Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 33743 Anno 2024
Civile Sent. Sez. L Num. 33743 Anno 2024
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 21/12/2024
SENTENZA
sul ricorso n. 27272/2020 proposto da:
Ministero della Difesa, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato e domiciliato in Roma, INDIRIZZO
-ricorrente-
contro
COGNOME COGNOME rappresentato e difeso da ll’Avv. NOME COGNOME ed elettivamente domiciliato in Roma, INDIRIZZO presso l’Avv. NOME COGNOME;
-controricorrente – avverso la SENTENZA della Corte d’appello di Potenza, n. 22/2020, pubblicata il 30 luglio 2020.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 3/12/2024 dal Consigliere NOME COGNOME
udite le conclusioni del P.M. in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’Avv. NOME COGNOME per la P.A. ricorrente, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso, e l’Avv. NOME COGNOME per il controricorrente, che ne ha domandato il rigetto.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Il Tribunale di Potenza, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 803/2018, ha accolto il ricorso proposto contro il Ministero della Difesa da NOME COGNOME già graduato dell’Esercito italiano sino al 22 aprile 2014, dichiarato inidoneo al servizio militare e transitato, di conseguenza, nei ruoli civili della Difesa come Assistente amministrativo Area 2, fascia F2, con il quale il dipendente aveva chiesto il riconoscimento del suo diritto a percepire la voce integrativa stipendiale denominata assegno di funzione, dovuta a decorrere dalla data di compimento di 17 anni di servizio (20 giug no 2011), ai sensi dell’art. 1, comma 9, d.l. n. 379 del 1987, ma non corrisposta in conseguenza del c.d. blocco dei meccanismi stipendiali previsto dall’art. 9 del d.l. n. 78 del 2010, in vigore dal 1° gennaio 2011 al 31 dicembre 2014.
Il giudice ha precisato che l’emolumento, pur spettante dal 17° anno di servizio, doveva essere corrisposto dal 1° gennaio 2015.
Il ricorrente ha esposto che:
era transitato il 22 aprile 2014 nei ruoli civili della Difesa;
con l’art. 1, comma 9, del d.l. n. 379 del 1987, conv. dalla legge n. 468 del 1987, era stato istituito il c.d. assegno funzionale, una voce integrativa stipendiale subordinata al compimento, da parte del personale, di 19 e 29 anni di servizio, soglie in seguito portate a 17, 27 e 32 anni;
aveva maturato il beneficio in questione il 20 giugno 2011, durante il periodo di operatività del c.d. blocco stipendiale;
l’art. 8, comma 11 bis, del d.l. n. 78 del 2010 aveva istituito un fondo destinato al finanziamento di misure perequative per il personale delle Forze Armate interessato dal citato blocco;
al momento della scadenza di tale blocco non gli era stato erogato detto assegno, nonostante le richieste avanzate.
Il Tribunale ha motivato la sua decisione con la circostanza che l’aumento stipendiale richiamato dal ricorrente poteva essere corrisposto dal momento della fine del c.d. blocco stipendiale, senza diritto agli arretrati.
Il Ministero della Difesa ha proposto appello che la Corte d’appello di Potenza, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 22/2020, ha rigettato.
Il Ministero della Difesa ha proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi.
NOME COGNOME si è difeso con controricorso e ha depositato memorie.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1) Con il primo motivo parte ricorrente lamenta la violazione de ll’art. 930 del d.lgs. n. 66 del 2010 e dell’art. 2, comma 5, del d.i. del 18 aprile 2002 perché la corte territoriale non avrebbe tenuto conto che il trattamento economico spettante a seguito del transito nei ruoli civili del Ministero della Difesa era determinato con riferimento a quanto percepito alla data del transito medesimo e che non vi era alcun ‘diritto quesito’ al trattamento economico di cui all’assegno funzionale.
Sostiene la P.A. che il dipendente non avrebbe potuto reclamare l’importo richiesto in quanto il miglioramento stipendiale al quale avrebbe fatto riferimento non si sarebbe in concreto verificato, atteso che, nel frattempo, sarebbe intervenuto il c.d. blocco degli stipendi del pubblico impiego.
L’assegno funzionale reclamat o non sarebbe mai entrato nella base retributiva e contributiva del controricorrente.
La P.A. rileva che, in effetti, in seguito al detto blocco e al fine di tenere conto della specificità del personale del Comparto sicurezzadifesa, l’art. 8, comma 11 bis, del d.l. n. 78 del 2010 avrebbe previsto l’istituzione di un fondo volto a compensare gli effetti economici della mancata progressione automatica degli
stipendi e delle carriere, mentre il d.l. n. 27 del 2011, conv. dalla legge n. 74 del 2011, avrebbe incrementato detto fondo per finanziare assegni una tantum per perequare indennità particolari.
Questi assegni, però, non avrebbero potuto concorrere a rideterminare il trattamento economico, che era rimasto fissato al 2010, ossia al momento in cui l’aggiornamento economico della retribuzione del lavoratore era stato congelato.
Il 31 dicembre 2014 erano cessati gli effetti del c.d. blocco stipendiale, con la conseguenza che essa P.A. avrebbe provveduto a rideterminare il trattamento economico del personale interessato a decorrere dal 1° gennaio 2015, senza diritto ad arretrati.
Questo intervento, però, non avrebbe potuto riguardare il personale che, alla data del 1° gennaio 2015, non era più militare.
Il controricorrente, in particolare, alla data del 1° gennaio 2015 sarebbe già transitato nei ruoli civili e, quindi, non avrebbe potuto beneficiare dell’adeguamento retributivo riservato al solo personale militare.
Preliminarmente si rileva che, nella specie, viene in considerazione il caso di un militare che, dichiarato inidoneo al servizio, è transitato, su domanda, nei ruoli civili del Ministero della Difesa a decorrere dal 22 aprile 2014, ottenendo la qualifica di funzionario Area 2, fascia retributiva F2.
Il passaggio è avvenuto ai sensi dell’art. 930 del d.lgs. n. 66 dl 2010 (nel testo vigente dal 9 ottobre 2010 al 6 luglio 2017), in base al quale ‘Il
‘Il personale trasferito è inquadrato in soprannumero, riassorbibile con la cessazione dal servizio per qualsiasi causa del personale stesso, nella qualifica corrispondente al grado rivestito al momento del trasferimento, conservando l’anzianità assoluta riferita al predetto grado, l’anzianità complessivamente maturata e la posizione economica acquisita’.
Assume rilievo anche il successivo comma 8, per il quale ‘Nel caso in cui il nuovo trattamento economico spettante a titolo di assegni fissi e continuativi risulti inferiore a quello in godimento allo stesso titolo all’atto del transito, l’eccedenza è attribuita sotto forma di assegno ad personam , pari alla differenza fra il trattamento economico goduto ed il nuovo, fino al riassorbimento con i successivi aumenti di trattamento economico a titolo di assegni fissi e continuativi’.
Il transito del controricorrente nei ruoli civili della P.A. è avvenuto, però, durante la vigenza del c.d. blocco stipendiale disposto dall’art. 9, comma 21, d.l. n. 78 del 2010, previsto fino alla data del 31 dicembre 2014.
Una volta scaduto siffatto blocco, l’interessato ha chiesto il pagamento del menzionato assegno di funzione, sostenendo che, avendo maturato, il 20 giugno 2011, i 17 anni di servizio, avrebbe acquisito il diritto, ai sensi dell’art. 1, commi 9 e 10, del d.l. n. 379 del 1987, conv. dalla legge n. 468 del 1987, alla relativa attribuzione.
La P.A. ha rigettato la richiesta sul presupposto che, essendo stato il dipendente congedato nel corso del blocco stipendiale, il suo trattamento economico era rimasto fermo a quello percepito al 31 dicembre 2010.
Pertanto, il controricorrente ha agito chiedendo il pagamento dell’ assegno de quo .
Oggetto del contendere è quindi, la questione se, il c.d. blocco degli stipendi sopra menzionato, continui a esplicare i suoi effetti economici anche dopo la sua cessazione con riferimento anche agli aumenti stipendiali che sarebbero dovuti maturare durante la sua vigenza.
La censura merita accoglimento.
L’art. 9, comma 21, del d.l. n. 78 del 2010 prescrive, dichiaratamente al fine di contenere le spese in materia di impiego pubblico, come risulta dalla stessa rubrica della disposizione, che:
«I meccanismi di adeguamento retributivo per il personale non contrattualizzato di cui all’articolo 3, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, così come previsti dall’articolo 24 della legge 23 dicembre 1998, n. 448, non si applicano per gli anni 2011, 2012 e 2013 ancorché a titolo di acconto, e
non danno comunque luogo a successivi recuperi. Per le categorie di personale di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e successive modificazioni, che fruiscono di un meccanismo di progressione automatica degli stipendi, gli anni 2011, 2012 e 2013 non sono utili ai fini della maturazione delle classi e degli scatti di stipendio previsti dai rispettivi ordinamenti. Per il personale di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 e successive modificazioni le progressioni di carriera comunque denominate eventualmente disposte negli anni 2011, 2012 e 2013 hanno effetto, per i predetti anni, ai fini esclusivamente giuridici. Per il personale contrattualizzato le progressioni di carriera comunque denominate ed i passaggi tra le aree eventualmente disposte negli anni 2011, 2012 e 2013 hanno effetto, per i predetti anni, ai fini esclusivamente giuridici».
Tutto il pubblico impiego è stato coinvolto da questa articolata regola di conformazione della retribuzione.
Infatti, è stato previsto che, per il pubblico impiego non contrattualizzato, la retribuzione fosse determinata senza tenere conto né dei meccanismi di adeguamento retributivo quello di cui all’art. 24 della legge n. 448 del 1998 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), o altri di progressione automatica degli stipendi – né delle «progressioni di carriera comunque denominate».
Simmetricamente, per il lavoro pubblico contrattualizzato è stato precisato che la retribuzione fosse determinata senza considerare né le «progressioni di carriera comunque denominate» (esattamente come per il pubblico impiego non contrattualizzato), né dei passaggi tra le aree, che sono parimenti assimilabili a progressioni di carriera.
Così articolata, è questa la regola complessiva per determinare, in chiave di contenimento della spesa, la retribuzione ‘spettante’ in tutto il pubblico impiego, contrattualizzato e no, nel triennio 20112013, regola prorogata all’anno 2014.
A ciò si sono aggiunte altre misure di contenimento delle spese per il pubblico impiego, quale il blocco della contrattazione collettiva con conseguente congelamento dei livelli retributivi. Lo stesso art. 9, al precedente comma 17,
ha previsto che «on si dà luogo, senza possibilità di recupero, alle procedure contrattuali e negoziali relative al triennio 2010-2012» per il pubblico impiego contrattualizzato, aggiungendo che, per il successivo triennio (2013-2015), la contrattazione sarebbe stata possibile per la sola parte normativa e «senza possibilità di recupero per la parte economica».
Il regime di sospensione della contrattazione collettiva è stato poi dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla sentenza della Corte costituzionale n. 178 del 2015, ma soltanto a partire dal giorno successivo alla sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica.
L’ampia e complessiva manovra diretta al contenimento delle spese per il pubblico impiego ha superato, quindi, il vaglio di costituzionalità, quanto al congelamento delle retribuzioni previsto dal comma 21 dell’art. 9 del d.l. n. 78 del 2010 (sentenze n. 96 del 2016, n. 154 del 2014, n. 310 e n. 304 del 2013; ordinanza n. 113 del 2014) e soltanto il regime di sospensione della contrattazione collettiva, di cui al comma 17 della medesima disposizione, è poi stato dichiarato costituzionalmente illegittimo, ma unicamente a partire dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza (n. 178 del 2015). Si è confermato così indirettamente il blocco per il periodo precedente.
Pertanto, non può negarsi che, in effetti, all’epoca in cui il controricorrente ha abbandonato la carriera militare per transitare nei ruoli civili, i miglioramenti del suo trattamento stipendiale erano stati legittimamente bloccati come minimo dal 1° gennaio 2011 e che, quindi, la sua retribuzione era con certezza pari a quella percepita alla data del 31 dicembre 2010. Ciò è continuato, senza soluzione di continuità, fino al suo transito, come funzionario civile, alle dipendenze del Ministero della Difesa, avvenuto dal 22 aprile 2014 e, dunque, durante la vigenza del blocco che, per quanto qui interessa, è durato fino al 31 dicembre 2014.
‘Il personale trasferito è inquadrato in soprannumero, riassorbibile con la cessazione dal servizio per qualsiasi causa del personale stesso, nella qualifica corrispondente
al grado rivestito al momento del trasferimento, conservando l’anzianità assoluta riferita al predetto grado, l’anzianità complessivamente maturata e la posizione economica acquisita’.
Il successivo comma 8, poi, prescrive che ‘Nel caso in cui il nuovo trattamento economico spettante a titolo di assegni fissi e continuativi risulti inferiore a quello in godimento allo stesso titolo all’atto del transito, l’eccedenza è attribuita sotto forma di assegno ad personam , pari alla differenza fra il trattamento economico goduto ed il nuovo, fino al riassorbimento con i successivi aumenti di trattamento economico a titolo di assegni fissi e continuativi’.
La disposizione è molto chiara nel dare rilievo al trattamento ‘in godimento allo stesso titolo all’atto del transito’ e, senza dubbio, questo era, al momento del passaggio nei ruoli civili del Ministero della Difesa, quello congelato ai sensi della normativa sopra indicata.
A favore di questa ricostruzione depongono anche considerazioni di carattere sistematico, ben espresse dalla giurisprudenza della Corte costituzionale.
Infatti, la Corte costituzionale, con sentenza n. 200 del 2018, ha rigettato le questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte dei conti, sez. giur. p er la Liguria, per violazione dell’art. 3 della Costituzione, dell’art. 9, comma 21, terzo periodo, del d.l. n. 78 del 2010 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), conv., con modif., dalla legge n. 122 del 2010 , e dell’art. 16, comma 1, lett. b), del d.l. n. 98 del 2011 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), conv., con modif., dalla legge n. 111 del 2011 , come integrato dall’art. 1, comma 1, lett. a), primo periodo, del d.P.R. n. 112 del 2013 (Regolamento in materia di proroga del blocco della contrattazione e degli automatismi stipendiali per i pubblici dipendenti, a norma dell’art . 16, commi 1, 2 e 3, del d.l. n. 98 del 2011, conv., con modif., dalla legge n. 111 del 2011), nella parte in cui «dette norme non hanno previsto, nei confronti dei soggetti che sarebbero cessati dal servizio nell’arco temporale della ‘cristallizzazione’, la valorizzazione in quiescenza, a decorrere dalla data di cessazione del blocco, degli emolumenti pensionabili derivanti dalle progressioni di carriera conseguite durante il blocco stesso».
La Corte costituzionale ha precisato che la disposizione censurata, dettata per contenere la spesa per il pubblico impiego (art. 9, comma 21, del d.l. n. 78 del 2010) era costruita come regola per conformare la retribuzione spettante e non già come prelievo straordinario su una retribuzione più elevata.
Ove si fosse trattato di un prelievo straordinario sulle retribuzioni dei pubblici dipendenti, sarebbe venuta in rilievo, infatti, la sua possibile natura tributaria che, però, la giurisprudenza costituzionale ha già esaminato, escludendo la valenza tributaria della norma in esame, con conseguente infondatezza anche, in particolare, delle questioni di costituzionalità sollevate sulla base di tale presupposto (sentenza n. 304 del 2013).
In particolare, la Corte costituzionale ha affermato, nelle sentenze n. 304 del 2013, n. 154 del 2014 e n. 96 del 2016 che «a norma censurata non ha natura tributaria in quanto non prevede una decurtazione o un prelievo a carico del dipendente pubblico». L’esclusione di tale natura è confermata dall ‘articolazione testuale dell’art. 9, comma 21, citato e dalla sua evidente ratio .
La Corte costituzionale ha chiarito che si tratta di una regola legale conformativa della retribuzione dei pubblici dipendenti nel quadriennio in questione che integra, temporaneamente e in via eccezionale, la disciplina, legale o contrattuale, del trattamento retributivo, per perseguire la finalità di contenerne il costo complessivo.
Muovendo da detto presupposto, la Corte costituzionale ha coerentemente dichiarato non fondate varie questioni di costituzionalità, sollevate con riferimento essenzialmente all’art. 36 Cost. (sentenza n. 304 del 2013) , affermando che il legislatore può temporaneamente congelare gli incrementi retributivi che, senza la regola limitativa posta dall’art. 9, comma 21, sarebbero altrimenti spettati ai pubblici dipendenti, sempre che la retribuzione di risulta assicuri comunque il rispetto del canone di proporzionalità e sufficienza di cui all’art. 36 Cost.
Con riferimento al l’ art. 9, comma 21, del d.l. n. 78 del 2010, la Corte costituzionale ha affermato, con la sentenza n. 96 del 2016, che «esigenze di politica economica giustificano interventi che, come quello in esame, comprimono solo temporaneamente gli effetti retributivi della progressione in
carriera», atteso che la limitazione degli incrementi stipendiali non è tale da compromettere l’adeguatezza complessiva della retribuzione, con la conseguenza che non vi è ragione di dubitare della legittimità di questa regola legale conformativa della retribuzione dei pubblici dipendenti.
Per il giudice delle leggi, quindi, il contenimento della retribuzione nel quadriennio de quo ha comportato che la retribuzione calcolata con il criterio limitativo in questione è stata anche la base di calcolo della contribuzione previdenziale ed è quella rilevante al fine della quantificazione del trattamento pensionistico, sia nel generalizzato sistema contributivo, sia in quello residuale ancora retributivo.
Il differenziale tra la retribuzione percepita (perché ‘spettante’ in ragione del criterio limitativo suddetto) e quella che, altrimenti, sarebbe stata percepita dal pubblico dipendente ove tale criterio non fosse stato applicabile, rappresenta una quota di retribuzione virtuale non rilevante ai fini pensionistici, perché non spettante né percepita. Infatti, manca una disposizione che deroghi a tale effetto naturale della limitazione legale della retribuzione spettante nel quadriennio in questione, a differenza di quanto è invece previsto – come eccezione alla regola – da altre disposizioni dello stesso censurato art. 9 del d.l. n. 78 del 2010, sia al comma 1 (secondo cui la riduzione percentuale delle retribuzioni superiori a una determinata soglia «non opera ai fini previdenziali»), sia dal comma 22, quanto alle soppressioni di acconti e conguagli per il personale magistratuale, che parimenti «non opera ai fini previdenziali» (e che, comunque, è stata ritenuta costituzionalmente illegittima, perché «eccede i limiti del raffreddamento delle dinamiche retributive», con sentenza n. 223 del 2012).
La Corte costituzionale ha tenuto, inoltre, a evidenziare, con la sentenza n. 200 del 2018, come sia determinante considerare che il ‘fluire del tempo’ differenzia il regime pensionistico prima e dopo la scadenza del quadriennio e giustifica il fatto che, per i dipendenti collocati in quiescenza nel quadriennio, la retribuzione pensionabile – calcolata sia con il sistema contributivo sia, ancora residualmente, con il sistema retributivo – debba tenere conto della retribuzione ‘spettante’ secondo la disciplina applicabile ratione temporis , mentre per i
dipendenti collocati dopo la scadenza del quadriennio il parametro di riferimento è la retribuzione spettante fino alla data del loro pensionamento.
Una volta sterilizzati ex lege , per effetto dell ‘ art. 9, comma 21, del d.l. n. 78 del 2010, gli automatismi retributivi nel quadriennio in questione, la retribuzione utile ai fini previdenziali è divenuta quella risultante dall’applicazione di tale regola limitativa, senza che, a questo fine, rilevi il momento del collocamento in quiescenza, se nel corso del quadriennio o successivamente alla sua scadenza.
La Corte costituzionale ha rappresentato che, una volta posta la regola dell’invarianza della retribuzione dei pubblici dipendenti in caso di progressione di carriera – senza che si dubiti della legittimità costituzionale di tale regola di iniziale immodificabilità in melius della retribuzione, avendo la stessa Corte già ritenuto non fondate questioni di costituzionalità riguardanti la retribuzione e non già la pensione (per tutte, sentenza n. 310 del 2013) – la ricaduta sul piano del rapporto previdenziale è generalizzata e non consente di porre utilmente a raffronto il trattamento pensionistico, spettante ai dipendenti collocati in quiescenza nel corso del quadriennio in questione, con quello riconosciuto ai dipendenti collocati in quiescenza dopo la scadenza di tale periodo. Allo stesso modo, con riferimento al blocco della contrattazione collettiva, non potrebbero essere posti in comparazione i trattamenti pensionistici liquidati prima e dopo un incremento retributivo previsto dalla contrattazione collettiva, una volta cessato il periodo di sospensione.
Neppure potrebbe sostenersi che il dipendente collocato in quiescenza nel corso del quadriennio subisca a tempo indeterminato il rigore della regola censurata, che congela solo temporaneamente gli incrementi retributivi.
Questa prospettazione, secondo la Corte costituzionale, avrebbe una sua plausibilità solo se la regola posta dalla disposizione censurata fosse quella di un prelievo straordinario sulle retribuzioni in caso di progressione di carriera: cessata l’operatività del prelievo, la retribuzione si riespande rebbe a un livello superiore e si potrebbe dubitare della legittimità costituzionale di un prelievo che per una parte del pubblico impiego in servizio nel quadriennio sarebbe ad tempus e per altra parte – i pubblici dipendenti collocati in quiescenza nel corso del quadriennio – sarebbe sofferta indefinitivamente senza limitazione di tempo.
Come già sopra rilevato, però, la costruzione della disposizione censurata come introduttiva di un prelievo straordinario sulle retribuzioni dei pubblici dipendenti, con conseguente sua natura tributaria, è stata esclusa dalla Corte costituzionale fin dalle sentenze n. 154 del 2014 e n. 304 del 2013, a differenza della decurtazione retributiva di cui al successivo comma 22 del medesimo art. 9, di cui è stata ritenuta, invece, la natura tributaria (con conseguente fondatezza della relativa questione di legittimità costituzionale: sentenza n. 223 del 2012).
In definitiva, l a regola dell’iniziale invarianza della retribuzione in caso di progressione di carriera (o di passaggio a un’area superiore) – ossia la regola che così fissa la retribuzione del pubblico dipendente ‘promosso’, privo inizialmente di anzianità di servizio nella più elevata posizione di lavoro conseguita vale a definire la retribuzione d’ingresso ad esso spettante, in quanto il soggetto interessato ha diritto non a una retribuzione superiore su cui grava un prelievo forzoso, ma proprio a quella retribuzione che percepiva prima della ‘promozione’; regola questa che è sì di rigore, ma la cui legittimità costituzionale, o no, va verificata sul piano del rapporto di impiego in corso e della disciplina del trattamento retributivo. Una volta, però, che non si dubita dell’adeguatezza della retribuzione spettante al pubblico dipendente ‘promosso’, la stessa varrà anche sul piano (contributivo e) previdenziale, al fine di quantificare il trattamento pensionistico al quale il dipendente stesso ha diritto, quale che sia il sistema di calcolo, se contributivo o, ancora residualmente, retributivo.
La Corte costituzionale, pertanto, ha ribadito, con riferimento all ‘ art. 9, comma 21, terzo periodo, citato, che «non è prevista l’obbligatoria corrispondenza tra grado e funzioni e, conseguentemente, tra grado e trattamento economico collegato all’esercizio delle funzioni» ( come affermato con la sentenza n. 304 del 2013) e che, nella specie, non sia stato violato il principio di eguaglianza in ragione della denunciata disparità di trattamento tra dipendenti che avevano conseguito una progressione di carriera raggiungendo un grado più elevato prima o dopo l’inizio del blocco stipendiale (sentenza n. 154 del 2014).
Con la sentenza n. 96 del 2016, poi, ha affermato che va «valorizzato il criterio oggettivo che si ricava dalla maggiore anzianità di servizio dei soggetti destinatari di un miglior trattamento economico corrispondente all’ottenuta promozione (sentenza n. 304 del 2013), criterio cui si affianca quello della maggiore anzianità nel grado (sentenza n. 154 del 2014)».
Da quanto sopra si evince che lo stipendio del controricorrente, al momento del passaggio nei ruoli civili, era proprio quello che è stato valutato ai fini dell’attribuzione dell’assegno ad personam .
Priva di pregio è l’affermazione del dipendente, per il quale egli avrebbe comunque acquisito, ai fini giuridici, il diritto al trattamento in questione e che, ragionando diversamente, sarebbe stato reso definitivo l’effetto penalizzante connesso all’ art. 9, comma 21, del d.l. n. 78 del 2010.
Si tratta di considerazioni espressamente smentite dalla Corte costituzionale e che palesano come il controricorrente e la corte territoriale non abbiano correttamente ricostruito il fenomeno in esame.
D’altronde, se le progressioni in carriera hanno avuto effetto, in base alla normativa de qua , ai soli fini giuridici, non si vede perché, nel caso del controricorrente, tali effetti giuridici dovrebbero accompagnarsi ad un effetto economico a lui favorevole per il periodo durante il quale il suo stipendio era stato bloccato.
In pratica, il lavoratore non ha mai avuto diritto alla retribuzione da lui oggi reclamata. Non si comprende, peraltro, come potrebbe mai l’incremento retributivo reclamato nella fattispecie spettare ai fini della quantificazione dello stipendio, ma non rilevare per la quantificazione del trattamento pensionistico.
Con il secondo motivo parte ricorrente lamenta la falsa applicazione dell’art. 1, comma 9, della legge n. 468 del 1987, in quanto la corte territoriale avrebbe erroneamente applicato questa disposizione, prevista per il personale militare, a soggetto rientrante nei ruoli civili della Difesa.
La doglianza non deve essere esaminata, perché assorbita da ll’accoglimento del primo motivo.
Il ricorso è accolto quanto al primo motivo, assorbito il secondo.
La sentenza impugnata è cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa è decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384, comma 2, c.p.c., con il rigetto della domanda originaria del controricorrente, in applicazione del seguente principio di diritto:
personale delle Forze Armate tra nsitato, ai sensi dell’art. 930 del d.lgs. n. 66 del 2010, nei ruoli del personale civile del Ministero della Difesa durante il periodo di vigenza del c.d. blocco stipendiale stabilito dell’art. 9, comma 21, terzo periodo, del d.l. n. 78 del 2010 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), conv., con modif., dalla legge n. 122 del 2010, va determinato senza tenere conto dei miglioramenti economici dei quali tale personale avrebbe beneficiato, al momento del transito, se non vi fosse stato detto blocco stipendiale, compre so l’assegno di funzione dovuto ai sensi dell’art. 1, comma 9, del d.l. n. 379 del 1987 , conv. dalla legge n. 468 del 1987 ‘.
Le spese di lite dell’intero processo sono compensate in ragione della complessità e novità della questione trattata.
P.Q.M.
La Corte,
accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo;
cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta le originarie domande del controricorrente;
compensa le spese di tutto il processo.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della IV Sezione Civile, il 3