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Acque reflue urbane: quali limiti si applicano?

Una provincia ha sanzionato una società di gestione idrica per aver superato i limiti di scarico. La Corte di Cassazione ha respinto il ricorso della provincia, stabilendo che per le acque reflue urbane senza una comprovata componente industriale, si applicano i limiti meno restrittivi previsti per i soli scarichi domestici (Tabella 1 del D.Lgs. 152/2006) e non quelli più severi per gli scarichi misti (Tabella 3). La decisione si basa sulla natura effettiva delle acque trattate, come specificato nell’autorizzazione dell’impianto, e sulla mancata prova contraria da parte dell’ente accertatore.

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Pubblicato il 22 dicembre 2025 in Diritto Civile, Giurisprudenza Civile

Acque reflue urbane: quali limiti di scarico si applicano?

La corretta gestione delle acque reflue urbane è un pilastro della tutela ambientale. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha fornito un chiarimento fondamentale su quali limiti di emissione debbano essere rispettati dagli impianti di depurazione, risolvendo un dubbio interpretativo con importanti conseguenze pratiche per i gestori del servizio idrico e per gli enti di controllo. La questione centrale riguarda la differenza tra scarichi contenenti solo reflui domestici e quelli contenenti anche una componente industriale.

I Fatti del Caso

Una società che gestisce il servizio idrico integrato riceveva da un’Amministrazione Provinciale un’ordinanza-ingiunzione per il pagamento di una sanzione di oltre 3.000 euro. La contestazione riguardava il superamento del limite di legge per lo scarico di “azoto ammoniacale” da un impianto di depurazione comunale.

La società si opponeva alla sanzione, sostenendo che l’ente avesse applicato parametri errati. In particolare, l’Amministrazione aveva utilizzato i limiti più stringenti della Tabella 3 dell’Allegato 5 al D.Lgs. 152/2006, previsti per gli scarichi contenenti reflui industriali. Secondo la società, invece, l’impianto trattava esclusivamente acque reflue domestiche e acque meteoriche di dilavamento, per le quali si sarebbero dovuti applicare i limiti meno severi della Tabella 1.

Sia il Tribunale che la Corte d’Appello davano ragione alla società, annullando la sanzione. I giudici di merito evidenziavano che la stessa autorizzazione allo scarico dell’impianto specificava che le acque trattate erano “reflue urbane senza componente industriale”. L’Amministrazione Provinciale, insoddisfatta, ricorreva in Cassazione.

La Decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso dell’Amministrazione, confermando le decisioni dei gradi precedenti. I giudici hanno stabilito che, per determinare i limiti di scarico applicabili, non è sufficiente una presunzione generale, ma è necessario accertare la natura effettiva delle acque trattate dall’impianto.

Le motivazioni: la distinzione cruciale per le acque reflue urbane

Il cuore della decisione risiede nell’interpretazione delle definizioni normative e nella corretta attribuzione dell’onere della prova.

La natura effettiva dello scarico prevale sulla presunzione

L’Amministrazione ricorrente sosteneva che, provenendo da un “agglomerato urbano”, le acque dovessero essere presuntivamente considerate “miste” (domestiche e industriali), e che spettasse alla società provare l’assenza di reflui industriali. La Cassazione ha respinto questa tesi.

I giudici hanno chiarito che, sebbene le acque reflue urbane possano essere un miscuglio di reflui domestici e industriali, questa non è una regola assoluta. La distinzione fondamentale, ai fini sanzionatori, si basa sulla qualità effettiva delle acque immesse nel corpo idrico recettore. Nel caso specifico, l’autorizzazione rilasciata alla società descriveva l’impianto come destinato al trattamento di reflui “senza componente industriale”. Di fronte a tale dato documentale, era onere dell’Amministrazione dimostrare, e non solo presumere, la presenza di scarichi industriali. Non avendolo fatto, la sua pretesa è risultata infondata e la sanzione illegittima perché basata sull’applicazione della Tabella 3, non pertinente al caso di specie.

L’irrilevanza della normativa regionale e la gerarchia delle fonti

L’Amministrazione aveva anche invocato una direttiva regionale che, a suo dire, imponeva il rispetto della Tabella 3 per tutti gli impianti di dimensioni superiori a una certa soglia, a prescindere dalla natura dei reflui. Anche questo motivo è stato respinto. La Corte ha sottolineato che la normativa primaria nazionale (D.Lgs. 152/2006) fonda la disciplina degli scarichi sulla natura e composizione delle acque. Pertanto, una normativa regionale non può imporre limiti più restrittivi basandosi unicamente sul criterio dimensionale dell’impianto, se la legge nazionale collega quei limiti alla presenza di una componente industriale, che in questo caso non era stata provata.

Conclusioni: implicazioni pratiche della sentenza

Questa ordinanza consolida un principio di fondamentale importanza: la qualificazione delle acque reflue e, di conseguenza, i limiti di emissione da rispettare, devono basarsi su prove concrete e non su presunzioni. Per gli enti accertatori, ciò significa che, prima di contestare una violazione basata sui parametri più severi, devono essere in grado di dimostrare la presenza di scarichi industriali, specialmente se l’autorizzazione dell’impianto ne esclude la presenza. Per i gestori degli impianti di depurazione, la sentenza rappresenta una tutela contro sanzioni potenzialmente ingiuste, ribadendo che il riferimento principale resta la natura effettiva delle acque trattate e il contenuto dell’atto autorizzativo che ne regola l’attività.

Quali limiti di scarico si applicano a un impianto che tratta acque reflue urbane?
La risposta dipende dalla composizione effettiva delle acque. Se è provato che contengono anche reflui industriali, si applicano i limiti più severi della Tabella 3 (Allegato 5, D.Lgs. 152/2006). Se invece trattano solo acque reflue domestiche e meteoriche, senza una comprovata componente industriale, si applicano i limiti meno restrittivi della Tabella 1.

A chi spetta l’onere di provare la presenza di scarichi industriali nelle acque reflue urbane?
Secondo la Corte, l’onere della prova spetta all’ente che contesta la violazione e irroga la sanzione (in questo caso, l’Amministrazione Provinciale). Non è sufficiente basarsi su una presunzione legata al fatto che le acque provengono da un “agglomerato urbano”, ma è necessario fornire prove concrete della presenza di reflui industriali.

La parte completamente vittoriosa in appello può presentare un ricorso incidentale in Cassazione?
No. La Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso incidentale presentato dalla società, ribadendo il principio consolidato secondo cui tale strumento è riservato alla parte che ha perso il giudizio (soccombente). La parte interamente vittoriosa non ha interesse a proporlo, poiché non ha subito alcuna soccombenza.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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