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Diritto del Lavoro

Interesse ad agire licenziamento: quando è inutile?
Un lavoratore, già reintegrato e risarcito per un licenziamento illegittimo, ha impugnato la decisione sostenendo la natura ritorsiva del recesso. La Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile per carenza di interesse ad agire licenziamento, non potendo il lavoratore ottenere alcun vantaggio pratico ulteriore. Tuttavia, la Corte ha corretto un errore di calcolo del tribunale inferiore, aumentando l'indennità risarcitoria da sette a otto mensilità.
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Dimissioni doppio incarico: quando il ricorso è nullo
Una ex dirigente comunale, titolare di un doppio incarico di Segretario e Direttore generale, ha presentato ricorso in Cassazione dopo che le sue dimissioni sono state interpretate come relative a entrambe le posizioni. La Corte Suprema ha dichiarato il ricorso inammissibile, stabilendo che non è possibile chiedere una nuova valutazione dei fatti in sede di legittimità. La decisione sottolinea che l'interpretazione della volontà espressa nelle dimissioni da doppio incarico è di competenza esclusiva dei giudici di merito.
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Conferimento incarico dirigenziale: competenza e validità
La Corte di Cassazione si pronuncia su un caso di conferimento incarico dirigenziale nella Pubblica Amministrazione. L'ordinanza chiarisce i criteri di competenza territoriale, la natura non perentoria dei termini per l'intervento di terzi nel rito del lavoro e il diritto di ogni partecipante di contestare la procedura. Viene ribadita la necessità di una valutazione comparativa effettiva e motivata tra i candidati.
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Incarichi dirigenziali sanità: non sono automatici
Una dirigente medico ha richiesto l'assegnazione automatica di un incarico di alta specializzazione dopo cinque anni di servizio. Sebbene i tribunali di merito le avessero dato ragione, la Corte di Cassazione ha ribaltato la decisione. Con l'ordinanza n. 26270/2024, ha stabilito che gli incarichi dirigenziali sanità non costituiscono un diritto automatico, ma sono subordinati alla discrezionalità della Pubblica Amministrazione, che deve tenere conto della disponibilità di posti, delle risorse finanziarie e delle procedure di selezione.
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Rinnovo contratto a termine: nessun diritto automatico
Una dottoressa con contratto a termine ha citato in giudizio un'azienda sanitaria pubblica per non aver rinnovato il suo contratto per la stessa durata dei suoi colleghi. La Corte di Cassazione ha respinto il suo ricorso, chiarendo che non esiste un diritto automatico al rinnovo del contratto a termine nel pubblico impiego. La decisione di rinnovare è un potere discrezionale dell'amministrazione e la lavoratrice non poteva chiedere un risarcimento per perdita di chance in quanto priva di un'aspettativa giuridicamente tutelata.
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Posizioni Organizzative: Obbligo di valutazione comparativa
Un dipendente pubblico si opponeva alla mancata valutazione della sua candidatura per diverse posizioni organizzative. La Cassazione ha stabilito che la Pubblica Amministrazione ha sempre l'obbligo di effettuare una valutazione comparativa tra i candidati, basandosi sui principi di buona fede e correttezza, anche in assenza di una procedura formale con avviso pubblico. La sentenza d'appello è stata annullata con rinvio.
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Incarico dirigenziale medico: non è automatico
Una dirigente medica ha citato in giudizio un'azienda sanitaria per il ritardato conferimento di un incarico di alta specializzazione. La Corte di Cassazione, ribaltando le decisioni precedenti, ha stabilito che l'incarico dirigenziale medico non costituisce un diritto automatico maturato con l'anzianità di servizio. La sua attribuzione è un atto discrezionale dell'amministrazione, condizionato dalla disponibilità di posizioni in organico e dalle risorse finanziarie.
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Indennità di sostituzione: no a differenze retributive
Un dirigente medico svolgeva di fatto mansioni superiori. La Cassazione nega il diritto alle differenze retributive, confermando che spetta solo l'indennità di sostituzione prevista dal CCNL Sanità, poiché la sostituzione avviene nel ruolo unico della dirigenza.
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Ricorso inammissibile: quando la Cassazione lo rigetta
Una professionista sanitaria ha citato in giudizio l'azienda sanitaria per ottenere differenze retributive, avendo svolto per anni mansioni superiori senza un formale incarico. Dopo un parziale accoglimento in appello, ha proposto ricorso in Cassazione. La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile per mancanza di specificità dei motivi. L'ordinanza sottolinea che non è possibile chiedere alla Cassazione una nuova valutazione delle prove e che i motivi di ricorso devono essere autosufficienti, indicando con precisione gli atti e i documenti a sostegno delle proprie tesi.
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Mansioni superiori sanità: guida alla sentenza
Due psicologhe ottengono il riconoscimento delle differenze retributive per mansioni superiori sanità. La Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso dell'azienda ospedaliera, confermando la decisione della Corte d'Appello. Quest'ultima aveva stabilito che, nonostante un riassetto aziendale e un diverso inquadramento formale, le lavoratrici avevano di fatto continuato a svolgere le medesime mansioni superiori, basando la decisione su un accertamento autonomo dei fatti e non sulla mera estensione di un precedente giudicato.
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Mansioni superiori: no paga extra senza posto formale
Un dirigente sanitario ha svolto per anni mansioni superiori a quelle della sua qualifica, richiedendo le differenze retributive. I tribunali di merito gli hanno dato ragione, ma la Corte di Cassazione ha ribaltato la decisione. Con l'ordinanza n. 26259/2024, la Suprema Corte ha stabilito che per il riconoscimento economico delle mansioni superiori nel settore sanitario pubblico, non è sufficiente lo svolgimento di fatto dei compiti, ma è indispensabile che la posizione dirigenziale sia formalmente prevista nell'atto aziendale e l'incarico ufficialmente conferito. Di conseguenza, nessuna retribuzione di posizione aggiuntiva è dovuta.
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Mansioni superiori sanità: onere della prova
Una dirigente medica ha richiesto differenze retributive per mansioni superiori sanità, sostenendo di aver diretto una struttura complessa. La Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso, confermando la decisione d'appello. La Corte ha sottolineato che la lavoratrice non ha fornito la prova concreta delle mansioni svolte, un onere indispensabile per superare la classificazione formale dell'ente.
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Licenziamento post Facebook: quando è illegittimo?
La Corte di Cassazione conferma l'illegittimità di un licenziamento per un post su Facebook. I giudici hanno ritenuto che il commento, condiviso in una chat per consolare una persona non assunta, non avesse contenuto diffamatorio. La valutazione del carattere non offensivo del messaggio, data la sua genericità e l'assenza di riferimenti specifici, è un apprezzamento di merito non sindacabile in sede di legittimità, portando al rigetto del ricorso dell'azienda.
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Ricognizione di debito: la prova spetta al debitore
La Corte di Cassazione, con l'ordinanza n. 26240/2024, ha affrontato un caso di licenziamento e una richiesta di risarcimento danni. Mentre ha confermato l'illegittimità del licenziamento di un autista per assenze ingiustificate, ritenendo legittimo il suo rifiuto a un trasferimento comunicato senza preavviso, ha ribaltato la decisione sul risarcimento danni. La Corte ha stabilito che una dichiarazione scritta del lavoratore, in cui ammetteva la propria responsabilità per un danno, costituisce una ricognizione di debito. Di conseguenza, inverte l'onere della prova: spetta al lavoratore (debitore) dimostrare l'inesistenza del debito, e non al datore di lavoro (creditore) provarne il fondamento.
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Errore di Fatto: la Cassazione chiarisce i limiti
Una società ha richiesto la revocazione di un'ordinanza della Cassazione per un presunto errore di fatto relativo a un avviso di addebito per contributi non versati. La Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, specificando che l'errore lamentato era di natura interpretativa e non un errore di fatto percettivo, come richiesto dalla legge. Inoltre, il ricorso è stato presentato oltre i termini di legge.
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Prescrizione lavoro domestico: quando decorre?
La Corte di Cassazione, con l'ordinanza n. 26236/2024, ha rigettato il ricorso di un datore di lavoro, confermando che la prescrizione nel lavoro domestico per i crediti retributivi decorre dalla cessazione del rapporto. La Corte ha ribadito che la mancanza di stabilità reale in questo tipo di contratto giustifica il posticipo del termine, a tutela del lavoratore che potrebbe temere ritorsioni.
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Giudicato: appello inammissibile e la sua efficacia
La Corte di Cassazione chiarisce che l'inammissibilità dell'appello per tardività rende definitiva la sentenza di primo grado, formando un giudicato sostanziale che impedisce di riproporre la stessa questione in un nuovo processo. Nel caso di specie, la natura non subordinata di un rapporto di lavoro, già decisa in primo grado in un precedente giudizio, non poteva essere nuovamente contestata.
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Retrocessione d’azienda: la responsabilità del locatore
La Corte di Cassazione chiarisce i limiti della responsabilità del proprietario di un'azienda in caso di retrocessione d'azienda. L'ordinanza stabilisce che, se l'azienda viene restituita dal primo affittuario e immediatamente concessa a un secondo, il proprietario non è solidalmente responsabile per i debiti di lavoro del primo affittuario, a meno che non si provi che abbia proseguito direttamente l'attività. La mancata prova della continuità aziendale da parte del proprietario esclude l'applicazione dell'art. 2112 c.c.
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Licenziamento per assenza prolungata: è legittimo?
Un lavoratore, assente per oltre un anno a causa di arresti domiciliari, è stato licenziato sulla base di una clausola del CCNL. La Corte di Cassazione ha confermato la legittimità del recesso, qualificandolo come licenziamento per assenza prolungata dovuta a impossibilità sopravvenuta della prestazione. La Corte ha stabilito che, decorso un congruo periodo, l'interesse del datore di lavoro alla prestazione viene meno, indipendentemente dall'esito del procedimento penale a carico del dipendente.
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Docenti civili scuole militari: è lavoro subordinato
La Corte di Cassazione ha stabilito che il rapporto di lavoro dei docenti civili presso le scuole militari, anche se basato su convenzioni annuali, deve essere qualificato come lavoro subordinato di pubblico impiego. L'ordinanza accoglie il ricorso degli eredi di un professore, cassando la precedente decisione della Corte d'Appello che aveva negato la natura subordinata del rapporto. La Suprema Corte ha ribadito un proprio orientamento consolidato, sottolineando l'applicazione del principio di non discriminazione per i lavoratori a tempo determinato e rinviando il caso per una nuova valutazione.
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