Sentenza di Cassazione Civile Sez. L Num. 31215 Anno 2024
Civile Sent. Sez. L Num. 31215 Anno 2024
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 05/12/2024
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 3964/2023 R.G. proposto da:
NOMECOGNOME rappresentato e difeso dall’Avv. NOME COGNOME presso il quale è domiciliato come da pec registri di giustizia
– ricorrente –
contro
REGIONE AUTONOMA VALLE D’AOSTA, in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avv. NOME COGNOME e NOME COGNOME e presso lo studio di quest’ultimo in Roma, INDIRIZZO elettivamente domiciliata
– controricorrente –
– ricorrente incidentale – avverso la sentenza della Corte d’Appello di Torino n. 434/2022, depositata il 1.8.2022, RG 198/2022;
udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 1.10.2024 dal Consigliere NOME COGNOME
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. NOME COGNOME che ha concluso per l’accoglimento
del ricorso incidentale e la declaratoria di inammissibilità del ricorso incidentale;
uditi gli Avv.ti NOME COGNOME e NOME COGNOME per la controricorrente.
FATTI DI CAUSA
1.La Corte d’Appello di Torino ha confermato la sentenza del Tribunale di Aosta con la quale è stato riconosciuto legittimo il diniego, da parte della Regione Autonoma Val D’Aosta, all’ avvio ad assunzione di NOME COGNOME utilmente collocato nelle graduatorie regionali per tecnico informatico e ragioniere, in ragione della sentenza di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. per il reato di cui all’art. 3, co. 1 nn. 4 e 8 della L. 75/1958 (reclutamento di persone per l’esercizio della prostituzione; favoreggiamento/sfruttamento della prostituzione) e di altri precedenti penali.
La Corte territoriale affermava che condotte quali quelle per cui vi era stata la pronuncia penale, se idonee a configurare una causa ostativa alla prosecuzione del rapporto di lavoro, a fortiori non potevano non esserlo al momento dell’avvio del medesimo, aggiungendo che il Regolamento regionale n. 1 del 2013, che impediva l’assunzione in caso di « condanne penali … che escludono, secondo la normativa vigente, la costituzione di un rapporto di impiego con una pubblica amministrazione », era da intendere come tale da richiamare anche « l’ostatività di cui alla legge Severino » e che comunque l’art. 106 del Testo Unico delle disposizioni contrattuali economiche e normative delle categorie del comparto unico della Valle D’Aosta (di seguito TUDC), che richiamava talune condanne penali come cause di licenziamento senza preavviso, non stabiliva alcuna nuova causa ostativa all’accesso al pubblico impiego.
NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione sulla base di un unico articolato motivo, cui ha opposto difese la Regione Autonoma Val d’Aosta con controricorso, contenente anche ricorso incidentale condizionato.
Il Pubblico Ministero ha depositato memoria chiedendo che la RAGIONE_SOCIALE accolga il ricorso incidentale e dichiari inammissibile il ricorso principale, reiterando in udienza analoghe conclusioni.
È in atti memoria della Regione Val D’Aosta.
RAGIONI DELLA DECISIONE
L’unico motivo del ricorso principale assume la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 106, co. 8 lett. c) del Testo Unico delle disposizioni contrattuali economiche e normative delle categorie del comparto unico della Valle D’Aosta, dell’art. 2 del d.p.r. n. 487 del 1994 e dell’art. 8 del Regolamento regionale n.1 del 2013, oltre che dell’art. 132 n. 4 c.p.c.
Il ricorrente, oltre a sostenere che la Corte d’Appello non avrebbe chiarito, in contrasto con l’art. 132 n. 4 c.p.c. il percorso logico argomentativo sulla cui base avrebbero rilievo le norme della c.d. legge Severino e l’art. 106 del TUDC, evidenza come la condanna emersa a suo carico non integri i presupposti di esclusione dai concorsi pubblici stabiliti dall’art. 2 del d.p.r. n. 487 del 1994 e contesta l’assunto secondo cui potrebbero estendersi all’assunzione situazioni che, in costanza di rapporto di lavoro, potrebbero portare al licenziamento.
Il ricorso non può trovare accoglimento.
Rispetto alla relazione esistente tra condanne penali ed accesso al pubblico impiego, la disciplina dell’art. 2 del d.p.r. n. 487 del 1994, richiamato per l’ambito privatizzato dall’art. 70, co. 13, del d. lgs. n. 165 del 2001, contempla, oltre ad altre ipotesi che qui non interessano, coloro che siano esclusi dall’elettorato attivo e
cioè, in base all’art. 2 del d.P.R. 20 marzo 1967, n. 223, contenente l’ ‘approvazione del testo unico delle leggi per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione delle liste elettorali’, coloro che sono sottoposti a misure di prevenzione e sicurezza e coloro ai quali è stata inflitta l’interdizione perpetua o temporanea -per il tempo della stessa -dai pubblici uffici, sempre che sia intervenuto un provvedimento definitivo.
È pacifico in causa che il ricorrente non si trovi nelle condizioni di cui a tale normativa, la cui sussistenza comporta non solo una limitazione all’assunzione, ma anche, ad assunzione che sia ciononostante avvenuta, la nullità di essa (v. ad es. Cass. 9 luglio 2009, n. 16153, rispetto all’interdizione perpetua dai pubblici uffici o Cass. 11 luglio 2019, n. 18699).
Né risultano fattispecie integrate dal caso qui in esame per le quali altra normativa preveda un divieto assoluto di assunzione.
Il tema diviene allora diverso e consiste nella possibilità che, oltre a quei requisiti, anche altri possano risultare impeditivi dell’assunzione.
4.1 Questa S.C, ha già ritenuto che sia consentito alla P.A. l’inserimento nel bando di regole più restrittive, tra cui quelle riguardanti le circostanze ostative previste dalla legge n. 16 del 1992 – comprendenti l’inflizione di una condanna ad una pena non inferiore a due anni di reclusione per delitto non colposo -quale espressione della facoltà normativamente prevista per l’ammissione a particolari carriere o a particolari profili professionali di qualifica o categoria, rispondendo una tale scelta, in ragione del danno che le circostanze in questione sono suscettibili di arrecare all’interesse pubblico, alle esigenze proprie di un dato settore, nella specie quello scolastico, che presiede alla funzione educativa e che è connotato da un ordinamento che poggia sull’elevato grado di affidamento richiesto dalla specificità delle mansioni proprie delle
categorie del personale dipendente (Cass. 16 febbraio 2021, n. 4057).
In tal caso il bando pone a monte una regola generale ed astratta di esclusione dei candidati in ragione della sottoposizione a quelle condanne penali, sicché ne resta inficiata ancora la possibilità stessa di una valida assunzione su tali basi.
4.2 Non è tuttavia ancora questa la questione sollecitata dalla presente controversia, perché non risulta che vi fosse una tale limitazione nelle chiamate della Regione Val d’Aosta.
La questione attiene dunque non ad una previsione generale ed astratta del bando, ma alla possibilità che, in concreto, rispetto al caso considerato, la P.A. neghi l’assunzione in ragione di condanne pregresse non rientranti nei limiti e requisiti assoluti cui si è sopra fatto cenno al punto 3.
4.3 In proposito va rilevato come la giurisprudenza del Consiglio di Stato, pur dopo la declaratoria di parziale incostituzionalità dell’art. 85 d.p.r. n. 3 del 1957 e l’abolizione del requisito della c.d. buona condotta ad opera della legge n. 732 del 1984, non abbia dubitato della possibilità di valutare come cause di diniego di assunzione, quelle medesime situazioni che, ai sensi dell’art. 85 cit. sarebbero, a rapporto instaurato, cause di destituzione.
Secondo Cons. Stato, Sez. IV, 20 gennaio 2006, n. 130, « in virtù del parallelismo tra i requisiti di accesso e requisiti per il mantenimento della posizione di pubblico impiego (già riconosciuto dalla Commissione speciale per il pubblico impiego con parere 221/517 del 13 marzo 1986 e recepito da una costante giurisprudenza), la pregressa condanna penale, se anteriormente alla ricordata decisione della Corte Costituzionale precludeva “ipso facto” la costituzione del rapporto, ora può costituire causa ostativa alla assunzione (o alla riammissione in servizio ) solo sulla base di un’apposita valutazione di (in)compatibilità tra la condanna e lo
“status” di dipendente pubblico » ed in senso identico si era già espresso Cons. Stato, sez. VI, 27 dicembre 2000, n. 6883.
Ancor prima, ma non diversamente, Consiglio di Stato, sez. VI, 27 maggio 1991, n. 320 nel rilevare che la « l. 29 ottobre 1984 n. 732 ha vietato l’accertamento della “buona condotta” per l’impiegato pubblico ed ha abrogato la relativa previsione inserita nell’art. 2 t.u. 10 gennaio 1957 n. 3, mentre la sent. C. cost. 12-14 ottobre 1988 n. 971 ha dichiarato incostituzionale l’art. 85 t.u. n. 3 cit. nella parte in cui prevedeva che la destituzione segua di diritto, senza l’apertura di un ordinario procedimento disciplinare in contraddittorio a conclusione del quale l’autorità competente possa scegliere la misura appropriata alla gravità del fatto », ha ritenuto che « per effetto di detta disciplina la condanna penale pregressa non è più preclusiva della costituzione del rapporto, anche se l’autorità competente può valutarne l’incompatibilità con lo “status” di impiegato sempre che la misura si riveli appropriata alla gravità del fatto ».
Di recente, Cons. Stato, Sez. III, 1° febbraio 2023, n. 1132, pur poi disattendendo per altre ragioni la posizione datoriale, ha ritenuto che in casi simili la P.A. sia chiamata ad una valutazione « “sostanziale” dell’incidenza della condanna sul rapporto fiduciario che deve necessariamente sussistere tra il dipendente pubblico e la p.a. » stessa.
4.4 Il collegio ritiene di dover allineare la linea interpretativa a tale posizione della giurisprudenza amministrativa e ciò sul presupposto, di evidente consequenzialità logico-giuridica, per cui non è pensabile che la Pubblica Amministrazione debba assumere un candidato la cui posizione sia tale che, una volta instaurato il rapporto, si dovrebbe procedere al licenziamento, in ragione delle condanne penali subite.
Se è poi vero che di regola il licenziamento può avere corso solo per fatti verificatisi dopo il sorgere del rapporto (v., seppure in
ambito di lavoro privato, Cass. 4 aprile 2024, n. 8899; Cass. 29 novembre 2016, n. 24259), ciononostante le falsità documentali o dichiarative ai fini o in occasione dell’instaurazione del rapporto anche in relazione alle condanne pregresse si traducono esse stesse in causa di licenziamento prevista dalla legge (art. 55quater , co. 1 lett. d, d. lgs. n. 165 del 2001), secondo una dinamica già ricostruita dai precedenti di questa S.C. (Cass. 18699/2019, cit.; Cass. 19 ottobre 2020, n. 22673; Cass. 27 febbraio 2023, n. 5805), in cui è appunto il mendacio a fare da cerniera tra i fatti pregressi e la loro rilevanza prima e dopo l’instaurazione del rapporto.
5. Può allora dirsi che, così come, secondo la citata giurisprudenza amministrativa, i casi di destituzione ai sensi dell’art. 85 lett. a, d.p.r. n. 3 del 1957 sono suscettibili di essere apprezzati come ragione di diniego di assunzione, analogamente debba accadere, per le ragioni sopra dette e mutatis mutandis , quando nel settore dell’impiego privatizzato la contrattazione collettiva preveda certi fatti come ragione di licenziamento senza preavviso, ciò attestando una condizione di improseguibilità del rapporto che, ex ante , si traduce in un limite all’assunzione.
Con ciò sostanzialmente confermandosi quanto argomentato dalla Corte territoriale nel senso che -si cita testualmente – le condotte qui rilevanti « se sono idonee a configurare una causa ostativa alla prosecuzione del rapporto di lavoro a fortiori non possono non esserlo all’avvio del medesimo ».
6. Ancora con linearità rispetto alla giurisprudenza amministrativa, deve peraltro ritenersi che -così come dopo l’assunzione anche l’emersione di una condanna (relativamente) ostativa deve essere oggetto di valutazione di proporzionalità -analogamente la P.A., prima dell’instaurazione del rapporto, può negare l’assunzione solo sulla base di un concreto e motivato giudizio di gravità di quelle situazioni.
È dunque solo una concreta valutazione del caso concreto (in cui si apprezzi, ad es., la distanza nel tempo dell’accaduto e/o la concomitanza di altri precedenti e/o la relazione tra posto perseguito e tipologia dei reati etc.), sindacabile dal giudice ordinario nella sua congruenza e razionalità logica, a consentire di denegare l’assunzione per la ricorrenza di una fattispecie di reato (con condanna) che, se successiva all’instaurazione del rapporto, sarebbe causa di licenziamento senza preavviso secondo la normativa vigente.
Non vi è dunque necessità di previsione espressa di un tale rilievo dei corrispondenti fatti come ostacolo all’assunzione, perché è la previsione di essi come possibile causa di licenziamento, se verificatisi dopo l’instaurazione del rapporto, a rendere giuridicamente inevitabile una loro valutazione ex ante , a fini assunzionali.
Inserendo il caso di specie in questo contesto interpretativo, può intanto dirsi che la contrattazione regionale certamente prevedeva la condanna subita dal ricorrente come ragione di recesso datoriale dal rapporto.
L’art. 106, co. 8, del TUDC stabilisce infatti « la sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso … per: … c) condanna passata in giudicato: α) per i delitti indicati dagli artt. 58, comma 1, lett. ‘a’, ‘b’ limitatamente all’art. 316 del Codice penale, lett. ‘c’, ‘d’ ed ‘e’ e 59, comma 1, lett. ‘a’, limitatamente ai delitti già indicati dall’art. 58, comma 1, lett. ‘a’ e all’art. 316 del Codice penale, lett. ‘b’ e ‘c’ del D. lgs. n. 267/2000 » e l’art. 58, lett. d, del d. lgs. n. 267/2000 riguarda appunto « coloro che sono stati condannati con sentenza definitiva ad una pena non inferiore a due anni di reclusione per delitto non colposo ». Né vi è da attribuire rilevanza all’avvenuta abrogazione di tale art. 58, sia perché tale riferimento riguarda le fattispecie in esso indicate, e non ha riguardo alla vigenza attuale della norma, sia perché l’art. 17, co.
2, del d. lgs. n. 235 del 2012 prevede comunque che il richiamo all’art. 58 cit., ovunque presente, si intenda riferito all’art. 10 di essa, il quale, alla lettera e), prevede appunto il caso di coloro che sono stati condannati con sentenza definitiva ad una pena non inferiore a due anni di reclusione per delitto non colposo.
L’ipotesi, nel suo insieme, integrando per completezza da questo punto di vista il ragionamento, è del resto non diversa da quella che, indirettamente, si può prospettare come conseguenza della salvaguardia, per il personale delle regioni, ad opera del d.lgs. n. 235 del 2012, dell’art. 15 della legge n. 55 del 1990 (v. art. 17, lett. b, d. lgs. n. 235 del 2012, che manifesta in qualche modo la persistente vigenza di quella disposizione per tale personale). Infatti, attraverso la combinazione dei commi 4octies e 4quinquies del menzionato art. 15, quali da intendere in esito a Corte Costituzionale 27 aprile 1993, n. 197, per i reati di cui al precedente comma 1 lett. d) (riguardante come nel caso di specie « coloro che sono stati condannati con sentenza definitiva ad una pena non inferiore a due anni di reclusione per delitto non colposo ») permane un’ipotesi di destituzione previa valutazione disciplinare, destinata a rispecchiarsi, anteriormente all’instaurazione del rapporto, in una valutazione di incompatibilità in concreto con l’impiego pubblico, nei termini di cui si è detto.
Ciò posto, va rilevato come la denuncia di motivazione apparente sia irrilevante, valendo comunque il principio per cui « il ricorso per cassazione che denunci il vizio di motivazione della sentenza, perché meramente apparente, in violazione dell’art. 132 c.p.c., non può essere accolto qualora la questione giuridica sottesa sia comunque da disattendere, non essendovi motivo per cui un tale principio, formulato rispetto al caso di omesso esame di un motivo di appello, e fondato sui principi di economia e ragionevole durata del processo, non debba trovare applicazione anche rispetto al caso, del tutto assimilabile, in cui la motivazione resa dal giudice
dell’appello sia, rispetto ad un dato motivo, sostanzialmente apparente, ma suscettibile di essere corretta ai sensi dell’art. 384 c.p.c. » (Cass. 1° marzo 2019, n. 6145).
10. Va altresì rilevato come sia pacifico che la valutazione in concreto da parte della Regione vi sia stata (v. pag. 5 del ricorso per cassazione, in fine, e pag. 6, in inizio e, poi, pag. 7, al punto 12) e che essa sia stata evidentemente riferita alla gravità della condotta di cui al capo di imputazione per cui era stata irrogata condanna a due anni di reclusione, risalente all’anno 2017 e dunque ravvicinata nel tempo, con richiamo anche alla sussistenza di altri precedenti penali minori, circostanze tutte nel loro insieme ritenute tali da realizzare l’incompatibilità con l’assunzione al pubblico impiego, così come risulta che la P.A. abbia, con comportamento conforme agli obblighi di correttezza, sollecitato anche l’interlocuzione dell’interessato prima di denegare l’assunzione.
Infine, è palese che qui la sentenza di c.d. patteggiamento non rileva come giudicato destinato a fare prova di fatti storici rilevanti a fini disciplinari nell’ambito del rapporto di impiego, quanto come fatto che in sé integra la fattispecie della pronuncia di condanna penale e quindi tale da comportare un requisito ostativo all’instaurazione o prosecuzione del rapporto, previa rispettivamente valutazione di gravità o di proporzionalità. Vale quindi l’inciso finale di cui all’art . 445 c.p.c., rimasto sostanzialmente immutato nonostante le modifiche apportate nel tempo alla disposizione, nel senso che la sentenza di c.d. patteggiamento « è equiparata a una pronuncia di condanna ».
11. In definitiva, previa (parziale) correzione della motivazione in diritto nei termini di cui sopra, il ricorso principale va rigettato e ciò comporta l’assorbimento del ricorso incidentale, in quanto proposto in via condizionata.
12. Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza.
13. Può anche esprimersi il seguente principio di sintesi: « in tema di requisiti per l’accesso al pubblico impiego, sono ostative non solo le condanne penali previste espressamente come tali dalla normativa vigente, ma anche quelle che, a rapporto già esistente, comporterebbero il licenziamento senza preavviso secondo la contrattazione collettiva di riferimento, in questo caso previa valutazione in concreto, da parte della Pubblica Amministrazione, delle circostanze e del rilievo di tali condanne rispetto al rapporto da instaurare ( tra cui, in via esemplificativa, distanza nel tempo dell’accaduto e/o concomitanza di altri precedenti e/o relazione tra posto perseguito e tipologia dei reati etc.) ».
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale, assorbito l’incidentale e condanna il ricorrente al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in euro 4.000,00 per compensi ed euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali in misura del 15 % ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Lavoro