Un'impresa edile si opponeva allo stato passivo del fallimento della società committente, chiedendo un cospicuo risarcimento per la risoluzione di un contratto d'appalto. Il tribunale aveva concesso solo una minima parte, negando il risarcimento per spese generali e mancato utile per assenza di prove. La Corte di Cassazione ha ribaltato la decisione, affermando che nel contesto degli appalti pubblici, il risarcimento per l'illegittima sospensione dei lavori e per il mancato utile non richiede una prova specifica del danno. Questo perché la normativa di settore prevede una quantificazione presuntiva, basata su percentuali fisse (come il 10% dell'importo dei lavori non eseguiti per il mancato utile), sollevando l'impresa dall'onere di dimostrare il pregiudizio subito.
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