Ordinanza di Cassazione Civile Sez. L Num. 23186 Anno 2025
Civile Ord. Sez. L Num. 23186 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 12/08/2025
ORDINANZA
sul ricorso 16676-2023 proposto da:
COGNOME rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati NOME COGNOME
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1300/2023 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 12/06/2023 R.G.N. 1352/2022;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 30/04/2025 dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
Fatti di causa
1.- Con sentenza del 12 settembre 2022, il tribunale del lavoro di Trani ha rigettato l’opposizione proposta da NOME COGNOME
Oggetto
R.G.N. 16676/2023
COGNOME
Rep.
Ud. 30/04/2025
CC
dipendente della S.p.A. Unicredit dal 6 maggio 1996, inquadrata con la qualifica di quadro direttivo di primo livello del CCNL ABI, avverso l’ordinanza del 19 febbraio 2020 che aveva respinto l’impugnativa del licenziamento per giusta causa irrogatole dall’azienda e per l’effetto ha confermato la legittimità del licenziamento impugnato e condannato la lavoratrice al pagamento delle spese processuali.
2.La Corte d’appello di Bari, con la sentenza in atti, definitivamente pronunciando sui reclami proposti in via principale da NOME COGNOME e in via incidentale da Unicredit S.p.A., ha rigettato il reclamo principale e confermato la sentenza impugnata; ha inoltre dichiarato assorbito il reclamo incidentale e condannato la reclamante principale al pagamento delle spese del giudizio liquidate in dispositivo.
3.- La Corte d’appello, a fondamento della sentenza, ha premesso che con lettera del 24 maggio 2018 Unicredit Spa aveva contestato a COGNOME diversi addebiti disciplinari nel suo ruolo di Consulente Piccole Imprese presso la sede di Cerignola Garibaldi B e di direttore di filiale presso la sede di Barletta, Regina Margherita; ha richiamato gli addebiti di cui alla contestazione disciplinare ( lett. A-H) ed ha confermato la tesi già espressa dai giudici di primo grado secondo i quali erano da ritenere tardivi gli addebiti di cui alle lettere da A ad E perché contestati dopo diversi anni dai fatti , mentre erano scrutinabili solo le condotte di cui alle lettere F, G ed H della contestazione. 4.- Inoltre la Corte di appello ha ribadito che le condotte di cui alla lettera H, concernenti l’accesso reiterato e non autorizzato alle schede clienti, fossero di gravità tale da giustificare da sole la risoluzione del rapporto. Infatti, dall’analisi dell’elenco degli accessi contestati alla lavoratrice erano risultati effettuati
numerosi accessi abusivi a partire dal gennaio 2016 (lasso di tempo in considerazione).
5.- Ha rilevato pertanto come il tribunale non si fosse neppure espresso sulla fondatezza delle contestazioni di cui alle lettere F e G siccome esse, benchè tempestive, erano state giudicate ininfluenti ai fini della decisione sulla legittimità del recesso, essendo allo scopo sufficiente l’apprezzamento dell’ultima violazione ascritta a Ferrieri di cui alla lettera H.
6.- Gli addebiti in discorso (lett. F, G, H) non potevano ritenersi tardivi perché l’Istituto bancario aveva ricevuto le lettere anonime (inviate tramite il sistema di whistleblowing), da cui erano scaturiti i controlli, nei mesi di gennaio e marzo del 2017 ed aveva contestato gli addebiti a maggio del 2018 a distanza di circa 14/16 mesi dal ricevimento delle segnalazioni, in conformità al principio di relatività e nel rispetto del diritto alla difesa.
Appariva senz’altro equilibrata e condivisibile la scelta del tribunale di reputare tempestivo l’addebito disciplinare relativo a condotte risalenti non oltre un anno prima circa, rispetto alle comunicazioni anonime da cui era scaturita l’indagine interna che aveva condotto all’apertura del procedimento disciplinare in questione.
Il fatto che Unicredit avesse impiegato circa 14-16 mesi per trasmettere a COGNOME la lettera di contestazione in questione non poteva indurre a ritenere tardiva la reazione datoriale rispetto all’illecito compiuto dalla dipendente perché gli accertamenti erano stati oggettivamente complessi giacchè le segnalazioni di whistleblowing avevano interessato una pluralità di soggetti ed una moltitudine di comportamenti che necessitavano di approfondite e adeguate verifiche.
Soltanto a partire dai primi mesi del 2017 la Banca aveva avuto la possibilità di conoscere le condotte addebitate, sicché soltanto rispetto a tale momento doveva essere vagliata la correttezza del potere disciplinare. Andava apprezzata in tale ottica anche la complessità dell’organizzazione aziendale della datrice di lavoro, notoriamente di notevoli dimensioni, insieme alla già evidenziata complessità degli accertamenti necessari allo scopo di verificare gli illeciti segnalati all’inizio del 2017.
7.Era ininfluente il richiamo all’articolo 15 del GDPR ( Regolamento europeo in materia di privacy) giacchè la lavoratrice aveva avuto accesso alle informazioni nel corso del procedimento disciplinare.
8.- I fatti non erano neppure contestati nella loro materialità perché gli accessi erano stati effettuati da COGNOME la quale aveva solo sostenuto che non fossero illeciti sotto il profilo disciplinare.
Era onere della lavoratrice dimostrare la liceità degli accessi perché altrimenti verrebbe onerato il datore di lavoro della prova di un fatto negativo in pratica inesigibile; anche perché nei giudizi di impugnativa del licenziamento inflitto per giusta causa, l’onere della prova a carico del datore riguarda soltanto il fatto storico nella sua materialità e l’elemento psicologico dell’autore, mentre tocca al lavoratore dimostrare l’esistenza di una specifica esimente.
Ma allo scopo non era sufficiente la tesi sostenuta dalla lavoratrice secondo cui l’accesso alle schede clienti fosse avvenuto negli orari e nella sede di lavoro per potersi presumere effettuato per ragioni di servizio e dunque per motivi leciti.
Restava accertato invece che gli accessi alle schede clienti fossero da qualificare come accessi abusivi e che la lavoratrice non aveva la facoltà di effettuare tali accessi, perché le schede
clienti in questione erano consultabili esclusivamente dai dipendenti e soltanto in relazione a specifiche operazioni.
Neppure la delega ad adoperare sul conto dei familiari consentiva di accedere alla scheda cliente proprio perché l’interrogazione poteva essere seguita solo da un dipendente (e non dal cliente) e peraltro esclusivamente in presenza di determinate operazioni; tali considerazioni portavano ad escludere che le plurime interrogazioni compiute dalla lavoratrice potessero essere scriminate per effetto del consenso dei clienti titolari delle schede alle quali COGNOME aveva avuto accesso senza valida giustificazione.
9.- Quanto all’esistenza degli estremi della giusta causa di licenziamento la Corte d’appello ha affermato che sussisteva la violazione della disciplina a tutela della privacy, da valutarsi nel particolare e delicato contesto dell’attività bancaria, e creditizia in particolare.
La Corte richiamava in proposito una consolidata giurisprudenza (Cass. nn. 34717/2021, 28928/2018, 11206/2015, tutte in materia di licenziamenti irrogati al lavoratori ritenuti responsabili di accessi non consentiti al sistema informatico) che aveva valutato come giusta causa la violazione dell’obbligo di riservatezza posto a carico dei dipendenti di banca, senza ritenere rilevante la produzione di un danno, atteso che ai fini della configurazione della condotta che lede il vincolo fiduciario non conta neppure che il dipendente si sia limitato a compiere accessi senza propalazione o qualsivoglia ulteriore utilizzo dei dati; per la verifica della sussistenza della giusta causa sotto il profilo della gravità del fatto era dunque irrilevante la mancata successiva utilizzazione dei dati, giacché la sola consultazione non autorizzata integrava gli estremi della condotta illecita profilandosi l’elemento del trattamento abusivo.
10.- Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione la lavoratrice NOME COGNOME con tre motivi, illustrati da successiva memoria, ai quali ha resistito Unicredit spa con controricorso. Il Collegio ha autorizzato il deposito della motivazione nel termini di 60 giorni dalla decisione.
Ragioni della decisione
1.- Con il primo motivo di ricorso si sostiene la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 7 della l. n. 300 del 1970, degli artt. 2119 e 2697 c.c., dell’art. 15 del GDPR, nonché dell’art. 18, comma 4, 5, 6 della legge n. 300/1970, come novellato dalla legge n. 92/2012, in relazione all’art. 360 c.p.c. n. 3 , nella parte in cui la Corte di appello ha ritenuto tempestive le contestazioni contenute nelle lettere F- G -H benchè effettuate a distanza di 14-16 mesi dalla compiuta conoscenza dei fatti.
2.- Con il secondo motivo si denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2104, 2106 e 2119 c.c. e dell’art. 18, comma 4 e 5, della l. n. 300/1970 (come novellato dalla legge n. 92/2012) e degli artt. 44 e 74 del Ccnl in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c., nella parte in cui la Corte di appello ha ritenuto proporzionato il provvedimento di licenziamento irrogato omettendo di compiere una valutazione coordinata e bilanciata dei parametri individuati dalla giurisprudenza di legittimità in materia di proporzionalità fra fatto contestato e sanzione disciplinare.
3.- Con il terzo motivo si deduce la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2119 e 2697 c.c., della disciplina in materia di tutela della privacy [sia in termini generali (violazione del Codice della Privacy), sia in termini di disciplina specifica (Provvedimento n. 192/11 del Garante della Privacy contenente ‘Prescrizioni in materia di circolazione delle informazioni in ambito bancario e di tracciamento delle operazioni bancarie’,
Accordo Quadro Nazionale stipulato dall’ABI in virtù del citato provvedimento n. 192/11, Ordine di Servizio n. 372 Privacy e del Codice di Condotta] e dell’art. 18, comma 4 e 5, della legge n. 300/1970 (come novellato dalla legge n. 92/2012) e degli artt. 421 e 437, nonché 115 e 116 c.p.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. nella parte in cui la Corte Territoriale, invertendo la ripartizione degli oneri probatori gravanti sulle parti e, comunque, disancorandosi dagli esiti dell’istruttoria, ha ritenuto sussistente la giusta causa nonostante la totale ‘inesistenza’ della prova su cui la stessa si fonda.
4.- I motivi di ricorso sono infondati e devono essere respinti. Deve essere premesso che alla lettera H della lettera di contestazione è stata addebitata alla ricorrente la seguente mancanza “…Lei , tramite l’indebito utilizzo delle Sue credenziali segrete di accesso al sistema informatico e, quindi, con l’utilizzo della sua matricola BR 32047, si è abusivamente introdotta nella procedura informatica della banca e ha – senza alcuna ragione di servizio e, quindi, illegittimamente – interrogato la ” Scheda Cliente” e i rapporti di alcuni clienti Unicredit con rapporti radicati presso la filiale di Cerignola INDIRIZZO e, se possibile, ancor più gravemente anche un dipendente Unicredit (sig. COGNOME NOME) e un familiare dello stesso suo (sig.ra COGNOME NOME nonché Suoi familiari (COGNOME NOME e COGNOME NOME) già richiamati nella presente lettera. Tali accessi sono avvenuti anche dopo il suo trasferimento dalla filiale di Cerignola, quella di Barletta a decorrere dal maggio 2016.”
5.Rispetto a tale contestazione, la Corte ha condiviso l’accertamento effettuato dal tribunale di Trani, il quale “ha appurato, senza che sul punto siano intervenute censure di sorta, che dall’esame dell’elenco dei numerosi accessi abusivi contestati alla ricorrente risultano effettuati: a) quattro accessi
il 2 maggio 2016, alla scheda cliente riconducibile alla ” RAGIONE_SOCIALE“; b) tre accessi il 9 maggio 2016 e il 23 giugno 2016 alla scheda cliente riconducibile a “Cartagena NOME“; c) molteplici accessi alla scheda cliente della madre della ricorrente, NOME COGNOME a partire dal mese di gennaio 2016; d) alcuni accessi eseguiti il 17 maggio 2016 alla scheda cliente del fratello, NOME COGNOME; e) altri accessi eseguiti nel gennaio e febbraio 2016 relativi alla scheda del cliente di NOME COGNOME, altro dipendente di Unicredit S.p.ARAGIONE_SOCIALE.
6.Va altresì evidenziato che l’accertamento di fatto risulta cristallizzato in questo giudizio di legittimità anche perché si verte in un’ipotesi di doppia conforme (ma in realtà i giudizi conformi sarebbero tre) per cui secondo l’ordinamento (cfr. art. 348 ter, 4 comma, c.p.c., v. Cass. n. 26774 del 2016; conf. Cass. n. 20944 del 2019) sono deducibili in cassazione soltanto vizi di diritto e non questioni che attengono all’omessa valutazione dei fatti, ancorché discussi tra le parti e decisivi in senso contrario rispetto a quanto accertato dai giudici di merito. 7.- Inoltre, deve essere ancora premesso che, come noto, il giudizio di cassazione non mira al controllo di plausibilità della motivazione della sentenza di appello; giacchè lo scopo del controllo demandato a questa Corte non è quello di rimediare alla contraddittorietà ed insufficienza della motivazione adottata dai giudici di merito, ma solo di verificare se esistano specifiche violazioni di legge riconducibili al catalogo dei vizi di cui all’art 360 c.p.c.
8.- Sulla scorta di tali premesse il primo motivo deve essere respinto perché la Corte ha accertato la tempestività relativa della contestazione disciplinare facendo applicazione dei consolidati principi di diritto affermati in materia da questa Corte di legittimità. In base ai quali, ai fini della relatività, va
considerato in primo luogo il momento in cui è stata acquisita la piena conoscenza dei fatti piuttosto che l’epoca della loro commissione; così come va tenuto conto della complessità degli accertamenti e dell’organizzazione aziendale.
Con riferimento a questi parametri la Corte ha espresso un giudizio di tempestività della contestazione e tale motivata valutazione non può essere certo sindacata dal giudice di legittimità perché attiene ad un accertamento di fatto e non di diritto.
9.- La diversa tesi sostenuta in ricorso secondo cui vi sarebbe stato un ritardo rispetto alla conclusione degli accertamenti che sarebbe avvenuta nel 2017 (in relazione alla data di conclusione delle indagini di Audit nel luglio 2017) integra in realtà, aldilà dei parametri richiamati nella rubrica, una censura di fatto il cui esame è precluso dall’esistenza d ella ‘ doppia conforme ‘ .
10.- Peraltro tale tesi non è giustificata sotto il profilo della specificità e della autosufficienza, sia perché non è trascritto il documento in questione, sia perché si tratta di una questione nuova come tale non deducibile in cassazione, perché la sentenza non parla di questo Report di Audit, mentre nel motivo non è precisato dove, come e quando il relativo tema sia stato posto (prima in primo grado e poi reiterato in appello).
Al contrario la stessa Corte di merito, oltre a ricordare il principio secondo cui il datore non è tenuto a un controllo costante sull’operato dei dipendenti, ha ribadito che il datore di lavoro è tenuto a contestare i fatti addebitati al dipendente non appena ne abbia avuto conoscenza e quando gli stessi fatti appaiono ragionevolmente sussistenti. Ed ha accertato pure che la Banca ha avuto la possibilità di conoscere i fatti in oggetto solo a partire dai primi mesi del 2017 e non già che li avesse perfettamente conosciuti a luglio del 2017; affermazione che
non può essere certo effettuata da questo giudice di legittimità sostituendosi ai giudici di merito competenti.
11.- Non rileva poi il riferimento operato circa la violazione dell’articolo 15 del GDPR perché il diritto di accesso ai dati personali è stato comunque garantito alla lavoratrice durante il procedimento disciplinare nel corso del quale ha potuto esercitare ampiamente i propri diritti difensivi, anche per il tramite il deposito di memoria.
12.- In ogni caso, va ricordato che il ritardo nella contestazione può costituire un vizio del procedimento disciplinare solo ove sia tale da determinare un ostacolo alla difesa effettiva del lavoratore (o l’acquiescenza del datore) che nel caso di specie non si è prodotto, né è stato dedotto in termini concreti.
La Corte ha anzi disatteso la doglianza circa la difesa a tentoni sollevata dalla ricorrente ed ha respinto ogni motivo sollevato sotto il profilo della violazione delle garanzie di difesa della lavoratrice, atteso che, come posto in rilievo nella sentenza impugnata, la dipendente si è difesa ampiamente nel corso del procedimento disciplinare, più volte, presentando memorie ed interloquendo nel merito delle contestazioni disciplinari.
13.- Anche la tesi secondo cui la Banca avrebbe potuto compiere controlli in tempo reale sulle operazioni effettuate dai dipendenti ai fini della rilevazione tempestiva dei comportamenti con valenza disciplinare, integra una difesa in punto di fatto che non può essere esaminata in un caso di doppia conforme.
14.- La sentenza si sottrae pertanto ad ogni censura sollevata sotto il profilo del rispetto dell’art. 7 della l.300/70 e degli altri parametri di diritto indicati nella rubrica del primo motivo.
15.- Per quanto attiene al secondo motivo ed al terzo motivo ed alla censura circa l’esistenza della giusta causa, pur essendo venute meno 7 contestazioni (su 8), ed a quella sulla
valutazione della proporzionalità della sanzione irrogata (per mancato apprezzamento del dolo, della colpa, dei precedenti, del danno, della disparità di trattamento, ecc.), si tratta tutte di questioni che sono state risolte correttamente in sede di merito. 16.E’ noto, anzitutto, che in materia di licenziamento per giusta causa il giudizio circa la gravità delle infrazioni commesse dal lavoratore subordinato e la loro attitudine a costituire giusta causa o giustificato motivo di licenziamento implica un accertamento di fatto demandato al giudice di merito, la cui valutazione è incensurabile in cassazione se priva di errori logici o giuridici (Cass. n. 16628/2004).
In proposito, come già rilevato, occorre considerare che gli accertamenti di fatto non sono sindacabili in sede di legittimità oltre i limiti imposti dal novellato art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., così come rigorosamente interpretato dalle Sezioni unite di questa Corte con le sentenze n. 8053 e n. 8054 del 2014 (con principi costantemente ribaditi dalle stesse Sezioni unite v. n. 19881 del 2014, n. 25008 del 2014, n. 417 del 2015, oltre che dalle Sezioni semplici); e di cui la legge processuale non consente oggi alcun riesame in ipotesi di ‘doppia conforme’. Inoltre va ribadito che , con le stesse sentenze n. 8053 e 8054 del 2014 cit., si è precisato che è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; ipotesi che non ricorre nel caso di specie. 17. Nel caso in esame invece la valutazione circa l’esistenza della giusta causa ex art.2119 c.c., oltre ad essere stata effettuata motivatamente sulla base delle prove, rispetta i canoni di legge e la giurisprudenza di legittimità, che la Corte
territoriale ha puntualmente richiamato, in materia di licenziamenti irrogati al lavoratore ritenuto responsabile di accessi non consentiti a documenti ed a dati aziendali riservati. Questa Corte ha invero affermato più volte che è legittimo il licenziamento per giusta causa dei dipendenti che, per motivi personali e non per finalità istituzionali o per ragioni connesse alle esigenze di servizio, abbiano effettuato reiterati accessi abusivi su dati destinati a rimanere segrete ( V. Cass. nn 34717/2021, n. 28928/2018 11206/2015).
D’altra parte la valutazione della gravità del comportamento del dipendente ai fini del giudizio sulla legittimità del licenziamento per giusta causa deve esser compiuta alla stregua della “ratio” dell’art. 2119 cod. civ. e cioè tenendo conto dell’incidenza del fatto sul particolare rapporto fiduciario che lega il datore di lavoro al lavoratore, delle esigenze poste dall’organizzazione produttiva e delle finalità delle regole di disciplina postulate da detta organizzazione.
18.- Per quanto riguarda la censura secondo cui la Corte di appello avrebbe violato l’onere della prova in materia di giusta causa, deve osservarsi che la stessa Corte non ha errato allorché ha affermato che il datore di lavoro deve provare il fatto materiale e l’elemento psicologico, mentre l’esistenza di una esimente deve essere provata dal lavoratore.
La Corte sul punto ha pure richiamato un conforme e reiterato orientamento di legittimità (v. 11206 del 29/05/2015 ed in precedenza Cass. n. 4368 del 2009 ). Ed è alla luce di tale corretto criterio di ripartizione degli oneri della prova che deve essere intesa l’affermazione effettuata dal giudice di appello secondo cui la ricorrente avrebbe dovuto provare il motivo dell’accesso alla scheda clienti al fine di dimostrare la specifica ragione per cui aveva interrogato la banca dati; che, come
risultava degli atti, i dipendenti non potevano interrogare senza specifiche ragioni, che sono state riscontrate insussistenti nel corso degli accertamenti.
La Corte ha affermato sul punto: “si tratta quindi di dati che sono il frutto di un’elaborazione effettuata dallo stesso istituto di credito e che, in quanto tali, contengono una prima classificazione/valutazione del rischio da parte dell’istituto di credito, anche in ordine all’affidabilità dello stesso rispetto al sistema creditizio, per cui deve escludersi che possano essere consultati se non per il compimento di specifiche operazioni, anche perché non potrebbero essere conosciuti neanche dagli stessi soggetti titolari del rapporto di conto corrente”.
Tanto esclude anzitutto che la lavoratrice potesse essere autorizzata alle interrogazioni in discorso dai titolari del conto o dai suoi familiari e comprova anche la illiceità del comportamento contestato alla ricorrente essendo stata accertata la mancanza di ragioni di giustificazione in relazione ai medesimi accessi.
La Corte ha infatti condiviso la tesi già espressa dal giudice di primo grado laddove evidenzia “l’irrilevanza della delega che consente sì di accedere al conto corrente, ma di farlo nella medesima posizione del titolare il che, quindi, come eccepito dalla resistente e come confermato in sede istruttoria, non comporta la possibilità di accedere a dati sensibili concernenti la profilatura che può conoscere solo il dipendente della Banca a ciò autorizzato dal fatto che sta compiendo operazioni per ragioni di servizio, il che deve escludersi nel caso di specie’. Ed ha ribadito che “il punto nodale è rappresentato dal fatto che gli accessi contestati non sono stati effettuati per ragioni di servizio, il che implica una violazione da parte della lavoratrice
del dovere di fedeltà, essendo comunque entrata in contatto con dati sensibili in occasioni in cui ciò non era consentito”.
È stata quindi positivamente riscontrata dai giudici di merito la illiceità della condotta tenuta dalla dipendente.
L’accertamento operato – in maniera conforme in tre distinti fasi del giudizio – non si è fermato quindi solo alla mera rilevazione della consultazione della banca dati o della scheda clienti, come sarebbe avvenuto in innumerevoli casi (leciti) secondo la difesa esposta in giudizio dalla ricorrente; ma è stato bensì corroborato dal riscontro della illiceità dell’accesso nei casi contestati, in quanto abusivi e non connessi a ragioni di servizio, la cui inesistenza è stata quindi verificata in giudizio dai giudici di merito; e senza alcuna violazione dell’onere della prova.
In questo contesto assume quindi valore e rispondenza all’ordinamento la tesi secondo cui, una volta provata la illiceità della condotta (per intero, comprensiva della prova dell’inesistenza di una ragione giustificativa degli accessi contestati), l’esistenza di una condizione di liceità avrebbe dovuta essere dedotta e provata dalla lavoratrice.
Non si è pertanto verificata alcuna inversione dell’onere della prova atteso che la consultazione della scheda del cliente non è uno strumento ordinario per requisire informazioni e quindi non ha sbagliato la Corte ad affermare che nel caso di specie si è trattato di accessi non consentiti effettuati dalla RAGIONE_SOCIALE in violazione della disciplina in materia di tutela della privacy.
20. Da ciò consegue altresì il rigetto del terzo motivo di ricorso con cui la ricorrente reitera la contestazione circa la presenza della giusta causa di licenziamento sostenendo la liceità degli accessi – che i giudici hanno invece accertato inesistente ponendosi quindi irrimediabilmente contro la contraria
valutazione di merito operata nelle fasi pregresse del giudizio destinate ad accertare i fatti.
21.- In base alle argomentazioni svolte il ricorso deve essere complessivamente rigettato; le spese di giudizio seguono la soccombenza.
Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, d.P.R.115 del 2002.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio che liquida in euro 5.000,00 per compensi professionali, euro 200,00 per esborsi, 15% per spese forfettarie, oltre accessori dovuti per legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R., se dovuto.
Così deciso nella camera di consiglio del 30.4.2025.
La Presidente dott.ssa NOME COGNOME