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tutela reale

In diritto del lavoro, la “tutela reale” si differenzia dalla cd. “tutela obbligatoria” in quanto ha ad oggetto la tutela dagli esiti di un licenziamento nullo od illegittimo in aziende che hanno più di 15 dipendenti. In dette aziende, infatti, il lavoratore ingiustamente licenziato ha diritto non solo a un risarcimento del danno pari alle retribuzioni maturate e/o maturande dal licenziamento alla reintegra, ma anche alla reintegra stessa nel posto di lavoro che consiste nella ripresa della medesima attività lavorativa con azzeramento, quindi, degli effetti del recesso. In sostituzione della reintegra, il lavoratore può richiedere la corresponsione di 15 mensilità della retribuzione globale di fatto, ai sensi dell’art. 18 legge n. 300 del 1970 (Statuto dei lavoratori). La reintegra differisce dalla riassunzione perché non si tratta di un nuovo contratto di lavoro né in particolare di un contratto identico di contenuto al precedente, per inquadramento, mansione e retribuzione. Applicando la tutela reale, il giudice dichiara che la risoluzione del rapporto di lavoro è illegittima, ossia nulla ab initio, e che dunque il contratto di lavoro non ha mai cessato di avere validità e di vincolare il datore agli impegni in esso sottoscritti. In altri Paesi il lavoratore non ha diritto alla reintegra, ma solo a un risarcimento del danno, qualunque sia il numero di lavoratori dipendenti dell’azienda. Il diritto alla reintegra nell’ordinamento italiano non discende solo all’esigenza di una maggiore tutela del lavoratore, ma anche da considerazioni strettamente giuridiche. La legge italiana tiene conto delle oggettive difficoltà a trovare una nuova occupazione e un nuovo reddito per vivere, finita la copertura delle 15 mensilità. La reintegra è la conseguenza del duplice annullamento di un contratto, da parte del datore con il licenziamento e del giudice con la dichiarazione di illegittimità, che finisce per affermarne la validità. La discussione sul modello di Flexicurity scandinavo pone l’accento su una riforma della disciplina del licenziamento individuale, dell’art. 18 Statuto dei Lavoratori. L’articolo citato è stato oggetto di un referendum abrogativo, promosso da Pdl e Radicali, respinto a larga maggioranza dal 66% dei votanti. Il progetto di riforma in discussione alla Camera, prevede che il datore, qualunque sia la dimensione dell’azienda, possa licenziare per giustificato motivo oggettivo, per motivazione economico-organizzativa, senza alcun onere della prova. La riforma prevede l’introduzione di una causa di licenziamento individuale, che non può essere sindacata dai giudici del lavoro, e che dunque fornisce un pretesto, una libertà di licenziamento de facto nelle aziende che hanno più di 15 dipendenti. Il licenziamento collettivo prevede una soglia minima di 5 persone in 120 giorni per configurarsi come tale, e, in ogni caso, non permette al datore di scegliere le persone da licenziare, vincolandolo a rispettare un criterio oggettivo, basato sull’anzianità di servizio e il carico famigliare dei dipendenti.

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