Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 20490 Anno 2025
Civile Sent. Sez. L Num. 20490 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data pubblicazione: 21/07/2025
SENTENZA
sul ricorso 25393/2021 proposto da:
GENERALE DELLO STATO;
PUBBLICO IMPIEGO -DIVIETO DI REFORMATIO IN PEIUS PROGRESSIONE VERTICALE
–
dall’AVVOCATURA
-ricorrente-
-controricorrenti-
avverso la sentenza n. 870/2021 della Corte d’Appello di Roma, pubblicata in data 30.3.2021, N.R.G. 1860/2019; udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 21.02.2025 dal Consigliere Dott.ssa NOME COGNOME udito il P .M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. NOME
COGNOME che ha concluso per l’accoglimento del ricorso;
udito l’Avvocato COGNOME NOMECOGNOME
FATTI DI CAUSA
Il Tribunale di Roma ha rigettato le domande proposte da NOME COGNOME e NOME COGNOME volte ad ottenere l’accertamento del loro diritto alla corresponsione dell’assegno ad personam di cui all’art. 24, comma 3, del CCNL del Comparto PCM del 17.5.2004 con decorrenza dal 25.2.2015, nonché la condanna della Presidenza del Consiglio dei Ministri al pagamento delle somme corrispondenti.
Le ricorrenti, dipendenti della Presidenza del Consiglio dei Ministri, avevano superato un concorso per il passaggio dalla categoria B alla categoria A, parametro F1, ed avevano chiesto il pagamento dell’assegno ad personam pari alla differenza tra quanto percepito nella categoria B, parametro F8 per la COGNOME e F7 per la Chiabodo, ed il nuovo inferiore stipendio tabellare.
Tale assegno era inizialmente previsto nei contratti individuali stipulati nel 2010, risolti per effetto della vittoriosa impugnativa della graduatoria di concorso, mentre non figurava nei nuovi contratti sottoscritti dopo la riformulazione della graduatoria in ottemperanza al dettato giudiziale, in quanto la Presidenza aveva ritenuto che fosse incompatibile con l’abrogazione, intervenuta medio tempore , dell’art. 3, comma 57, della legge n. 537/1993.
La Corte di Appello di Roma, in accoglimento del gravame proposto avverso tale sentenza da NOME COGNOME e NOME COGNOME ha dichiarato il loro diritto alla corresponsione, dal 25.2.2015 fino ad intervenuto riassorbimento, dell’assegno personale riassorbibile di cui all’art. 24, comma 3, del CCNL del Comparto PCM del 17.5.2004 ed ha condannato la Presidenza del Consiglio dei Ministri al pagamento degli importi dovuti alle medesime a tale titolo.
Ricostruito il quadro normativo di riferimento, la Corte territoriale ha evidenziato la riserva di competenza a favore dell’autonomia negoziale collettiva prevista dall’art. 45 del d.lgs. n. 165/2001 ed ha osservato che secondo la sentenza n. 189/2007 della Corte costituzionale, la disciplina per contratto collettivo del trattamento economico dei dipendenti pubblici costituisce uno dei principi fondamentali del nuovo regime del rapporto di impiego pubblico, come tale vincolante anche per la legislazione regionale.
Il giudice di appello ha rammentato che il legislatore è intervenuto in modo incisivo sul trattamento economico dei dipendenti pubblici ed ha esemplificato in tal senso, evidenziando che le norme che limitano o derogano alla riserva di contrattazione collettiva sono di stretta interpretazione e vanno interpretate restrittivamente.
Alla stregua di tali considerazioni ha precisato che l’art. 1, comma 458, della legge n. 147/2013 ha abrogato solo le disposizioni indicate dallo stesso comma; ha invece escluso che siano divenute inefficaci con effetto immediato disposizioni di matrice collettiva aventi natura e ratio divergenti rispetto a quella degli assegni personali oggetto di abrogazione.
Ha ritenuto che l’assegno di cui all’art. 24, comma 3, del CCNL del Comparto PCM del 17.5.2004 non possa identificarsi con quello previsto dall’art. 202 del DPR n. 3/1957, come ridisciplinato dall’art. 3, commi 57 e 58, della legge n. 537/1993 in quanto, a differenza degli assegni oggetto di abrogazione, ha la sua specifica ratio nell’esigenza di porre rimedio ad una oggettiva e peculiare incongruenza fra le tabelle stipendiali (che prevedono la percezione di stipendi tabellari più alti, da parte dei lavoratori inquadrati nelle fasce più alte di ciascuna categoria inferiore, rispetto a quelli inquadrati nelle fasce iniziali delle categorie superiori), al fine di incentivare i dipendenti a sottoporsi alle selezioni per il passaggio all’area superiore.
Ha richiamato Cass. n. 15371/2019, che nella disamina di una diversa fattispecie, ha affermato il principio secondo cui la regola della non riassorbibilità si applica esclusivamente ai passaggi di carriera previsti dall’art. 202 del DPR n. 3/1957 e non al trasferimento da un’Amministrazione all’altra, presupponendo i
primi un provvedimento di trasferimento ed essendo il secondo riconducibile alla cessione del contratto di cui all’art. 1406 ss. cod. civ.
Ha inoltre evidenziato che secondo il precedente della Corte dei conti lombarda riportato dalla Presidenza, in caso di passaggio di carriera per i rapporti in essere, restano ferme le norme previste dalla contrattazione collettiva vigenti sino alla nuova tornata contrattuale, con la conseguenza che il più favorevole art. 24, comma 3, del CCNL avrebbe dovuto continuare ad applicarsi sino alla sua modifica con il nuovo contratto collettivo, per cui solo in quella sede avrebbe potuto essere esaminato il profilo del contrasto con i principi emergenti dalla nuova disciplina statale; ha ritenuto solo apparente il contrasto tra tale decisione e la pronuncia della sezione ligure n. 52/2014 in atti, secondo cui ‘le amministrazioni interessate adeguano i trattamenti dalla prima mensilità successiva alla entrata in vigore’.
Ha, poi, disatteso l’argomento della Presidenza del Consiglio dei Ministri secondo cui l’istituto dell’assegno ad personam era stato ripristinato ad altri fini con DPCM, in quanto venendo in rilievo la deroga ad un divieto di legge, sarebbe stata necessaria una fonte normativa di pari grado.
Avverso tale sentenza la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha proposto ricorso per cassazione sulla base di un unico motivo.
NOME COGNOME e NOME COGNOME hanno resistito con controricorso.
La causa, avviata alla trattazione camerale, con ordinanza interlocutoria n. 7032/2025 è stata rinviata a nuovo ruolo per la successiva fissazione in pubblica udienza, in ragione della rilevanza nomofilattica della questione posta dal ricorso.
La Procura Generale ha depositato conclusioni scritte, ulteriormente illustrate nel corso della discussione orale, ed ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con un unico motivo, formulato ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., il ricorso denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2 del d.lgs. n. 165/2001, ratione temporis vigente, e dell’art. 1, commi 458 e 459 della legge n. 147/2013 (Legge di Stabilità 2014), in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3 cod. proc. civ.
Addebita alla Corte territoriale di non avere fatto applicazione della Legge di Stabilità del 2014, che aveva espressamente abrogato gli assegni ad personam, ancorché fosse prevalente ratione temporis sul CCNL di categoria.
Considerata la pacifica sottoscrizione dei contratti di lavoro da parte delle originarie ricorrenti in data 25.2.2015 a seguito della pubblicazione della graduatoria finale e della rideterminazione del trattamento retributivo da ero are alle medesime con i provvedimenti del 31.7.2015, sostiene che la disciplina applicabile ratione temporis è quella prevista dal d.lgs. n. 165/2001 prima delle modifiche disposte dal d.lgs. n. 75/2017.
Evidenzia che l’art. 2 d.lgs. n. 165/2001, come modificato dal d.lgs. n. 150/2009, aveva stabilito il primato della legge sui contratti collettivi del pubblico impiego, aveva imposto alla contrattazione precisi limiti entro cui poter operare ed aveva sanzionato con la nullità le disposizioni contrattali in contrasto con le norme imperative e con i limiti in essa fissati.
Sostiene che le norme che prevedevano il riconoscimento dell’emolumento rivendicato dalle lavoratrici erano state abrogate e che non vi era spazio per l’applicazione della fonte pattizia.
Argomenta che l’art. 202 del DPR n. 3/1957 e l’art. 3, commi 57 e 58, della legge n. 537/1993, abrogati dall’art. 1, commi 458 e 459, della legge n. 147/2013 hanno la stessa ratio prevista dal CCNL del 2004, ravvisabile nella previsione di un meccanismo perequativo mediante l’applicazione del principio generale della ‘intangibilità del maturato economico’ ovvero del divieto di reformatio in pejus del trattamento retributivo.
Aggiunge che l’abrogazione dell’istituto disposta con l’art. 1, commi 458 e 459, della legge n. 147/2013 aveva posto fine ad un privilegio economico di cui
avevano potuto godere coloro che, nel passaggio a nuovi incarichi o ruoli, avevano mantenuto un trattamento non corrispondente alle mansioni derivanti dalla nuova posizione, in un’ottica di revisione della spesa pubblica e allo scopo di garantire il principio di corrispettività nel pubblico impiego.
Il ricorso supera il vaglio di ammissibilità, in quanto è volto a censurare la statuizione della Corte territoriale secondo cui l’assegno previsto dall’art. 24 CCNL PCM non è riconducibile a quello disciplinato all’art. 202 del DPR n. 3/1957, avente natura e ratio divergente; sostiene infatti che le norme oggetto di abrogazione rispondevano alla medesima ratio prevista dal CCNL del 2004.
Il ricorso è infondato.
L’art. 24 del CCNL PCM 2004 stabilisce: ‘ 3.Nel caso di passaggio tra le aree, al dipendente viene attribuito il trattamento economico iniziale previsto per il profilo di assunzione, conseguito attraverso la selezione, ai sensi dell’art. 21, comma 4 (accesso all’esterno). Qualora il trattamento economico in godimento, corrispondente alla fascia retributiva di appartenenza, risulti superiore all’iniziale, il dipendente conserva il trattamento più favorevole, mediante assegno ad personam, che, solo limitatamente a tale parte, continua a gravare sul fondo ed è riassorbibile con l’acquisizione delle successive fasce retributive nel profilo di nuovo inquadramento ‘.
L’art. 202 del dPR n. 3/1957 prevedeva: ‘ Nel caso di passaggio di carriera presso la stessa o diversa amministrazione agli impiegati con stipendio superiore a quello spettante nella nuova qualifica è attribuito un assegno personale, utile a pensione, pari alla differenza fra lo stipendio già goduto ed il nuovo, salvo il riassorbimento nei successivi aumenti di stipendio per la progressione di carriera anche se semplicemente economica ‘; tale norma aveva poi trovato completamento, per i dipendenti statali, nell’art. 3, comma 57, della legge n. 537/1993, secondo cui: ” Nei casi di passaggio di carriera di cui all’articolo 202 del citato testo unico approvato con decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, ed alle altre analoghe disposizioni, al personale con stipendio o retribuzione pensionabile superiore a quello spettante nella nuova posizione è attribuito un assegno personale pensionabile, non riassorbibile e non rivalutabile, pari alla differenza fra lo stipendio o retribuzione pensionabile in
godimento all’atto del passaggio e quello spettante nella nuova posizione ” e nel comma 58, secondo cui: ” L’assegno pensionabile di cui al comma 57 non è cumulabile con indennità fisse e continuative, anche se non pensionabili, spettanti nella nuova posizione, salvo che per la parte eventualmente eccedente “.
L’art. 1, commi 458 e 459, della legge n. 147/2013 stabilisce: ‘ 458. L’articolo 202 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 10 gennaio 1957, n. 3, e l’articolo 3, commi 57 e 58, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, sono abrogati. Ai pubblici dipendenti che abbiano ricoperto ruoli o incarichi, dopo che siano cessati dal ruolo o dall’incarico, è sempre corrisposto un trattamento pari a quello attribuito al collega di pari anzianità. 459. Le amministrazioni interessate adeguano i trattamenti giuridici ed economici, a partire dalla prima mensilità successiva alla data di entrata in vigore della presente legge, in attuazione di quanto disposto dal comma 458, secondo periodo, del presente articolo e dall’articolo 8, comma 5, della legge 19 ottobre 1999, n. 370, come modificato dall’articolo 5, comma 10-ter, del decreto legge 6 luglio 2012, n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 135 ‘.
4. Come evidenziato dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 9/2022, l’art. 202 era una norma di carattere generale sul trattamento economico del dipendente pubblico in caso di “passaggio di carriera”: era prevista la conservazione del trattamento economico (più favorevole) in godimento nella precedente posizione mediante corresponsione di assegno ad personam (pari alla differenza tra lo stipendio già goduto e il nuovo stipendio), pensionabile e riassorbibile; la norma vietata, dunque, la reformatio in pejus del trattamento economico in caso di passaggio di carriera: il mutamento di carriera non doveva in alcun modo risolversi in una regressione nel trattamento economico (cfr. anche Cons. Stato, sez. VI, 15 febbraio 2022, n. 1093; VI, 7 febbraio 2018, n. 776; V, 12 febbraio 2013, n. 808; VI, 4 luglio 2011, n. 3961; IV, 29 febbraio 2008, n. 779; IV, 26 gennaio 2007, n. 289).
La disposizione era chiaramente ispirata alla volontà di favorire processi di mobilità all’interno della stessa amministrazione o tra amministrazioni diverse; in sua assenza, la mobilità sarebbe stata disincentivante, per la prospettiva di
transitare in altro ruolo ed ivi subire un decremento retributivo (cfr. Cass. civ., sez. lav., 19 novembre 2019, n. 30071); i precedenti articoli 200 e 201 del testo unico definivano le modalità del passaggio di carriera.
La medesima pronuncia ha rilevato che l’art. 1, comma 458, della legge n. 147/2013 si compone di due distinte norme; la prima abroga espressamente l’art. 202 d.P.R. n. 3 del 1957, unitamente all’art. 3, commi 57 e 58 l. n. 537 del 1993, che avevano completato la disciplina dei c.d. passaggi di carriera, mentre la seconda fissa la regola per la quale alla cessazione dell’incarico ricoperto (o del diverso ruolo assunto) al dipendente pubblico che rientri (nei ruoli) nell’amministrazione di provenienza spetta un trattamento pari quello del collega con pari anzianità.
Nel nuovo assetto dell’impiego pubblico contrattualizzato, la progressione verticale non comporta un passaggio di ruolo in senso proprio (la disciplina dettata dal d.P.R. teneva conto della previsione generale dettata dall’art. 1 dello stesso decreto che distingueva le carriere in direttive, di concetto, esecutive ed ausiliarie e all’interno delle stesse prevedeva le diverse qualifiche) ma solo un cambio di area di inquadramento, ed è disciplinato dalla contrattazione collettiva, alla quale il legislatore ha riservato la determinazione del trattamento retributivo (art. 45 d.lgs. n. 165/2001) oltre che la disciplina degli inquadramenti (artt. 40 e 52 d.lgs. 165/2001, sia pure con i diversi limiti fissati dalla normativa succedutesi nel tempo).
L’assegno ad personam previsto dall’art. 24 del CCNL PCM 2004 è stato determinato nell’ambito della riserva contenuta nell’art. 45 del d.lgs. n. 165/2001 in ragione delle dinamiche retributive del comparto di appartenenza (nel quale per le fasce più alte di ciascuna categoria sono previsti stipendi tabellari più elevati rispetto alle fasce iniziali delle categorie superiori) e non è dunque regolato dalla norma abrogata.
L’Adunanza Plenaria ha inoltre evidenziato che il legislatore, con la norma contenuta nella seconda parte del citato comma 458, ha fissato una regola unitaria per quella particolare vicenda del rapporto di pubblico impiego rappresentata dal rientro nei ruoli di provenienza in seguito alla cessazione dell’incarico (o del ruolo) al quale il dipendente sia stato eletto o nominato,
disponendo l’equivalenza del trattamento dovuto a quello attribuito al collega di pari anzianità.
Ha dunque chiarito che tale disposizione è connotata da una evidente portata di uniformazione delle diversificate previgenti discipline ed ha introdotto una sola regola che vale a disciplinare tale particolare e specifica vicenda del rapporto di pubblico impiego; fermo l’effetto abrogativo dell’art. 202 dPR n. 3/1957 da parte della prima disposizione contenuta nel comma 458, la seconda parte di tale norma si riferisce al rientro in ruolo o alla cessazione dell’incarico, e fa dunque riferimento a soggetti che avevano ricoperto un incarico esterno.
Si tratta di un’interpretazione che il Collegio condivide e fa propria. La seconda disposizione contenuta nella suddetta norma non riguarda, pertanto, le progressioni verticali, né si presta ad essere estesa alle medesime, in quanto non menziona la contrattazione collettiva e non ne prevede la disapplicazione (a differenza di altre fattispecie in cui il legislatore ha espressamente previsto l’inefficacia sopravvenuta della contrattazione), né stabilisce la perdita di efficacia del trattamento previsto dalla contrattazione collettiva.
La sentenza impugnata ha dunque correttamente escluso che l’abrogazione del divieto di reformatio in peius contenuta nell’art. 1, commi 458 e 459, della legge n. 147/2013 abbia riguardato anche il trattamento previsto dall’art. 24 del CCNL PCM 2004.
Il ricorso va pertanto rigettato.
La novità delle questioni trattate giustifica la compensazione delle spese del giudizio di legittimità.
Non sussistono le condizioni di cui all’art. 13 c. 1 quater d.P.R. n. 115 del 2002 perché la norma non può trovare applicazione nei confronti di quelle parti che, come le Amministrazioni dello Stato, mediante il meccanismo della prenotazione a debito siano istituzionalmente esonerate, per valutazione normativa della loro qualità soggettiva, dal materiale versamento del contributo (Cass. S.U. n. 9938/2014; Cass. n. 1778/2016; Cass. n. 28250/2017).
P. Q. M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Lavoro della Corte