Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 24898 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 24898 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 09/09/2025
ORDINANZA
sul ricorso 2689-2024 proposto da:
COGNOME NOME COGNOME NOME COGNOME COGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOME COGNOME COGNOME NOMECOGNOME NOMECOGNOME COGNOME tutti rappresentati e difesi dall’avvocato COGNOME
– ricorrenti –
contro
RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE (già RAGIONE_SOCIALE, società con socio unico, soggetta all’attività di direzione e coordinamento di RAGIONE_SOCIALE in persona del
Oggetto
Altre ipotesi rapporto privato
R.G.N.2689/2024
COGNOME
Rep.
Ud 21/05/2025
CC
legale rappresentante pro tempore, rappresentate e difese dagli avvocati COGNOME NOME COGNOME;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 1336/2023 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 17/07/2023 R.G.N. 616/2022; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21/05/2025 dal Consigliere Dott. COGNOME
Fatti di causa
La Corte di Appello di Bari ha confermato nei confronti degli odierni ricorrenti la decisione di primo grado con cui era stato respinto il ricorso proposto dai pensionati, o loro eredi, di cui in epigrafe, già dipendenti del Gruppo RAGIONE_SOCIALE, volto ad ottenere nei confronti di RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE (già RAGIONE_SOCIALE) ed RAGIONE_SOCIALE, l’accertamento del diritto di continuare a fruire, pur dopo la disdetta intimata da RAGIONE_SOCIALE, delle riduzioni tariffarie sulla fornitura di energia elettrica sulla scorta della disciplina collettiva vigente in costanza di rapporto di lavoro.
Per la cassazione di tale sentenza hanno proposto ricorso i soccombenti di prime cure, in epigrafe indicati, sulla base di due motivi.
RAGIONE_SOCIALE, RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE (già RAGIONE_SOCIALE) ed RAGIONE_SOCIALE, hanno resistito con unico controricorso.
La Consigliera delegata ha, con atto del 1° luglio 2024, ha formulato proposta di definizione del giudizio ai sensi dell’art. 380- bis c.p.c.
I ricorrenti hanno chiesto la decisione del ricorso.
Le parti hanno depositato memoria.
Il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza nei termini di legge ex art. 380 bis 1 cpc.
Ragioni della decisione
I motivi possono essere così sintetizzati.
Con il primo motivo di ricorso si eccepisce la violazione dell’art. 132 cpc, degli artt. 101 e 112 cpc, rappresentando che la Corte territoriale, anteponendo il principio della libera recedibilità dal contratto, non solo non aveva valutato la natura obiettiva della voce, che se retributiva avrebbe presidiato il diritto quesito, ma aveva anche omesso di motivare dalle ragioni giuridiche per le quali aveva ritenuto di discostarsi da precedenti di legittimità ritenuti conformi alle posizioni di essi ricorrenti.
Con il secondo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1366 e 1375 cod. civ. e 3 Cost. evidenziando che, quand’anche si fosse voluto accedere alle generali condizioni economico-sociali che avrebbero potuto giustificare il recesso datoriale (appunto epocale, per esaurimento della funzione economicosociale dell’Accordo), il recesso non venne esercitato in occasione dell’accordo del 23.4.1996, allorché si decise di sopprimere la riduzione tariffaria a partire solo dalle nuove assunzioni (dall’1.8.1996), nei confronti di chi prestava già servizio alle dipendenze dell’Enel (per costoro il CCNL del 23.4.1996 aveva rispettato il ‘diritto quesito’), ragione ulteriore per la quale l’impugnato recesso è contrario a correttezza e buona fede.
I motivi, esaminati congiuntamente per connessione, devono essere respinti e si richiamano i numerosi precedenti di questa Corte, già menzionati nella proposta di definizione
anticipata, da cui non si ritiene discostarsi in mancanza di valide argomentazioni che ne impongano una rivisitazione.
Nel merito, il ricorso non può trovare accoglimento in ragione delle motivazioni già espresse da questa Corte nella medesima vicenda su motivi sovrapponibili a quelli articolati nel presente giudizio (cfr. Cass. n. 18924 del 2024, Cass. n. 18936 del 2024, Cass. n. 18941 del 2024, in conformità a Cass. n. 37291 del 2021; ma vedi pure, in connessione, Cass. n. 18902 e 18913 del 2024); nonostante le osservazioni contenute nella memoria dei ricorrenti, attentamente esaminate, il Collegio non riscontra elementi decisivi per mutare il richiamato orientamento (cfr. art. 360 bis, comma 1, n. 1, c.p.c.), atteso che, una volta che l’interpretazione della regula iuris è stata enunciata con l’intervento nomofilattico della Corte regolatrice, essa ‘ha anche vocazione di stabilità, innegabilmente accentuata (in una corretta prospettiva di supporto al valore delle certezze del diritto) dalle novelle del 2006 (art. 374 c.p.c.) e 2009 (art. 360 bis c.p.c., n. 1)’ (Cass. SS.UU. n. 15144 del 2011); invero, la ricorrente affermazione nel senso della non vincolatività del precedente deve essere armonizzata con l’esigenza di garantire l’uniformità dell’interpretazione giurisprudenziale attraverso il ruolo svolto dalla Corte di Cassazione (Cass. SS.UU. n. 23675 del 2014), atteso che, in un sistema che valorizza l’affidabilità e la prevedibilità delle decisioni, il quale influisce positivamente anche sulla riduzione del contenzioso, vi è l’esigenza, avvertita anche dalla dottrina, ‘dell’osservanza dei precedenti e nell’ammettere mutamenti giurisprudenziali di orientamenti consolidati solo se giustificati da gravi ragioni’ (in termini: Cass. SS.UU. n. 11747 del 2019; conf. Cass. n. 2663 del
2022), nella specie non ravvisabili, tenuto altresì conto della primaria necessità di garantire – ai cittadini che si rivolgano al giudice per tutelare analoghe situazioni soggettive -delle condizioni di effettiva eguaglianza innanzi alla legge; ne consegue che, in mancanza di ragioni nuove e diverse da quelle disattese nei giudizi analoghi (non presenti nel caso in esame), deve operare il principio di fedeltà ai precedenti, ‘ispirato dall’esigenza di tenuta (per quanto possibile) del sistema giurisprudenziale del giudice della nomofilachìa che deve favorire la ‘stabilizzazione’ dei principi giuridici che incidono soprattutto su questioni di rilevanza ed applicazione diffuse’ (da ultimo v. Cass. SSUU n. 8486 del 2024, che richiama appunto Cass. SS.UU. n. 23675/2014 cit.); ne consegue che il Collegio non ravvisa neanche le condizioni per rimettere la trattazione del ricorso alla pubblica udienza, atteso che la valutazione degli estremi per la trattazione ex art. 375 c.p.c., e, specificamente, della particolare rilevanza della questione di diritto coinvolta, rientra nella discrezionalità del collegio giudicante (Cass. n. 5533 del 2017; Cass. n. 26480 del 2020); pertanto, deve essere confermato e ribadito quanto segue.
Per ragioni di ordine logico-giuridico devono essere esaminate con priorità le censure che denunziano apparenza di motivazione.
In relazione ad esse, occorre premettere che la motivazione meramente apparente – che la giurisprudenza parifica, quanto alle conseguenze giuridiche, alla motivazione in tutto o in parte mancante -sussiste allorquando pur non mancando un testo della motivazione in senso materiale, lo stesso non contenga una effettiva esposizione delle ragioni alla base della decisione, nel senso che le argomentazioni
sviluppate non consentono di ricostruire il percorso logico giuridico destinato a sorreggere il decisum (Cass. n. 9105/2017, Cass. Sez. Un. n. 22232/2016, Cass. n. 20112/2009) rimettendo all’interprete, come non consentito (Cass. n. 22232/2016 cit.), il compito di integrare la motivazione con le più varie, ipotetiche congetture; le carenze motivazionali denunziate dai ricorrenti non consentono, già in astratto, di configurare un’ apparenza di motivazione nel senso sopra precisato in quanto le ragioni esposte dal giudice di appello consentono di ricostruire in maniera lineare i presupposti fattuali e giuridici della conferma del rigetto della pretesa azionata; invero, la Corte di merito, all’esito di una ricognizione delle fonti collettive, della quale dà espressamente atto ha ritenuto di escludere la natura retributiva del beneficio in oggetto e la configurabilità di esso quale diritto quesito; in coerenza con tale ricostruzione ha affermato che il diritto allo sconto tariffario ben poteva essere inciso dalla unilaterale disdetta datoriale intervenuta nel corso dell’anno 2015.
In relazione, poi, alle altre censure articolate, il Collegio, premesso che, a differenza di quanto sostenuto dagli odierni ricorrenti, la decisione gravata è frutto della ricostruzione storica della vicenda dell’agevolazione tariffaria nella contrattazione collettiva, ritiene che le conclusioni attinte dalla Corte di merito siano da condividere in continuità con la consolidata giurisprudenza di questa Corte, che si richiama anche ai sensi dell’art. 118 disp. att. cod. proc. civ., la quale, nello scrutinare le medesime questioni poste dai motivi in esame, ha confermato la infondatezza della pretesa degli ex dipendenti alla conservazione del beneficio delle agevolazioni tariffarie sui consumi dell’energia elettrica, dopo la disdetta
dell’ottobre 2015 da parte del Gruppo RAGIONE_SOCIALE (Cass. nn. 1281, 1289, 1296, 1309, 1596, 1597, 9513 del 2023).
Invero, dagli atti di causa risulta che, da un punto di vista storico, l’agevolazione tariffaria sull’energia elettrica venne introdotta per la prima volta nel contratto collettivo post corporativo a favore dei dipendenti delle aziende elettriche private con la finalità di attribuire un beneficio alle famiglie dei dipendenti che si servivano per uso domestico della energia erogata dal proprio datore di lavoro. La misura in oggetto fu strettamente collegata all’uso familiare dell’abitazione principale del di pendente tanto che in presenza di più dipendenti ENEL componenti del medesimo nucleo familiare, l’agevolazione tariffaria spettava per una sola utenza e comunque entro determinati limiti; essa venne estesa agli ex dipendenti posti in quiescenza e riconosciuta anche in favore di soggetti non dipendenti quali le vedove e i vedovi dei dipendenti. Tanto premesso, in relazione alle specifiche questioni poste dai motivi in esame si osserva che è condivisibile la sentenza impugnata laddove esclude la natura retributiva del beneficio; la relativa verifica, condotta alla luce delle caratteristiche dell’istituto quale regolato dalle norme collettive induce ad escludere ogni rapporto di corrispettività tra l’agevolazione tariffaria e la prestazione del singolo lavoratore; lo sconto sui consumi di energia elettrica e la relativa misura erano previsti a prescindere dalla qualità e quantità della prestazione lavorativa resa dal singolo dipendente nonché dalla durata del pregresso rapporto e dalla posizione che il lavoratore aveva assunto in azienda; esso quindi era del tutto sganciato dal parametro di corrispettività con la prestazione lavorativa ed in quanto tale sottratto al rispetto del canone di proporzionalità e
sufficienza di cui all’art. 36 Cost. configurandosi come un beneficio che trovava origine nel complessivo regolamento del rapporto di lavoro senza essere specificamente destinato alla remunerazione della prestazione resa dal dipendente. In senso contrario a tale approdo non sono utilmente invocabili alcuni precedenti di questa Corte (Cass. n. 24268 del 2013 e Cass. n. 24533 del 2013), che hanno scrutinato fattispecie non sovrapponibili a quella in esame, in quanto nelle richiamate decisioni l’affermazione d ella natura retributiva dell’agevolazione tariffaria concessa ai lavoratori si connetteva al carattere alternativo che tale agevolazione aveva assunto rispetto al riconoscimento di un assegno ad personam non assorbibile, di pacifica natura retributiva. Nep pure può valere a sorreggere l’affermazione della natura retributiva dell’agevolazione tariffaria in oggetto la circostanza del suo inserimento nel CUD e la sua qualificazione come reddito da lavoro ai fini IRPEF (Cass. n. 586 del 2017; Cass. n. 11414 del 2015), tenuto conto delle specifiche finalità della legge tributaria per la quale ciò che rileva è che una determinata erogazione (o il suo controvalore) costituisca indice di capacità contributiva che lo renda assoggettabile a prelievo fiscale; tanto esclude che dalla qualificazione a fini fiscali dell’agevolazione tariffaria possano trarsi indicazioni destinate ad incidere sulla configurazione dell’istituto in oggetto nell’ambito del rapporto di lavoro. Analogamente, nel senso dell’irrilevanza ai fini della questione controversa, depone la circostanza dell’assoggettamento a contribuzione del beneficio ai sensi dell’art. 12 Legge n. 153/1969, atteso che il principio secondo il quale l’ammontare della retribuzione assoggettata a contribuzione assicurativa obbligatoria è sottratto
all’autonomia negoziale delle parti ed è direttamente determinato dall’art. 12 della legge 30 aprile 1969 n. 153, il quale, dopo aver incluso in esso ogni importo che il lavoratore riceva dal datore di lavoro “in dipendenza del rapporto di lavoro ” (cioè in adempimento di obbligazioni che trovano titolo nel contratto di lavoro, anche senza specifica correlazione con la prestazione lavorativa), introduce, con elencazione tassativa, una serie di eccezioni ( ex plurimis , Cass. Sez. Un. 3232 del 1985), non interferisce con la possibilità di disdettare il beneficio che trovi il suo riconoscimento nella fonte collettiva.
Alla luce delle superiori considerazioni è da escludere la configurabilità di un diritto quesito al mantenimento del beneficio. A riguardo occorre premettere che, secondo l’orientamento del giudice di legittimità, nell’ambito del rapporto di lavoro sono configurabili diritti quesiti, che non possono essere incisi dalla contrattazione collettiva in mancanza di uno specifico mandato o di una successiva ratifica da parte dei singoli lavoratori, solo con riferimento a situazioni che siano entrate a far parte del patrimonio del lavoratore subordinato, come nel caso dei corrispettivi di prestazioni già rese, e non invece in presenza di quelle situazioni future o in via di consolidamento, che sono frequenti nel contratto di lavoro, da cui scaturisce un rapporto di durata con prestazioni ad esecuzione periodica o continuativa, autonome tra loro e suscettibili come tali di essere differentemente regolate in caso di successione di contratti collettivi (Cass. n. 14944 del 2014; Cass. n 20838 del 2009). Pertanto, gli unici diritti intangibili sono quelli che sono già entrati a far parte del patrimonio del lavoratore, quale corrispettivo di una prestazione già resa o di una fase
del rapporto già eseguita, situazioni queste non configurabili in relazione alla pretesa azionata dagli odierni ricorrenti, espressione di una mera aspettativa al mantenimento nel tempo della più favorevole normativa collettiva che tale beneficio ha previs to. L’agevolazione tariffaria in questione trova, infatti, la propria fonte nelle disposizioni del contratto collettivo le quali, come ripetutamente chiarito dal giudice di legittimità, non si incorporano nel contenuto del contratto individuale dando luogo a diritti quesiti sottratti al potere dispositivo delle organizzazioni sindacali, ma operano sul singolo rapporto come fonte eterogenea di regolamento del rapporto, concorrente con la fonte individuale, con la conseguenza che, in caso di successione dei contratti collettivi, si realizza una sostituzione delle nuove clausole e le precedenti disposizioni non sono suscettibili di essere conservate secondo il criterio del trattamento più favorevole, restando la conservazione di quel trattamento affidata all’au tonomia contrattuale delle parti collettive stipulanti, le quali possono prevederla con apposita clausola di salvaguardia (Cass. n. 16043 del 2018; Cass. n. 1298 del 2000; Cass. n. 11466 del 1997; Cass. n. 11052 del 1995), volontà nello specifico non rinvenibile.
Una volta escluso il consolidarsi di un diritto quesito al mantenimento del beneficio in capo ai lavoratori per effetto delle richiamate pattuizioni collettive, il recesso di RAGIONE_SOCIALE s.p.a. risulta senz’altro consentito alla luce dell’orientamento di questa C orte, che si richiama anche ai sensi dell’art. 118 disp. att. cod. proc. civ., secondo il quale qualora il contratto collettivo non abbia un predeterminato termine di efficacia, esso non può vincolare per sempre tutte le parti contraenti, perché finirebbe in tal caso per vanificarsi la causa e la
funzione sociale della contrattazione collettiva, la cui disciplina, da sempre modellata su termini temporali non eccessivamente dilatati, deve parametrarsi su una realtà socio economica in continua evoluzione, sicché a tale contrattazione va estesa la regola, di generale applicazione nei negozi privati, secondo cui il recesso unilaterale rappresenta una causa estintiva ordinaria di qualsiasi rapporto di durata a tempo indeterminato, che risponde all’esigenza di evitare – nel rispetto dei criteri di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto – la perpetuità del vincolo obbligatorio. Ne consegue che, in caso di disdetta del contratto, i diritti dei lavoratori, derivanti dalla pregressa disciplina più favorevole, sono intangibili solo in quanto siano già entrati nel patrimonio del lavoratore quale corrispettivo di una prestazione già resa o di una fase del rapporto già esaurita, e non anche quando, come nel caso di specie, vengano in rilievo delle mere aspettative sorte alla stregua della precedente più favorevole regolamentazione (tra molte: Cass. n. 14961 del 2022; Cass n. 40409 del 2021; Cass. n. 23105 del 2019; Cass. n. 18548 del 2009; Cass. n. 19351 del 2007).
In questa prospettiva prive di pregio risultano le deduzioni articolate dagli odierni ricorrenti, in particolare con l’ultimo motivo di ricorso, deduzioni intese a denunziare la pretesa non conformità a correttezza e buona fede della disdetta datoriale; a riguardo deve ulteriormente osservarsi che essendo la relativa verifica istituzionalmente riservata al giudice di merito, parte ricorrente, non poteva limitarsi a contrapporre a quella fatta propria dalla Corte distrettuale in un contesto, peraltro, della preclusione ai sensi dell’art. 348 ter ultimo comma cod. proc. civ. determinato dalla esistenza
di una cd. ‘doppia conforme’, non avendo i ricorrenti, indicato le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse, come prescritto (Cass. n. 26774/ 2019, Cass. n. 19001/2016, Cass. n. 5528/2014).
Al rigetto del ricorso consegue il regolamento, secondo soccombenza, delle spese di lite.
Poiché il giudizio è definito in conformità della proposta, va disposta la condanna dei ricorrenti a norma dell’art. 96, comma 3 e comma 4, c.p.c.
Vale, infatti, rammentare quanto segue: in tema di procedimento per la decisione accelerata dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati, l’art. 380-bis, comma 3, c.p.c. (come novellato dal d.lgs. n. 149 del 2022) ─ che, nei casi di definizione del giudizio in conformità alla proposta, contiene una valutazione legale tipica della sussistenza dei presupposti per la condanna ai sensi del terzo e del quarto comma dell’art. 96 c.p.c. ─ codifica un’ipotesi normativa di abuso del processo, poiché il non attenersi ad una valutazione del proponente, poi confermata nella decisione definitiva, lascia presumere una responsabilità aggravata del ricorrente (Cass. Sez. U. 13 ottobre 2023, n. 28540).
In tal senso, i ricorrenti vanno condannati, nei confronti di parte controricorrente, al pagamento della somma equitativamente determinata di €. 3.600,00, oltre che al pagamento dell’ulteriore somma di € 3.600,00 in favore della Cassa delle ammende.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della
legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento delle spese di lite che liquida in euro 7.200,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge. Condanna i ricorrenti, ad eccezione di NOME COGNOME, al pagamento della somma di €. 3.600,00 in favore della parte controricorrente, e di una ulteriore somma di €. 3.600,00 in favore della Cassa delle ammende. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 21.5.2025