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Buoni pasto enti locali: è un diritto o una facoltà?

Un dipendente pubblico ha richiesto il pagamento di buoni pasto arretrati a un Comune. La Corte d’Appello ha respinto la domanda, sostenendo che l’erogazione non è un diritto soggettivo ma una facoltà dell’ente, condizionata dalle risorse finanziarie. La Corte di Cassazione, con ordinanza interlocutoria, ha ritenuto la questione di principio e ha rinviato il caso a una pubblica udienza per decidere se i buoni pasto enti locali siano un obbligo e su chi gravi l’onere di provare la disponibilità dei fondi.

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Pubblicato il 22 agosto 2025 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Buoni Pasto per Dipendenti Pubblici: Un Diritto Assoluto o una Scelta dell’Ente?

La questione del diritto ai buoni pasto enti locali per i dipendenti pubblici che effettuano orari di lavoro prolungati è da tempo al centro di un acceso dibattito legale. Un dipendente ha diritto a ricevere il buono pasto in automatico, oppure si tratta di una scelta discrezionale dell’amministrazione, legata alle disponibilità di bilancio? Un’ordinanza interlocutoria della Corte di Cassazione ha recentemente messo in pausa il giudizio su un caso emblematico, ritenendo la questione così importante da meritare una discussione in pubblica udienza per stabilire un principio di diritto valido per tutti.

I Fatti di Causa: La Richiesta del Dipendente Comunale

Un dipendente di un Comune si era rivolto al Tribunale per ottenere l’equivalente economico di quasi 400 buoni pasto che sosteneva di aver maturato in un arco temporale di cinque anni. In primo grado, il Tribunale gli aveva dato ragione. Tuttavia, la Corte d’Appello, in riforma della prima sentenza, ha completamente ribaltato la decisione, respingendo la domanda del lavoratore.

L’Interpretazione della Corte d’Appello: Nessun Diritto Automatico

Secondo la Corte d’Appello, la contrattazione collettiva nazionale (CCNL) del comparto Regioni e Autonomie Locali non riconosce un diritto soggettivo automatico ai buoni pasto. La norma, infatti, utilizza il verbo “possono”, indicando che gli enti hanno la facoltà e non l’obbligo di istituire un servizio mensa o, in alternativa, di erogare i buoni pasto. Questa facoltà, inoltre, è espressamente subordinata a due condizioni: la compatibilità con l’assetto organizzativo dell’ente e, soprattutto, la disponibilità delle necessarie risorse finanziarie. La Corte ha inoltre sottolineato come il dipendente non avesse fornito la prova che il Comune disponesse dei fondi necessari per istituire tale servizio.

La questione sui buoni pasto enti locali davanti alla Cassazione

Il lavoratore ha impugnato la sentenza d’appello dinanzi alla Corte di Cassazione, avanzando due argomenti principali. In primo luogo, ha sostenuto che il verbo “possono” nel contratto collettivo non dovrebbe essere interpretato come una totale discrezionalità dell’ente, ma solo come la scelta tra le due modalità previste (mensa o ticket). L’obbligo di fornire una delle due, secondo il ricorrente, sussisterebbe sempre. In secondo luogo, ha contestato il riparto dell’onere della prova, affermando che non spetta al dipendente dimostrare la capienza delle casse comunali, ma all’ente stesso provare l’eventuale impossibilità finanziaria, in base al principio di “vicinanza della prova”, secondo cui l’onere deve gravare sulla parte che ha più facile accesso ai documenti necessari.

Le Motivazioni dell’Ordinanza Interlocutoria

La Corte di Cassazione ha riconosciuto la delicatezza e l’importanza delle questioni sollevate. Non si tratta di un semplice caso individuale, ma di un problema interpretativo con potenziali ripercussioni su un vasto numero di lavoratori del settore pubblico. La Corte ha identificato due nodi cruciali da sciogliere:
1. L’interpretazione del CCNL: Si deve chiarire se la norma contrattuale imponga un’obbligazione a carico dell’ente, lasciando solo la scelta sulla modalità di adempimento, oppure se configuri una mera facoltà condizionata dalle risorse disponibili.
2. Il riparto dell’onere della prova: È fondamentale stabilire, in via generale, chi debba provare la disponibilità o l’indisponibilità delle risorse finanziarie quando un diritto previsto dalla contrattazione collettiva è subordinato a tale condizione.

Poiché la risoluzione di questi dubbi ha una “rilevanza nomofilattica”, ovvero è idonea a fungere da guida per la risoluzione di innumerevoli casi simili, la Corte ha deciso di non pronunciarsi in camera di consiglio ma di rinviare la causa a una pubblica udienza. Questa scelta garantisce un dibattito più ampio e approfondito, con la partecipazione delle parti e del Procuratore Generale, prima di emettere una sentenza che farà da precedente.

Conclusioni: Una Causa Rinviata per una Decisione di Principio

In conclusione, l’ordinanza non fornisce una risposta definitiva, ma prepara il terreno per una decisione di fondamentale importanza. Il verdetto finale della Corte di Cassazione non solo determinerà l’esito della specifica vertenza, ma stabilirà un principio guida per tutti i dipendenti degli enti locali. Si chiarirà se il buono pasto sia un beneficio garantito in presenza di determinate condizioni di orario o se rimanga una concessione legata alle decisioni e alle finanze dell’amministrazione. Allo stesso modo, la decisione sull’onere della prova avrà implicazioni pratiche significative per la gestione del contenzioso in materia di pubblico impiego.

Un dipendente di un ente locale ha sempre diritto ai buoni pasto se lavora oltre l’orario standard?
Secondo la sentenza della Corte d’Appello qui riesaminata, no. Il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) prevede che gli enti “possono” istituire il servizio, compatibilmente con le risorse disponibili, configurandolo come una facoltà e non un obbligo. La Corte di Cassazione, tuttavia, ha ritenuto la questione meritevole di un approfondimento in pubblica udienza e non ha ancora emesso una decisione definitiva.

Chi deve dimostrare la disponibilità delle risorse finanziarie per l’erogazione dei buoni pasto?
La Corte d’Appello ha posto l’onere della prova a carico del dipendente. Il lavoratore ha contestato questo principio davanti alla Cassazione, sostenendo che dovrebbe essere l’ente a dimostrare la mancanza di fondi. Anche questo punto è stato ritenuto cruciale dalla Suprema Corte, che lo deciderà nella futura udienza pubblica.

Perché la Corte di Cassazione ha emesso un’ordinanza interlocutoria invece di una sentenza definitiva?
Perché le questioni legali sollevate, relative all’interpretazione delle norme contrattuali e al riparto dell’onere della prova, sono state considerate di particolare importanza e di “rilevanza nomofilattica”. Ciò significa che la decisione finale avrà un impatto su molti casi simili. Pertanto, la Corte ha optato per un rinvio a pubblica udienza per consentire un esame più approfondito e una discussione più ampia prima di stabilire un principio di diritto.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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