) del CCNL integrativo Comparto Sanità 2001.
2.1. Tale questione ha già costituito oggetto di esame da parte di questa Corte con la sentenza n. 5547 del 2021, che ha affermato che il cui il diritto alla mensa ex articolo 29, comma 2, CCNI 2001, è legato al diritto alla pausa, a prescindere dal tempo (notturno) della prestazione lavorativa.
In particolare, con la citata sentenza si è evidenziato:
la fruizione del pasto -ed il connesso diritto alla mensa o al buono pasto che non ha natura retributiva ma costituisce una erogazione di carattere assistenziale -è prevista nell ‘ ambito di un intervallo non lavorato;
la «particolare articolazione dell’orario di lavoro» è quella collegata alla fruizione di un intervallo di lavoro;
ai sensi dell’art. 8 del d.lgs. 8 aprile 2003 nr. 66, il lavoratore deve beneficiare di un intervallo per pausa qualora l’orario di lavoro giornaliero ecceda il limite di sei ore, ai fini del recupero delle energie psicofisiche e della eventuale consumazione del pasto; le modalità e la durata della pausa sono stabilite dai contratti collettivi di lavoro e, in difetto di disciplina collettiva, la durata non è inferiore a dieci minuti e la collocazione deve tener conto delle esigenze tecniche del processo lavorativo;
il diritto alla mensa si lega ad una obbligatoria sosta lavorativa ma le parti sociali non hanno espresso alcuna volontà che l’attività lavorativa che si collega la pausa sia prestata «nelle fasce orarie normalmente destinate alla consumazione del pasto»;
una eventuale volontà delle parti sociali in tal senso avrebbe dovuto essere chiaramente espressa, con l’indicazione di fasce orarie di lavoro che danno diritto alla mensa, fasce che non sono, invece, previste.
La successiva giurisprudenza di legittima ha confermato i principi già affermati da Cass., n. 5547 del 2021.
In particolare, Cass. n. 15629 del 2021, n. 32113 del 2022, n. 9206 del 2023, 25622 del 2023 hanno richiamato Cass. n. 5547 del 2021 e il principio dalla stessa affermato dandovi continuità: «In tema di pubblico impiego privatizzato, l’attribuzione del buono pasto, in quanto agevolazione di carattere assistenziale che, nell’ambito dell’organizzazione dell’ambiente di lavoro, è diretta a conciliare le esigenze del servizio con le esigenze quotidiane del dipendente, al fine di garantirne il benessere fisico necessario per proseguire l’attività lavorativa quando l’orario giornaliero corrisponda a quello contrattualmente previsto per la fruizione del beneficio, è condizionata all’effettuazione della pausa pranzo che, a sua volta, presuppone, come regola generale, solo che il lavoratore,
osservando un orario di lavoro giornaliero di almeno sei ore, abbia diritto ad un intervallo non lavorato».
Da ultimo, Cass. n. 25622 del 2023 ha ripercorso la giurisprudenza di legittimità sopra richiamata, condividendola.
Va infine precisato che questa Corte, con la sentenza n. 15614 del 2015 ha rigettato il ricorso proposto avverso sentenza della Corte d’Appello di Napoli che , in analoga fattispecie, con valutazione di merito non adeguatamente censurata, ha considerato i verbali del 13 dicembre 1996 e del 16 dicembre 2008 come ‘ indici di comportamenti delle parti sociali deponenti nel senso di ritenere che un turno continuativo di dodici ore, svolto dalle 20.00 alle 8.00, integrasse quella “particolare articolazione dell’orario” di cui al citato art. 29 del CCNI ‘.
2.2. Pertanto, ferma la disponibilità delle risorse (in ragione del richiamo di cui al comma 1 dell’art. 29 cit.), che tuttavia nella specie non viene in rilievo, l’Azienda non poteva restringere il campo degli aventi diritto a buono mensa rispetto alle stesse previsioni di cui alla clausola contrattuale in esame (art. 29 CCNI ) ed alla ‘particolare articolazione dell’orario’ come interpretata da questa Corte nei termini sopra indicati.
2.3. Alla stregua dei condivisibili principi giurisprudenziali precedentemente richiamati e dandovi continuità il motivo di ricorso deve essere rigettato.
Con il secondo motivo di ricorso è prospettato il vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione al verbale di riunione tra RAGIONE_SOCIALE ed i rappresentanti delle OO.SS del 16/12/2008 -esecuzione dell’accordo con effetti ex nunc e non ex tunc – non previsto dalle parti effetto retroattivo del pagamento. in relazione all’art. 360 , c.p.c., n. 5.
Assume l’RAGIONE_SOCIALE che il diritto per il lavoratore a percepire il ticket mensa è sorto in concomitanza dell’accordo sindacale intercorso tra le parti il 16/12/2008 nel quale si è espressamente specificato che tale accordo avveniva a modifica dei precedenti accordi. Perciò la domanda relativa al pagamento per gli anni anteriori all’accordo sindacale sarebbe infondata e non dovuta in base alla normativa e agli accordi sindacali e al CCNL.
3.1. Il motivo è inammissibile.
È a pplicabile alla fattispecie l’art. 360 n. 5 , cod. proc. civ., nel testo modificato dalla legge 7 agosto 2012 n.134 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11.8.2012), di conversione del d.l. 22 giugno 2012 n. 83, che consente di denunciare in sede di legittimità unicamente l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudi zio che è stato oggetto di discussione fra le parti.
Hanno osservato le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U. n. 19881 del 2014 e Cass. S.U. n. 8053 del 2014) che la ratio del recente intervento normativo è ben espressa dai lavori parlamentari lì dove si afferma che la riformulazione dell’art. 360 n. 5, cod. proc. civ. ha la finalità di evitare l’abuso dei ricorsi per cassazione basati sul vizio di motivazione, non strettamente necessitati dai precetti costituzionali, e, quindi, di supportare la funzione nomofilattica propria della Corte di cassazione, quale giudice dello ius constitutionis e non dello ius litigatoris, se non nei limiti della violazione di legge.
Il vizio di motivazione, quindi, rileva solo allorquando l’anomalia si tramuta in violazione della legge costituzionale, ‘in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.
Tale anomalia si esaurisce nella ‘mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico’, nella ‘motivazione apparente’,
nel ‘contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili’ e nella ‘motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile’, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di ‘sufficienza’ della motivazione’, sicché quest’ultima non può essere ritenut a mancante o carente solo perché non si è dato conto di tutte le risultanze istruttorie e di tutti gli argomenti sviluppati dalla parte a sostegno della propria tesi.
Va quindi rilevato che l” omesso esame’ va riferito ad ‘un fatto decisivo per il giudizio’ ossia ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico – naturalistico, non assimilabile in alcun modo a ‘questioni’ o ‘argomentazioni’ che, pertanto, risultano irrilevanti, le censure che si distaccano da tale ambito, con conseguente inammissibilità delle stesse irritualmente formulate (si v., ex multis , Cass., n. 2268 del 2022).
Rimangono, pertanto, estranee al vizio previsto dall’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., le censure, che come quelle articolate dalla ricorrente, che nella sostanza sono volte a criticare l’interpretazione del complesso delle disposizioni contrattuali e il relativo ragionamento decisorio.
Il ricorso deve essere rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo, con distrazione a favore dell’AVV_NOTAIO dichiaratosi antistatario.
PQM
La Corte rigetta ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in euro 3000,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi, spese generali in misura del 15% e accessori di legge, con distrazione a favore dell’AVV_NOTAIO dichiaratosi antistatario.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da
parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1bis, dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, il 5 luglio 2024.