Ordinanza interlocutoria di Cassazione Civile Sez. L Num. 15030 Anno 2024
Civile Ord. Sez. L Num. 15030 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 29/05/2024
ORDINANZA INTERLOCUTORIA
sul ricorso iscritto al n. 22910/2022 r.g., proposto da
RAGIONE_SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore , elett. dom.ta in INDIRIZZO, presso lo studio degli AVV_NOTAIO NOME AVV_NOTAIO che la rappresentano e difendono come da procura speciale in calce al ricorso
ricorrente
contro
NOME COGNOME , elett. dom.to in INDIRIZZO, presso lo studio dell’ AVV_NOTAIO che lo rappresenta e difende come da procura speciale in calce al controricorso controricorrente
avverso la sentenza della Corte d’Appello di Roma n.2712/2022 pubblicata in data 27/07/2022, n.r.g. 2923/2021.
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del giorno 14/05/2024 dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME;
Vista la memoria scritta depositata dal P.M., in persona del AVV_NOTAIO, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
RILEVATO CHE
1.- NOME COGNOME, all’epoca dei fatti dirigente dell’odierna società ricorrente, era stato licenziato in data 29/04-6/05 /2020 nell’ambito di un processo di riorganizzazione aziendale, nell’ottica del contenimento dei costi e di una più utile gestione dell’impresa, volta alla soppressione della posizione lavorativa del dirigente e alla ridistribuzione e/o accorpamento delle funzioni in capo al altri responsabili aziendali.
OGGETTO:
dirigente -licenziamento individuale per ragioni oggettive -‘blocco’ dei licenziamenti durante la pandemia da COVID-19
Adìva il Tribunale di Roma per ottenere la declaratoria di nullità del licenziamento per violazione del divieto di avviare procedure di licenziamento collettivo in pendenza dell’emergenza epidemiologica da COVID -19 introdotto dall’art. 46 del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18 (convertito con modificazioni dalla legge 24 aprile 2020, n. 27) e, comunque, la declaratoria di illegittimità per insussistenza del giustificato motivo oggettivo e della giustificatezza, mancata soppressione della posizione, violazi one dell’obbligo di repêchage .
2.- Instauratosi il contraddittorio, il Tribunale, considerato il chiaro tenore testuale dell’art. 46 del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18 e la simmetria tra blocco dei licenziamenti e ricorso agli ammortizzatori sociali, rigettava la domanda di impugnazione del licenziamento individuale.
3.- Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte territoriale accoglieva l’appello proposto dal COGNOME e per l’effetto dichiarava la nullità del licenziamento individuale del 29/04/2020 per contrasto con norma imperativa, ordinava la reintegrazione nel posto di lavoro e condannava la società al risarcimento del danno, pari all’ultima retribuzione globale di fatto dal licenziamento fino al l’effettiva reintegra, sulla base di euro 16.538,47 mensili.
I giudici d’appello ritenevano che il divieto di licenziamenti individuali ‘per giustificato motivo oggettivo’ in conseguenza della pandemia da COVID-19 -previsto segnatamente dal l’art. 46 del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18 -trovasse applicazione anche ai dirigenti, all’esito di un’interpretazione costituzionalmente orientat a, confortata, altresì, dalla previsione dell’art. 1, comma 305, della legge 30 dicembre 2020, n. 178 che ha consentito ai datori di lavoro di ottenere i trattamenti di cassa integrazione guadagni per i lavoratori che risultavano alle loro dipendenze alla data dell’1.01.2021, senza alcuna delimitazione di carattere soggettivo.
4.- Con il primo motivo del ricorso per cassazione , proposto ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3), c.p.c. la società ricorrente lamenta ‘violazione e falsa applicazione’ dell’art. 46 del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18 per avere la Corte territoriale incluso nella disciplina del ‘blocco dei licenziamenti individuali’ anche i rapporti di lavoro dirigenziali, ai quali invece trova applicazione il regime legale del licenziamento ad nutum . In particolare addebita ai giudici d’appello la violazione del criterio ermeneutico letterale, stabilito dall’art. 12 disp.prel.c.c., avendo, la Corte territoriale, trascurato lo specifico richiamo al dato testuale dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966 (che per costante insegnamento della Corte di Cassazione non si applica ai dirigenti, anche per espressa previsione dell’art. 10 della medesima legge).
Con il secondo motivo la società denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 1, comma 305, della legge 30 dicembre 2020, n. 178 ( ex art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.) avendo, la Corte territoriale, errato nell’interpretare questo parametro normativo come elemento idoneo a corroborare la tesi dell’applicabilità del blocco dei licenziamenti ai dirigenti , posto che la suddetta previsione normativa (di supposta inclusione dei dirigenti nella disciplina degli ammortizzatori sociali) è entrata in vigore in un momento (dicembre 2020) successivo a quello in cui licenziamento del lavoratore è stato disposto , con ciò confermando l’esclusione quantomeno
nell’anno 2020 – dei dirigenti dal blocco dei licenziamenti.
Con il terzo ed il quarto motivo di ricorso la società deduce nullità della sentenza, ex art. 112 c.p.c., per vizio di ultrapetizione, nonché violazione e falsa applicazione dell’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, avendo, la Corte territoriale, del tutto arbitrariamente disposto l’applicazione della tutela di cui all’art. 18, primo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300 nonostante detta tutela non sia mai stata oggetto di domanda del lavoratore e nonostante la locuzione ‘è precluso’ contenuta ne ll’art. 46 del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18 non consentisse di rinvenire una fattispecie di nullità del provvedimento espulsivo, ex art. 1418 c.c.
In via subordinata, la società chiede a questa Corte di sollevare questione di legittimità costituzionale della citata norma per sospetta violazione degli artt. 3 e 41 Cost. laddove interpretato nel significato ritenuto dalla Corte territoriale.
CONSIDERATO CHE
1.L’art. 46 del d ecreto legge 17 marzo 2020, n. 18 (convertito con modificazioni dalla legge 24 aprile 2020, n. 27), rubricato «Disposizioni in materia di licenziamenti collettivi e individuali per giustificato motivo oggettivo» prevede: «1. A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto l’avvio delle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24, della legge 23 luglio 1991, n. 223 e’ precluso per 60 giorni e nel medesimo periodo sono sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020. Sino alla scadenza del suddetto termine, il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non puo’ recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604».
2.- La sussistenza, in fatto, di un licenziamento individuale formalmente intimato per una ragione economico-organizzativa (soppressione della posizione dirigenziale di ‘ Chief Operating Officer ‘) non è controversa tra le parti; del pari, fruito,
per il dirigente, dei trattamenti di integrazione salariale all’emergenza epidemiologica da COVID-19.
riconducibili
3.- Ai fini della decisione dei primi due motivi di ricorso per cassazione viene in rilievo il divieto temporaneo di licenziamento individuale previsto dall’art. 46 del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18.
4.- La società ricorrente assume che, intesa la norma nel senso ritenuto dalla Corte territoriale, essa sarebbe in contrasto con gli artt. 3, primo comma, e 41, primo e terzo comma, Cost. sotto tre profili:
violerebbe la libertà di iniziativa economica privata, derivando una compressione significativa della libertà economica senza alcun preventivo ‘bilanciamento’ costituzionale;
ii) finirebbe per mantenere ai dirigenti, ossia ai dipendenti economicamente più forti, il diritto all’intero trattamento retributivo, mentre per tutte le altre categorie sarebbe prevista la cassa integrazione guadagni e quindi soltanto il diritto al trattamento di integrazione salariale nonché per trattare diversamente datori di lavoro che hanno numerosi rapporti di lavoro
dirigenziali rispetto a quelli che non ne hanno o hanno pochi dirigenti alle proprie dipendenze, iii) finirebbe per tutelare maggiormente i lavoratori più ‘forti’ e per trascurare la varietà di situazioni riferite alla sfera datoriale, lasciando ai datori di lavoro il carico enorme degli oneri economici di una disposizione assistenziale, peraltro per un periodo di tempo enormemente ampio.
Le questioni di legittimità costituzionale così come prospettate dalla società ricorrente sono manifestamente infondate.
Va evidenziato che la collocazione in cassa integrazione guadagni, anche nel periodo interessato dal c.d. blocco dei licenziamenti, non è automatica, ma pur sempre volontaria, ossia dipendente da una scelta -tecnica, economica, o di strategia imprenditoriale -del datore di lavoro in concreto. Sicché nulla esclude che anche altre categorie di dipendenti abbiano mantenuto il diritto al normale trattamento retributivo, qualora il datore di lavoro abbia deciso di non far ricorso (o almeno non per tutti) agli ammortizzatori sociali.
In secondo luogo, nel senso della ragionevolezza di questa differente (solo possibile) conseguenza milita anche il profilo quantitativo: secondo massime di comune esperienza, nelle organizzazioni produttive il numero dei dirigenti è manifestamente e di gran lunga inferiore al numero dei dipendenti non dirigenti, sicché il peso economico delle retribuzioni dirigenziali è comunque inferiore a quello delle retribuzioni complessivamente spettanti ai non dirigenti. Ne consegue la ragionevolezza della scelta del legislatore di escludere soltanto per i dirigenti il possibile ricorso alla cassa integrazione guadagni (nel periodo rilevante nel presente giudizio) e comunque la sua irrilevanza ai fini della decisione.
La prospettata violazione è insussistente, in quanto attiene a mere evenienze fattuali, come tali non idonee ad incidere sulla portata astratta della norma oggetto di interpretazione.
5.Al fine di individuare l’ambito applicativo del divieto dei licenziamenti individuali il legislatore dell’emergenza ha fatto testuale ed espresso riferimento al recesso « per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604 ».
Nel disciplinare l’ambito applicativo della legge 15 luglio 1966, n. 604, il suo art. 10 non menziona i dirigenti. Tale silenzio è unanimemente ritenuto significativo della volontà di escludere i dirigenti ( ubi tacuit, noluit ) e, dunque, di mantenerli in un regime di recesso ad nutum (art. 2118 c.c.). Proprio sulla base di questo regime legale la contrattazione collettiva ha progressivamente introdotto una forma di tutela ‘convenzionale’, in termini sia di necessaria ‘giustificatezza’ del licenziamento del dirigente, sia di obbligo per il datore di lavoro di corrispondere una determinata indennità (c.d. supplementare) nel caso di licenziamento ‘non giustificato’ .
Il consolidato orientamento di questa Corte di legittimità è nel senso della non coincidenza delle nozioni di ‘giustificato motivo’ (di cui all’art. 3 L. n. 604/1966) e di ‘giustificatezza’ (di cui alle previsioni dei contratti collettivi dei dirigenti di vari settori produttivi). In particolare questa Corte ha affermato che «La disciplina limitativa del potere di licenziamento, di cui alla l. n. 604 del 1966 e st.lav., non è applicabile, ai sensi dell’art. 10 della l. n. 604 del 1966, ai dirigenti, neppure convenzionali; ne consegue che, ai fini dell’eventuale riconoscimento dell’indennità supplementare prevista per la
categoria dirigenziale, occorre far riferimento alla nozione contrattuale di giustificatezza della risoluzione, che si discosta, sia sul piano soggettivo che oggettivo, da quella di giustificato motivo, trovando la sua ragion d’essere, da un lato, nel rapporto fiduciario che lega il dirigente al datore di lavoro in virtù delle mansioni affidate, dall’altro, nello stesso sviluppo delle strategie di impresa che rendano nel tempo non pienamente adeguata la concreta posizione assegnata al dirigente nella articolazione della struttura direttiva dell’azienda» (Cass. ord. n. 27199 del 2018; Cass. n. 23894 del 2018).
Ne consegue che i dirigenti sono esclusi dal l’ambito applicativo del divieto dei licenziamenti individuali, perché nei loro confronti il recesso non viene intimato né può giuridicamente essere intimato « per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604 ». L’espressione « ai sensi » è riferita alla nozione di recesso per « giustificato motivo oggettivo », che assume giuridica rilevanza soltanto in tema di rapporti di lavoro subordinato non dirigenziali. Per i dirigenti, infatti, sul piano legale il recesso è ad nutum (art. 2118 c.c.) e, sul piano della contrattazione collettiva, è sufficiente che sia assistito da ‘ giustificatezza ‘ , da intendere in termini di non pretestuosità e/o non arbitrarietà.
6.- È invece diverso il regime del licenziamento collettivo: q uest’ultimo riguarda anche i dirigenti, in termini di computo nel numero dei licenziandi ai fini dell’applicazione della disciplina di cui alla legge 23 luglio 1991, n. 223 e in termini di diritto di informazione e consultazione sindacale e, quindi, di obblighi procedurali a carico del datore di lavoro.
Va infatti rammentata la sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea del 13 febbraio 2014 (in causa C-596/12 promossa dalla Commissione Europea), con cui la Repubblica Italiana è stata condannata per essersi resa inadempiente agli obblighi previsti dalla direttiva n. 98/59/CE del Consiglio del 20/07/1998, perché la normativa italiana di riferimento (legge 23 luglio 1991, n. 223) aveva originariamente escluso i dirigenti dall’ambito di applicazione della procedura di licenziamento collettivo previs ta dall’art. 2 dalla direttiva. Il Parlamento Italiano è pertanto intervenuto con la legge 30 ottobre 2014, n. 161 (pubblicata sulla G.U. n. 261 del 10 novembre 2014), con la quale la procedura dei licenziamenti collettivi è stata estesa anche ai dirigenti, attraverso una modifica ed una riformulazione dell’art. 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223, sia pure nei limiti sopra sinteticamente esposti.
La conseguenza di ciò è immediatamente apprezzabile con riguardo al c.d. blocco dei licenziamenti collettivi disposto dall’art. 46 del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18: esso riguarda certamente anche i dirigenti, perché anche a costoro trova applicazione la legge 23 luglio 1991, n. 223, le cui procedure, da parte del legislatore dell’emergenza pandemica, sono state temporaneamente vietate (o sospese se già iniziate ad una certa data).
7.- Ne consegue che sul piano della disciplina legale dei licenziamenti individuali e di quelli collettivi, il difetto di simmetria che sussiste per i dirigenti (ai quali non si applica la prima, mentre si applica in parte la seconda) si riflette puntualmente sul regime del c.d. blocco dei licenziamenti: questo è applicabile solo se si tratta di licenziamento collettivo, non pure se si tratti di licenziamento individuale per ragioni oggettive.
8.Tale conclusione non è superabile in via di interpretazione
costituzionalmente conforme della norma emergenziale, ispirata a criteri di solidarietà sociale e di equa distribuzione degli oneri derivanti dalla crisi. In particolare deve osservarsi che con il suddetto blocco dei licenziamenti individuali la collettività, attraverso la cassa integrazione guadagni straordinaria, ha assunto il peso economico del lavoro dipendente non dirigenziale (assolutamente preponderante in termini economici) ed il peso di altri benefici erogati alle imprese (sospensione temporanea di oneri fiscali e previdenziali), a fronte dei quali i datori di lavoro hanno subìto una temporanea restrizione della facoltà di licenziamento, estesa secondo la sentenza impugnata, anche ai dirigenti. Il riferimento testuale al giustificato motivo oggettivo di cui all’art. 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604 secondo i giudici d’appello rappresenterebbe solo la tecnica normativa per alludere alle motivazioni economiche, ossia per identificare la natura della ragione posta a fondamento del recesso datoriale e non per delimitare la platea soggettiva di applicazione del divieto e, dunque, dei relativi beneficiari.
9.- Orbene, va ricordato che l’interpretazione costituzionalmente orientata di una norma di legge si fonda sul principio di supremazia costituzionale che impone all’interprete di optare, fra più soluzioni astrattamente possibili, per quella che renda la norma conforme a Costituzione (C. Cost. n. 456 del 1989). In tal senso questa Corte ne ha fatto applicazione in molteplici occasioni ( ex multis Cass. 17 luglio 2015, n. 15083; Cass. 17 gennaio 2020, n. 823) sulla scorta dell’ormai risalente insegnamento, secondo cui ‘le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali (e qualche giudice ritenga di darne), ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali’ (C. Cost. 22 ottobre 1996, n. 356).
10.- Ad avviso di questa Corte, tuttavia, l’interpretazione offerta dai giudici d’appello, per quanto apprezzabile, non può essere confermata , in quanto l’interpretazione costituzionalmente orientata postula più soluzioni astrattamente possibili. Invece, nel caso in esame quella affermata dalla Corte territoriale non rientra fra le interpretazioni astrattamente possibili.
Vi osta il dato letterale assolutamente univoco, rappresentato dal testuale ed espresso richiamo al recesso « per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604 ».
Trattasi di un elemento testuale dal quale non è possibile prescindere (art. 12 disp.prel.c.c.), atteso il c.d. primato del criterio ermeneutico letterale che, per il suo carattere di oggettività e per il suo naturale obiettivo di ricerca del senso normativo maggiormente riconoscibile e palese, rappresenta il criterio cardine nella interpretazione della legge e concorre alla definizione in termini di certezza della fattispecie regolata (Cass. sez. un. n. 23051 del 2022 in tema di fattispecie tributaria, ma con affermazioni di principio di valenza AVV_NOTAIO). D’altronde, come ha sottolineato anche parte della dottrina, non si può ‘leggere nella disposizione quello che non c’è, anche quando la Costituzione vorrebbe che vi fosse’ .
S econdo costante giurisprudenza costituzionale, «l’univoco tenore della disposizione segna il confine in presenza del quale il tentativo di interpretazione conforme deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale (sentenze n. 150 del 2022, n. 118 del 2020, n. 221 del 2019 e n. 83 del 2017)» (sentenze nn. 203 del 2022 e 44 del 2024).
Quel richiamo al giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604 non ha valenza polisemica. Il suo significato è infatti riferito da tutta la pluriennale giurisprudenza di questa Corte di legittimità al licenziamento individuale del dipendente non dirigente , in coerenza con l’art. 10 della legge 15 luglio 1966, n. 604 , interpretato dal ‘diritto vivente’ come norma che esclude i dirigenti dall’ambito applicativo del regime legale di cui alla stessa legge. Ne consegue che la nozione di ‘giustificato motivo oggettivo’ è una soltanto , postula la natura non dirigenziale del rapporto di lavoro in cui è intervenuto il licenziamento e pertanto non si presta ad un’interpretazione estensiva.
Dunque la funzione e gli effetti di quel testuale richiamo (compiuto dal legislatore nella norma emergenziale) non si limitano -come invece ritenuto dai giudici d’appello -all’identificazione della natura della ragione giustificatrice del recesso individuale , ma si estendono all’individuazione delle categorie (legali) di dipendenti ai quali quella ragione è riferibile nel regime giuridico legale del loro rapporto di lavoro. E fra tali categorie non vi è quella dei dirigenti.
11.L’ulteriore conseguenza è che, per i licenziamenti individuali di questi ultimi, la legislazione dell’emergenza pandemica presenta una vera e propria lacuna normativa, che tuttavia non è possibile colmare mediante l’applicazione analogica.
Va infatti considerato che il c.d. blocco dei licenziamenti rappresenta un’eccezione sia pure temporanea -ai normali poteri datoriali (art. 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604; art. 2118 c.c.), che trovano il loro fondamento e la loro giustificazione nel c.d. rischio di impresa e, in ultima analisi, nell’art. 41 co. 1 Cost.
Ne consegue che è inammissibile l’applicazione analogica, espressamente vietata per le norme eccezionali dall’art. 14 disp.prel.c.c.
12.- Nondimeno, è da considerare che ai fini del divieto temporaneo dei licenziamenti non sussiste alcuna diversità fra licenziamento collettivo e quello individuale (fattispecie che mostrano, come evidenziato da Corte Cost. n. 7 del 2024, un simmetria tra loro), dal momento che la differente procedura non ha alcun rilievo rispetto ad una norma eccezionale, emanata per fronteggiare un momento di straordinaria crisi sociale ed economica causata da un fattore del tutto imprevedibile come la pandemia da COVID-19. La ratio di ordine pubblico è agevolmente individuale nell’esigenza di evitare in via provvisoria che le generalizzate conseguenze economiche della pandemia si traducessero nella soppressione immediata di posti di lavoro, con immediata perdita della capacità reddituale dei dipendenti ed impossibilità di reimpiego.
Alla luce di questa ratio del divieto di licenziamento, comune a tutte le sue forme, sia esso collettivo o individuale, va allora valutata la ragionevolezza di una vera e propria asimmetria di tutela: mentre per i dipendenti non dirigenti la tutela è ‘globale’, in quanto il diviet o investe sia i licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo, sia quelli collettivi, per i dipendenti dirigenti la tutela è soltanto parziale, in quanto il divieto investe solo i licenziamenti collettivi.
Questa Corte dubita della ragionevolezza di tale asimmetria e, dunque, ritiene che la norma violi l’art. 3 Cost. in considerazione de ll’eccezionalità della situazione determinata dal rapido diffondersi dalla pandemia da COVID-19,
che ha creato un’inedita condizione di grave pericolo per la salute pubblica, costituendo essa «un’emergenza sanitaria dai tratti del tutto peculiari» (sentenza n. 198 del 2021). Come già sottolineato dalla Corte Costituzionale, per effetto delle misure di contenimento della pandemia, nel periodo dell’emergenza sanitaria vi è stato l’arresto di fatto di numerose attività economiche con conseguente difficoltà di ampi strati della popolazione, per fronteggiare le quali è stata posta in essere un’ampia e reite rata normativa dell’emergenza con l’impiego di consistenti risorse economiche nella logica della solidarietà collettiva (sentenza n. 213 del 2021).
13.- Va premesso che la discrezionalità del legislatore è, per definizione libera e, pertanto, insindacabile a condizione che la scelta normativa operata non sia manifestamente irragionevole, ovvero, che la norma sia adeguata e congruente rispetto alla finalità perseguita dal legislatore medesimo.
Nel caso di specie tale condizione non sembra sussistere.
secondo cui il divieto di licenziamento si accompagnerebbe indissolubilmente al costo del lavoro a carico della collettività mediante la cassa integrazione guadagni straordinaria, non applicabile ai dirigenti. Questo asserito binomio ‘divieto di licenziamento / costo del lavoro a carico della collettività’ è smentito dal legislatore, che, con l’art. 46 del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18, ha vietato e/o ‘bloccato’ temporaneamente il licenziamento collettivo che può riguardare anche i dirigenti. In tal ca so è dunque da riconoscere l’operatività del c.d. blocco senza possibilità di ricorrere alla cassa integrazione guadagni straordinaria, sicché il costo del dirigente o dei dirigenti -altrimenti licenziabili -finisce per restare a carico del datore di lavoro.
In corrispondenza con questo ‘sacrificio’ imposto ai datori di lavoro il legislatore ha riconosciuto una pluralità di misure economiche (introduzione di una fattispecie tipizzata di cassa integrazione guadagni: artt. 19 e 22 quinquies del decreto legge 17 marzo 2020, n. 18 (convertito con modificazioni dalla legge 24 aprile 2020, n. 27); sospensione temporanea di oneri fiscali e previdenziali: decreto legge 17 marzo 2020, n. 18 (convertito con modificazioni dalla legge 24 aprile 2020, n. 27); contributi a fondo perduto: decreto legge 28 ottobre 2020, n. 137 (convertito con modificazioni dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176) e successivi ‘decreti ristori’ ; credito d’imposta su locazione di immobili ad uso non abitativo: art. 28 del decreto legge 19 maggio 2020, n. 34 ‘decreto rilancio’ conv ertito con modificazioni dalla legge 17 luglio 2020, n. 77) che presuppongono tutte -sul piano logico e giuridico -la portata generalizzata del c.d. blocco dei licenziamenti collettivi e individuali per ragioni oggettive, a prescindere dalla categoria legale di inquadramento dei dipendenti altrimenti licenziabili.
Ne consegue che a fronte di questo bilanciamento si presenta del tutto eclettica la scelta del legislatore di escludere dal divieto i licenziamenti individuali per ragioni oggettive del dirigente.
L’irragionevolezza di questa scelta si manifesta in modo ancora più evidente, laddove si consideri che il ‘sacrificio’ a carico dei datori di lavoro si presenta certamente più gravoso in presenza di un possibile licenziamento collettivo, sia perché questo coinvolgerebbe per definizione più dipendenti, sia perché gli oneri datoriali in tal caso sarebbero soltanto di tipo procedurale. Ne consegue che, nei confronti del datore di lavoro, il sacrificio ‘più grave’ (ossia
il c.d. blocco del licenziamento collettivo, che altrimenti può coinvolgere anche dirigenti) viene disposto ed invece viene escluso quello ‘meno grave’ (ossia il c.d. blocco del licenziamento individuale per ragioni oggettive del singolo dirigente). Questa scelta è irragionevole, perché ‘nel più sta il meno’: se nel bilanciamento dei contrapposti interessi il legislatore ha ritenuto di poter sacrificare (per un tempo determinato) la facoltà di recesso collettivo del datore di lavoro anche nei confronti dei dirigenti, a maggior ragione avrebbe potuto (e quindi dovuto) sacrificare quella di recesso individuale. In definitiva, se -nell’ottica del bilanciamento il complesso delle misure di sostegno economico alle imprese è stato ritenuto dal legislatore idoneo a ‘compensare’ il sacrificio rappresentato dal blocco dei licenziamenti collettivi, anche dei dirigenti, a maggior ragione quelle stesse misure di sostegno sono da considerare ampiamente (e ancor di più) idonee a compensare il minor sacrificio del blocco dei licenziamenti individuali per ragioni oggettive dei dirigenti.
L’omessa previsione di questo sacrificio ‘minore’ , da un lato, e l’impossibilità di interpretare la norma in discorso (art. 46 del d.l. 17 marzo 2020, n. 18 convertito con modificazioni dalla legge 24 aprile 2020, n. 27) in modo da ricomprendere nel blocco anche il licenziamento individuale del singolo dirigente intimato per ragioni oggettive, impongono a questa Corte di sollevare rispetto a detta norma la questione di legittimità costituzionale per contrasto con l’art. 3 Cost.: in nessun modo l’omessa prev isione denunziata si presta ad essere giustificata sul piano costituzionale, né -come s’è detto -è risolvibile mediante il canone dell’interpretazione costituzionalmente orientata o adeguatrice, ostandovi il tenore letterale. Dunque, non resta che prendere atto della irragionevolezza della scelta legislativa di bloccare, rispetto ai dirigenti, i soli licenziamenti collettivi e non anche quelli individuali dovuti a ragioni oggettive.
15.- Alla luce delle considerazioni svolte e del principio metodologico ribadito dalla Corte Costituzionale n. 42/2017 (secondo cui ‘… A fronte di adeguata motivazione circa l’impedimento ad un’interpretazione costituzionalmente compatibile, dovuto specificamente al «tenore letterale della disposizione», questa Corte ha già avuto modo di affermare che «la possibilità di un’ulteriore inter pretazione alternativa, che il giudice a quo non ha ritenuto di fare propria, non riveste alcun significativo rilievo ai fini del rispetto delle regole del processo costituzionale, in quanto la verifica dell’esistenza e della legittimità di tale ulteriore interpretazione è questione che attiene al merito della controversia, e non alla sua ammissibilità» (sentenza n. 221 del 2015 … sentenze nn. 95 e 45 del 2016, n. 262 del 2015; nonché, nel medesimo senso, sentenza n. 204 del 2016 ) … ‘) , la questione della illegittimità costituzionale dell’art. 46 nella parte in cui non prevede il divieto di licenziamento del dirigente per ragioni oggettive, oltre ad essere rilevante ai fini della decisione dei primi due motivi del ricorso per cassazione proposto dalla datrice di lavoro del dirigente (tutti incentrati sull’inapplicabilità del blocco dei licenziamenti a quelli individuali di dirigenti intimati per ragioni oggettive), si presenta non manifestamente infondata in relazione all’art. 3 Cost., parametro che da lungo tempo la giurisprudenza della Corte costituzionale ritiene coinvolto ogni qual volta la norma di legge si presenti irragionevole, ossia non adeguata o congruente rispetto alla finalità perseguita dal legislatore.
P.Q.M.
La Corte, visto l’art. 23 della legge n. 83/1957,
dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 46 del d.l. 17 marzo 2020, n. 18 (convertito con modificazioni dalla legge 24 aprile 2020, n. 27) per contrasto con l’art. 3 Cost.;
dispone l’immediata trasmissione di tutti gli atti di causa alla Corte Costituzionale;
sospende il giudizio in corso;
dispone che a cura della cancelleria la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa ed al Presidente del Consiglio dei Ministri, nonché comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione lavoro, in data