Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 16921 Anno 2025
Civile Sent. Sez. L Num. 16921 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 24/06/2025
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 9894/2021 R.G. proposto da: COGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME, rappresentati e difesi dagli Avv. NOME COGNOME e NOME COGNOME ricorrenti – contro
MINISTERO DEI BENI E DELLE ATTIVITA’ CULTURALI E DEL TURISMO, MINISTERO DELL’ISTRUZIONE e DEL MERITO, PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI, rappresentati e difesi dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO
– controricorrente –
e contro
AZIENDA USL DELLA ROMAGNA
– intimata – avverso la sentenza della Corte d’Appello di Bologna, n. 370/2020, depositata il 9.10.2020, NRG 614/2019;
udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 18.3.2025 dal Consigliere NOME COGNOME
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. NOME COGNOME che ha insistito per il rigetto del ricorso;
udito l’Avv. NOME COGNOME per i ricorrenti.
FATTI DI CAUSA
1. I ricorrenti, dipendenti del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, del Ministero dell’Istruzione e del Merito e della ASL della Romagna, hanno agito nei confronti dei predetti, oltre che della Presidenza del Consiglio dei Ministri, per sentir accertare il loro diritto alla stipula del contratto collettivo ed a percepire le correlate differenze stipendiali per il periodo 20102015 in cui vi era stato il blocco della contrattazione disposto per legge e comunque per il periodo dal 30.7.2015 al 31.12.2015, ovverosia quello immediatamente successivo alla declaratoria di illegittimità costituzionale sopravvenuta di quel blocco ad esito di Corte Costituzionale 23 luglio 2015, n. 178.
I ricorrenti insistevano altresì per la proposizione di incidente di legittimità costituzionale della normativa di bilancio per il 2016, in quanto essa, dopo il venir meno del blocco della contrattazione, aveva fissato risorse idonee al solo incremento della c.d. indennità di vacanza contrattuale, senza disporre copertura per il periodo del 2015 successivo alla sentenza della Corte Costituzionale e comunque non realizzando alcun serio ristoro nei riguardi dei dipendenti pubblici, in contrasto con la tutela del diritto di proprietà e con il diritto costituzionale ad una retribuzione equa e sufficiente.
Secondo quanto si desume dal ricorso per cassazione essi sollecitavano altresì il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea per la verifica in ordine alla compatibilità della disciplina nazionale con il complesso delle norme eurounitarie ed internazionali.
Tutto ciò in ragione della domanda risarcitoria, anche secondo il regime del c.d. danno eurounitario, rispetto alle aspettative di tutela retributiva sul piano della contrattazione collettiva.
La Corte d’Appello di Bologna, rigettando il gravame contro la sentenza del Tribunale di Ravenna, ha ritenuto che, essendo stata ripristinata la possibilità di procedere alla contrattazione, il vulnus censurato dalla Corte Costituzionale fosse venuto meno, non sussistendo tutela per i ‘risultati’ cui la contrattazione stessa era pervenuta o avrebbe potuto pervenire e comunque, per il pregresso, avendo la Corte Costituzionale sancito la salvezza degli effetti economici verificatisi.
L’art. 36 della Costituzione non contemplava del resto un diritto all’incremento annuale della retribuzione, ma solo la rispondenza di essa a criteri di adeguatezza e sufficienza, profili rispetto ai quali, in una valutazione globale, gli argomenti addotti dai ricorrenti affermava la Corte distrettuale -non convincevano « della lamentata insufficienza …. rispetto ai criteri di cui sopra ».
Infine -concludeva la Corte l’aspettativa cui facevano riferimento i ricorrenti era da riconnettere anch’essa all’adeguatezza della retribuzione come tale e non ad un suo necessario incremento.
I lavoratori hanno proposto ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi, cui i Ministeri e la Presidenza del Consiglio hanno opposto difese con controricorso.
Il Pubblico Ministero ha depositato note scritte con le quali ha insistito per il rigetto del ricorso, confermando tale richiesta in udienza.
La ASL è rimasta intimata.
È in atti memoria dei ricorrenti.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il primo motivo di ricorso per cassazione denuncia la violazione dell’art. 111 della Costituzione, nonché dell’art. 132 n. 4 c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c., con nullità della sentenza (art. 360 n. 4 c.p.c.) motivazione assente, perplessa, contraddittoria ed incomprensibile.
I ricorrenti lamentano che la Corte territoriale, nell’escludere un loro diritto alla stipula di nuovi contratti collettivi anche al fine di assicurare l’adeguatezza ex art. 36 Cost. della retribuzione e nel limitarsi ad affermare che gli argomenti addotti non sarebbero stati convincenti, non avrebbe spiegato il perché di tali conclusioni né motivato rispetto alle deduzioni con cui era stato evidenziato come i trattamenti economici fossero tornati ai livelli anteriori al 2009, con erosione del potere di acquisto rispetto al tasso di inflazione reale ed azzeramento degli effetti economici dei precedenti contratti collettivi.
Nessuna motivazione era stata altresì sviluppata rispetto alle pur dedotte violazioni della Carta Sociale Europea, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti fondamentali e dell’art. 1 del protocollo addizionale alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (di seguito, CEDU).
Il secondo motivo denuncia la violazione, errata e falsa applicazione degli artt. 2, 3 e 36 della Costituzione (art. 360 n. 3 c.p.c.).
Il motivo riprende la prima censura e, richiamata la precettività diretta dell’art. 36 Cost. ed il ‘minimo costituzionale’ , da individuarsi rispetto al trattamento tabellare ed alla retribuzione base, con indennità di contingenza e tredicesima mensilità, fa riferimento ancora all’arretramento al di sotto del livello del 2009 delle retribuzioni medie, alle spese inferiori per il pubblico impiego privatizzato del 2016 -pari a 12 miliardi in meno – rispetto alle spese del 2009 ed al riassorbimento, attraverso l’aumento del tasso reale di inflazione, degli incrementi attribuiti nell’ultima tornata contrattuale precedente al blocco.
Ciò richiamando dati provenienti dalla Ragioneria Generale dello Stato e riguardanti proprio gli emolumenti di base destinati a costituire il nucleo del c.d. minimo costituzionale.
Il tutto a fronte viceversa, rimarca ancora il motivo, del mantenimento, se non dell’incremento delle retribuzioni di altro personale non contrattualizzato, come quello della carriera prefettizia, diplomatica e del personale di magistratura.
Il terzo motivo adduce invece la violazione dell’art. 112 c.p.c. sotto il profilo della denunciata -e non decisa -questione sul danno c.d. eurounitario.
Il quarto motivo, riprendendo nel merito il tema del danno eurounitario, assume che comunque vi sarebbe stata la violazione, errata o falsa applicazione (art. 360 n. 3 c.p.c.) della parte I, p. 2 e 6 della Carta sociale europea, ratificata con legge n. 30 del 1999, nonché dell’art. 28 della Carta dei diritti fondamentali della U.E., dell’art. 1 del protocollo addizionale alla CEDU sottoscritto a Parigi il 20.3.1952 e degli artt. 10 e 117 Cost.
Il motivo evidenzia come il diritto ad eque condizioni di lavoro determinate attraverso la contrattazione collettiva sia riconosciuto da numerose disposizioni di diritto europeo e internazionale.
Esso in proposito richiama quanto previsto dalla parte I, punti 2 e 6, della Carta Sociale Europea e dall’art. 1 del protocollo addizionale alla CEDU, sotto il profilo del divieto di privazione della proprietà, riguardante, a certe condizioni, più in generale i diritti patrimoniali, tra cui i crediti e le legittime aspettative.
Su tali basi e in disparte i profili pubblicistici, lo Stato italiano, bloccando per sei anni la contrattazione collettiva e la dinamica delle retribuzioni e non apprestando risorse per il periodo dal 30 luglio al 31 dicembre 2015, aveva violato -secondo i ricorrenti tali principi e diritti, consentendo la regressione dei trattamenti retributivi reali.
Veniva quindi riproposta la questione di legittimità costituzionale sotto il profilo dell’art. 36 Cost. e del principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., sul presupposto che, pur dopo i sei anni di blocco della dinamica salariale e gli effetti di regresso reale delle
retribuzioni, non fosse stato consentito alcun serio recupero rispetto al vulnus arrecato al c.d. ‘minimo costituzionale’, sicché erano scrutinabili sotto i profili dedotti le norme di cui all’art. 1, co. 466 della legge n. 208 del 2015 e dell’art. 1, co. 365 e 366 della legge n. 232 del 2016, che avevano realizzato stanziamenti, anche tenuto conto del risultato netto finale nelle buste paga dei dipendenti, inidonei rispetto ai fini da perseguire.
Il tutto anche in relazione agli artt. 10 e 117 Cost., con riferimento alle citate norme della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, della CEDU e della Carta sociale europea come parametri interposti. Sempre sul piano delle legittimità costituzionale i ricorrenti evidenziano infine come le esigenze finanziarie non sfuggano al sindacato perché esse non possono assumere, secondo la Consulta, un peso talmente preponderante da comprimere il nucleo irriducibile dei diritti protetti dalla Costituzione, così come analoga posizione era sostenuta dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo rispetto ai diritti fondamentali della CEDU.
Infine, veniva richiamato anche il principio di libertà sindacale di cui all’art. 39 Cost.
I ricorrenti, da altro punto di vista, hanno insistito per la proposizione di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia.
Ciò sul presupposto che l’ordinamento eurounitario assicura il rispetto dei principi generali della CEDU e che va altresì garantito quanto derivante dalla Carta dei diritti fondamentale dell’Unione Europea e dalla Carta Sociale Europea, il tutto in relazione sia alla violazione dell’aspettativa, tutelata in ambito CEDU come componente dei diritti patrimoniali del singolo, a che attraverso la contrattazione collettiva si determini la giusta retribuzione corrispondente alle prestazioni rese nel rapporto di lavoro ed in relazione altresì al diritto a condizioni di lavoro eque, violate dall’attribuzione di trattamenti inidonei a ristorare i lavoratori,
stante l’essere i loro salari reali regrediti a livelli precedenti al 2009.
I motivi vanno esaminati congiuntamente, data la loro connessione, secondo l’ordine logico -giuridico dei temi coinvolti.
Preliminarmente, vanno riepilogati alcuni tratti essenziali della contrattazione collettiva nel pubblico impiego privatizzato.
5.1 Può tralasciarsi il tema della contrattazione integrativa.
Quest’ultima è infatti condizionata dal realizzarsi della contrattazione nazionale, cui essa è per legge subordinata (art. 40, co. 3-bis del d. lgs. n. 165 del 2001) e dunque i vincoli e blocchi che riguardano la contrattazione nazionale sono destinati a riverberarsi sulla contrattazione integrativa.
Non potendosi, nell’ambito integrativo, prevedere incrementi che non si fondino su previsioni dei CCNL, il blocco economico di questi ultimi è in sé ragione di interferenza con la contrattazione di secondo livello, che dunque non rileva di per sé rispetto alle questioni agitate in questa causa e non a caso le parti non affrontano questa ulteriore tematica.
5.2 Esaminando invece il tema della contrattazione nazionale, va rilevato come essa si svolga secondo una sequenza rigida, definita dalle norme, che prevede l’individuazione delle risorse disponibili (art. 48, co. 1 e 2, del d. lgs. n. 165 del 2001), la stipula degli accordi tra ARAN e sindacati (art. 47 d. lgs. n., 165 del 2001) e quindi la verifica della coerenza di essi rispetto agli stanziamenti (sempre art. 47, co. 5 ss.).
Già da ciò è chiara la diversità esistente rispetto alla contrattazione di diritto privato, in sé non assoggettata a vincoli finanziari di legge e quindi più aperta agli effetti dei concreti rapporti di forza di volta in volta destinati a manifestarsi nella relazione tra le parti collettive.
La contrattazione nell’impiego pubblico, da questo punto di vista, si caratterizza per una logica essenzialmente distributiva delle risorse destinate a ciascun settore.
Le capacità di orientare l’allocazione di risorse verso la contrattazione non si muove dunque all’interno di essa, ma sul diverso e logicamente antecedente piano dell’attività di politica sindacale e del lavoro o se del caso attraverso anche lo sciopero o altre forme di protesta.
5.3 Non va peraltro sottaciuto che la contrattazione, una volta definito l’intero iter sopra sommariamente riepilogato, assume autonomia di effetti.
Essa diviene infatti obbligatoria per la P.A., ed in tal senso la Corte Costituzionale ha ritenuto che il sistema non determini alcuna frizione con le regole costituzionali che disciplinano l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi (art. 39, co. 4 Cost.), in quanto l’applicazione di tale contrattazione deriva piuttosto dalla cogenza di essa imposta per legge alla P.A., con l’obbligo consequenziale di darvi attuazione e trasfonderla in contratti individuali obbligatori anche per il lavoratore e destinati ad assicurare parità di trattamento (Corte Costituzionale 16 ottobre 1997, n. 309), in una logica chiaramente indirizzata lungo le direttrici di legalità di cui all’art. 97 Cost., cui dovrebbero poi conseguire gli effetti di imparzialità e buon andamento.
Ma l’autonomia di effetti si esprime altresì , una volta concluso l’ iter per la valida sottoscrizione dei contratti collettivi nazionali, attraverso il tendenziale affrancarsi dei diritti riconosciuti, o che da essa derivano, dalle coperture finanziarie, la cui osservanza opera invece ex ante sul piano procedurale.
5.4 Non vi è dubbio che la disciplina preveda correttivi sul piano finanziario anche ex post .
Tali sono le clausole di sospensione totale o parziale del contratto (art. 48, co. 3, del d. lgs. n. 165 del 2001) che la normativa
consente di apporre e tali sono gli interventi di ripristino finanziario conseguenti al riconoscimento giudiziale di certi diritti (art. 61, co. 2, del d. lgs. n. 165 del 2001).
Si tratta però di interventi rimediali che -seppure consentiti e potenzialmente tali da neutralizzare in qualche misura i diritti riconosciuti dal CCNL – operano comunque ex nunc e devono misurarsi con il concomitante principio per cui è la garanzia dei diritti incomprimibili -ivi compreso quello alla parità di trattamento e divieto di discriminazione (Cass. 27 ottobre 2023, n. 29961) – a poter « incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione » (Corte Cost. sentenza n. 275 del 2016) e, pertanto, sono « le scelte allocative di bilancio proposte dal Governo e fatte proprie dal Parlamento », a vedere « naturalmente ridotto tale perimetro di discrezionalità dalla garanzia delle spese costituzionalmente necessarie » e non viceversa (Corte Cost. sentenze n. 62 del 2020, n. 275 e n. 10 del 2016), essendo consolidato anche per le Corti europee centrali il principio per cui le ragioni di bilancio e di contenimento della spesa, per quanto costituiscano uno scopo legittimo, non rispondono ai principi di proporzionalità nel momento in cui la loro applicazione determina la lesione di diritti fondamentali delle persone (vedi, Corte EDU, 7 giugno 2011, COGNOME e altri contro Italia; Corte EDU, 28 ottobre 1999, COGNOME, COGNOME contro Francia; nonché Corte di Giustizia 11 novembre 2014, Schmitzer, punto 41; Corte di Giustizia 24 febbraio 1994, De Weerd).
5.5. Le caratteristiche appena evidenziate della contrattazione in ambito di pubblico impiego escludono che abbiano rilievo i ragionamenti propri del tema della retribuzione sufficiente nel settore del lavoro privato, in quanto qui la P.A. è tenuta ad applicare i CCNL, che dunque non operano come parametro di raffronto per retribuzioni inferiori in ipotesi riconosciute nella sua
autonomia dal datore di lavoro (v. ad es. Cass. 13 ottobre 1987 n. 7563).
6. Il quadro appena delineato consente di chiarire l’ambito entro cui si inserisce Corte Costituzionale 23 luglio 2015, n. 178 con la quale è stata da un lato rigettata la questione di legittimità delle norme sul blocco degli incrementi delle risorse tra il 2011 ed il 2014/2015 e si è ritenuta invece l’illegittimità costituzionale del protrarsi del blocco della contrattazione oltre il 30 luglio 2015, per violazione della libertà sindacale e quindi dell’art. 39, co. 1, Cost.
Prendendo quindi in considerazione il tema della libertà sindacale, quest’ultima comprende certamente vari livelli e connotazioni, tra cui il diritto di organizzarsi e partecipare o meno alle organizzazioni, il diritto di esercitare le prerogative che la legge assicura ai sindacati ed ai lavoratori in ambito sindacale, il diritto di sciopero e, per quanto qui interessa, il diritto di svolgere la contrattazione collettiva destinata a regolare i rapporti di lavoro sul piano economico e giuridico.
Per quanto qui rileva, è indubbio che il vincolo alle risorse prestabilite sia certamente importante, ma anche la possibilità di intervenire sul piano distributivo esprime un modo di esercizio delle prerogative contrattuali del sindacato, così come è per la partecipazione, attraverso gli accordi, alla realizzazione di quell’effetto di autonomia dei diritti che consegue alla definizione della contrattazione e di cui si è detto.
Ciò spiega il perché, nonostante il condizionamento rispetto alle risorse, la Corte Costituzionale nella pronuncia sopra citata abbia ritenuto che dovesse cessare il blocco della contrattazione e quindi la libertà sindacale, sub specie di diritto al negoziato, pur nei margini in cui essa si esprime anche nel pubblico impiego privatizzato, dovesse tornare ad essere esercitata.
Ma ciò consente di comprendere anche il senso della declaratoria di illegittimità costituzionale, la quale non sta a significare che da
allora in poi vi fosse un qualche diritto al recupero di trattamenti perduti o a miglioramenti retributivi.
Lo sblocco è invece finalizzato a realizzare un nuovo innesco -dopo la parentesi emergenziale – al sistema di determinazione dei trattamenti economici nel pubblico impiego privatizzato, secondo la sequela stanziamento -contrattazione – controllo di coerenza contabile – stipula del contratto collettivo obbligatorio per la P.A., di cui si è detto.
Non a caso, con chiarezza, la Corte Costituzionale precisa che la ripresa dell’attività negoziale era da tenere « disgiunta da ogni vincolo di risultato ».
Su queste basi possono affrontarsi le questioni prospettate in causa.
Iniziando dal tema del diritto al negoziato collettivo, è insito nella stessa sentenza della Corte Costituzionale -che ha accolto la questione, argomentando anche sulle fonti internazionali cui fanno riferimenti i ricorrenti, con effetto dal momento in cui il blocco della contrattazione si manifestava come strutturale e non per il periodo precedente – che si possa avere una limitazione, se vi siano ragioni contingenti che lo giustifichino.
8.1 D’altra parte, anche l’ampia rassegna delle fonti internazionali sviluppata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo 12 novembre 2008, NOME COGNOME evidenza l’esistenza di circoscritti, ma comunque possibili limiti alla contrattazione.
8.2 In proposito, il riconoscimento dei diritti ad opera della Carta Sociale Europa (qui, il diritto di negoziazione collettiva di cui al punto 6 della Parte I) è pur sempre soggetto al limite generale di cui all’articolo ‘G’ della parte V, secondo cui « i diritti ed i principi enunciati nella parte I, quando saranno effettivamente attuati, e l’esercizio effettivo di tali diritti e principi come previsto nella parte II, non potranno essere oggetto di restrizioni o di limitazioni non specificate nelle parti I e II ad eccezione di quelle stabilite dalla
legge e che sono necessarie, in una società democratica, per garantire il rispetto dei diritti e delle libertà altrui o per proteggere l’ordine pubblico, la sicurezza nazionale, la salute pubblica o il buon costume ».
Non diversamente, l’art. 28 della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea, riconosce il diritto di negoziare e di concludere contratti collettivi, ai livelli appropriati, ma pur sempre in conformità non solo al diritto comunitario, ma anche alle « legislazioni e prassi nazionali ».
Su un piano internazionale ancora più ampio l’art. 7 della Convenzione ILO sulle relazioni di lavoro (servizio pubblico) del 1978 riconosce l’adozione di misure per incoraggiare e promuovere il pieno sviluppo e l’utilizzazione di meccanismi di negoziazione delle condizioni di lavoro tra le autorità pubbliche interessate che devono essere tuttavia « adeguate rispetto alle condizioni nazionali » e identica previsione è contenuta nell’art. 4 della Convenzione OIL sul diritto di organizzazione e di negoziazione collettiva del 1949.
In definitiva, da tutto ciò si trae l’evidenza che il diritto al negoziato collettivo deve pur sempre svolgersi secondo le regole di diritto interno che -senza vanificarne i contenuti essenziali ed imprescindibili ne governano l’esercizio, coordinandolo con le altre esigenze che l’ordinamento deve assicurare.
8.3 Il contemperamento regolativo che discende da tali fonti, come anche dall’assetto dei diversi valori costituzionali concorrenti (art. 39, co.1, art. 81; art. 97 Cost.) è stato già oggetto di ponderazione da parte della Corte Costituzionale nella sentenza n. 178 qui in esame, con richiamo anche alla ragionevolezza di fondo (art. 3 Cost.) ed al principio fondamentale solidaristico (art. 2 Cost.) e questa S.C. non può che rinviare a quanto così argomentato.
Va quindi riconosciuta la legittimità, in senso generale, di una regolazione della contrattazione collettiva come quella che si è visto esistere per il pubblico impiego privatizzato, così come, più in
specifico, la temporanea sospensione di essa nelle fasi della crisi finanziaria, ma non oltre quanto necessario rispetto ad essa, nei termini temporali sanciti dalla Consulta.
L’aspettativa al negoziato collettivo, su cui fanno leva i ricorrenti con richiamo alla disciplina CEDU ed al l’articolo 1 del Protocollo addizionale, è dunque tutelata nel diritto interno con riferimento alla contrattazione con la P.A. -per come essa è regolata secondo le specificità che la caratterizzano – ed essa non è stata vanificata dal periodo di blocco, ma solo temporaneamente neutralizzata in ragione di contingenti e concomitanti esigenze di ripristino degli equilibri finanziari, nell’interesse generale ed in ossequio a principi fondanti della vita consociata, in una « dimensione », si cita ancora direttamente la pronuncia della Corte Costituzionale, connotata « in senso solidaristico » e con sacrificio « né irragionevole, né sproporzionato ».
8.4 Ciò -stante la pronuncia della Corte Costituzionale che naturalmente svolge la funzione anche di coordinamento tra il diritto interno e quello sovranazionale – esclude che si debba dare corso già da questo punto di vista ad incidenti interpretativi presso la Corte di Giustizia.
In parte autonomo è il tema della retribuzione proporzionata e sufficiente.
Anche rispetto a tale profilo, tuttavia, risultano decisive le considerazioni svolte dalla Corte Costituzionale.
La Consulta ha escluso che vi fosse stata violazione dell’art. 36 Cost., tenuto conto che dati ufficiali attestavano come la dinamica retributiva pubblica antecedente al blocco si attestasse su valori più sostenuti di quelli registrati nei settori privati dell’economia ed ha quindi ritenuto che mancassero elementi per affermare che la perdita di allineamento, evidentemente rispetto all’economia reale, conseguente al blocco, realizzasse quel significativo ed irragionevole scostamento che è necessario secondo la
giurisprudenza costituzionale per realizzare da questo punto di vista il vulnus costituzionalmente rilevante.
Ciò fino a concludere espressamente che l’infondatezza sotto tale profilo comporta all’infondatezza « di eventuali pretese risarcitorie o indennitarie » fondate sul periodo di blocco delle risorse e della contrattazione.
9.1 Esclusa ogni violazione fino a quel momento, per affermare l’inadeguatezza da allora è sterile l’insistenza dei ricorrenti sull’arretramento retributivo reale realizzatosi nel periodo di blocco, così come del tutto generico è il richiamo alle minori spese complessive per il pubblico impiego.
I pochi mesi residui del 2015 palesemente non possono giustificare il ribaltamento immediato del giudizio sviluppato dalla Consulta per quanto accaduto fino a quel momento ed è pacifico che vi siano stati finanziamenti con la legge di stabilità del 2016 (legge n. 208 del 2015) e del 2016 (legge n. 232/2017) destinati ad un pur limitato incremento delle retribuzioni, così come anche nel periodo di blocco delle risorse è stata sempre prevista, seppure in importi non incrementati, l’indennità di vacanza contrattuale (art. 1, co. 452, della legge n. 147 del 2013; art. 9, co. 17, del d.l. n. 78 del 2010), in sé destinata ad ammortizzare gli effetti sfavorevoli della mancanza di contrattazione.
Vi è quindi stata ripresa, nelle sessioni contrattuali a venire, della dinamica negoziale quale regolata dal legislatore.
9.2 È vero che la sentenza di appello risulta assai sintetica sul punto, non potendosi però essa ritenersi priva di motivazione.
Il cenno in essa contenuto alla necessità che l’adeguatezza e la sufficienza siano valutati sulla base del complessivo ammontare di tutte le componenti (v. pag. attraverso il richiamo in nota a Cass. 28 marzo 2000 n. 3749, ivi riportata in stralcio) ed alla salvezza degli effetti economici pregressi sancito dalla Corte Costituzionale, in una con l’essersi ritenuti non convincenti gli argomenti addotti
dai ricorrenti, che sono chiaramente gli stessi qui spesi, a muovere dalla denuncia dell’arretramento retributivo già ritenuto non decisivo dalla Corte Costituzionale, non consentono di riconoscere il determinarsi di un caso di inesistenza della motivazione.
A fortiori non sorge questione di un lavoro addirittura ‘povero’, ovverosia quello in cui anche la contrattazione si pone al di sotto di livelli minimi di tollerabilità e di cui a Cass. 2 ottobre 2023, n. 27711.
Non sono poi rilevanti, a fronte dell’infondatezza in diritto, le denunce di vizi di omessa pronuncia (Cass., S.U., 2 febbraio 2017, n. 2731) o di difetto motivazionale (Cass. 1 marzo 2019, n. 6145) su questioni puramente giuridiche.
9.3 La Corte Costituzionale (punto 9.2) ha altresì già escluso che possano avere rilievo, stante la diversità delle condizioni giuridiche, raffronti con le posizioni di altri lavoratori pubblici non soggetti al regime della contrattazione.
9.4 Tutto ciò convince della manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale ulteriormente proposta, in tutte le sue articolazioni, così come dell’inutilità anche da questo punto di vista del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, non potendosi ritenere che il punto 2, parte I della Carta Sociale su cui fanno leva i ricorrenti e riguardante il diritto ad « eque condizioni di lavoro », oltre a non riguardare in modo diretto (v. il successivo art. 2, parte II) la misura della retribuzione, abbia nella sostanza contenuti diversi da quelli che caratterizzano l’art. 36 Cost.
10. Il ricorso va dunque complessivamente rigettato e le spese del grado si regolano secondo soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento in favore dei controricorrenti delle spese del giudizio di cassazione,
che liquida in euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Lavoro