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La sentenza penale irrevocabile di condanna non è vincolante

La sentenza penale irrevocabile di condanna non è tuttavia vincolante con riferimento alle valutazioni e qualificazioni giuridiche attinenti agli effetti civili.

Pubblicato il 11 May 2022 in Diritto Civile, Giurisprudenza Civile

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL TRIBUNALE DI SANTA MARIA CAPUA VETERE

IV sezione civile
in persona della G.M. ha pronunciato la seguente

SENTENZA n. 1553/2022 pubblicata il 02/05/2022

nella causa iscritta al n. 801182/10 R.G., avente ad oggetto RESPONSABILITÀ EXTRACONTRATTUALE, pendente

TRA

XXX, rappresentata e difesa in virtù di procura alle liti a margine dell’atto di citazione dall’avvocato

ATTRICE E

YYY S.R.L. con sede in

CONVENUTO CONTUMACE

E

ZZZ, rappresentato e difeso in virtù di procura alle liti in a margine della comparsa di costituzione e risposta dall’avvocato

CONVENUTO

NONCHÉ

KKK, rappresentato e difeso in virtù di procura alle liti a margine della comparsa di costituzione e risposta dall’avvocato

CHIAMATO IN CAUSA

NONCHÉ

JJJ, rappresentato e difeso in virtù di procura alle liti a margine della comparsa di costituzione e risposta dall’avvocato

CHIAMATO IN CAUSA

CONCLUSIONI: come da verbali ed atti di causa e come da conclusioni rese nelle note di trattazione scritta depositate per l’udienza del 7 ottobre 2021 in cui le parti costituite hanno concluso riportandosi a tutti i propri atti e scritti difensivi e alle conclusioni ivi rassegnate

RAGIONI IN FATTO E IN DIRITTO DELLA DECISIONE

XXX ha agito nei confronti della società YYY S.r.l. e di ZZZ, in proprio e quale legale rappresentante, per ottenere il risarcimento del danno patito a seguito della morte del padre ***, deceduto a causa di un infortunio sul lavoro. L’attrice ha allegato che il 10 maggio 1997, in *** presso la cava di proprietà della convenuta, il genitore era stato investito da una pala gommata con la quale era in atto il caricamento di materiale inerte sul suo camion. Le lesioni erano state talmente gravi da procurare la morte; il fatto era stato oggetto di un processo penale in cui era stato imputato ZZZ e all’esito del quale la Corte d’Appello, con sentenza divenuta irrevocabile, aveva confermato la responsabilità dell’amministratore della società proprietaria della cava per omissione di cautele e misure di sicurezza e prevenzione sul luogo di lavoro. La sentenza penale aveva riconosciuto all’attrice, costituitasi parte civile, una provvisionale di cinquantamila euro; ella ha dunque chiesto di condannare la società e il suo amministratore in solido tra loro al risarcimento del danno non patrimoniale, morale e di perdita del rapporto parentale.

I convenuti costituiti hanno contestato che l’accertamento in sede penale potesse comportare quello della loro responsabilità nell’evento dannoso, dovuto invece alla condotta imprudente della vittima che si era posta a tergo della pala gommata mentre questa era in retromarcia o, in subordine, al conducente del macchinario KKK che hanno chiesto di chiamare in causa. In via gradata, essi hanno eccepito il concorso di colpa del defunto.

Anche KKK si è costituito, deducendo in primo luogo che la responsabilità dell’incidente era stata dei convenuti principali e del legale rappresentante della società, il quale aveva omesso le doverose cautele in materia di prevenzione degli infortuni e di vigilanza, in particolare quanto alle zone “a restrizione d’area” per gli estranei alla lavorazione della cava, e alla omissione dei corsi di aggiornamento per gli addetti alla movimentazione dei mezzi pesanti; che le dette omissioni erano state commesse anche dal direttore dei lavori JJJ, di cui ha chiesto la chiamata in causa; e che in ogni caso il giudicato penale non gli è opponibile non costituendo accertamento della sua responsabilità. KKK ha perciò concluso perché sia accertato che unici responsabili dell’infortunio sono stati ZZZ e JJJ e in subordine verificare la graduazione di un eventuale concorso di colpa tra tutti i soggetti in qualche modo coinvolti.

Si è costituito infine JJJ. Egli ha eccepito che l’incidente si era verificato perché KKK, alla guida della pala gommata in manovra di retromarcia, non si era accorto che la vittima era posta dietro il mezzo meccanico. Il fatto era accaduto peraltro non nella cava (inattiva) per la quale egli svolgeva la funzione di direttore e raggiungibile attraverso un autonomo percorso, ma in un deposito aperto di materiali anche ben conosciuto dalla vittima stessa, che abitualmente e assiduamente vi si recava per rifornirsi di materiale.

La causa è stata istruita con prove orali (interrogatorio formale di ZZZ e prova testimoniale) e acquisendo i documenti prodotti (tra cui le sentenze emesse nei due gradi del processo penale, le relazioni tecniche svolte in fase d’indagine per l’autopsia e la dinamica dell’evento; l’accertamento degli ispettori dell’organo di vigilanza; la sentenza emessa nel separato giudizio civile introdotto dalla moglie e dalle altre due figlie del defunto).

Conclusa l’istruttoria è stata formulata una proposta conciliativa in merito alla quale la società convenuta e ZZZ hanno sollecitato una rimodulazione per la valutazione del concorso del danneggiato, su cui le altre parti si sono mostrate disponibili a eccezione di KKK, che ha rifiutato. Naufragata la possibilità di definizione alternativa, la causa è stata infine assunta in decisione.

La domanda risarcitoria avanzata nel presente giudizio come indicata in citazione prende le mosse in relazione al fatto illecito per il quale ZZZ, KKK e JJJ erano stati tratti a giudizio per il delitto di omicidio colposo.

Il primo, amministratore dell’impresa che aveva a oggetto l’estrazione e la lavorazione di inerti, era stato imputato con il figlio Aniello anche dei delitti di cui agli articoli 110, 374, 349, comma 2 e 61 n. 2 c.p. per avere, dopo il sequestro dei luoghi operato dalla polizia giudiziaria, mutato i medesimi (contestualmente e funzionalmente violando i sigilli) per simulare la presenza di cartelli antinfortunistici al momento del fatto.

KKK e JJJ hanno definito la loro posizione con un “patteggiamento” predibattimentale, mentre ZZZ e *** si sono sottoposti al giudizio dibattimentale ordinario.

Dei provvedimenti conclusivi in sede penale sono state prodotte le sentenze emesse all’esito del dibattimento e la relativa sentenza di appello, nonché la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti.

Ciò premesso, va ricordato che in virtù dell’articolo 651 c.p.p. la sentenza penale irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato nel processo civile di risarcimento del danno quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, ma non è vincolante con riferimento alle valutazioni e qualificazioni giuridiche attinenti agli effetti civili della pronuncia, che tuttavia possono essere prese in considerazione autonomamente dal giudice civile nel separato giudizio presupponente l’accertamento dei medesimi fatti in funzione della successiva azione risarcitoria o di equivalente natura [cfr. da ultimo Cass., n. 33424/19].

È stato anche precisato dai giudici di legittimità che, una volta introdotta un’azione civile nel giudizio penale, l’accertamento dell’antigiuridicità del fatto – compiuto ai fini della condanna, ma anche per l’accertamento della fondatezza dell’azione stessa – nel successivo processo civile acquista «[…] un valore che va al di là del semplice riscontro degli elementi necessari alla statuizione di colpevolezza, assumendo anche quello di presupposto per la domanda ivi azionata» [Cass., n. 15740/17].

La sentenza penale acquisita in atti e passata in cosa giudicata ha ricostruito i fatti dedotti, per ciò che qui interessa, nell’imputazione di omicidio colposo in concorso, con condanna a pena detentiva dell’imputato ZZZ oggi convenuto e con condanna altresì al risarcimento dei danni da determinarsi in separata sede civile in favore della figlia della vittima XXX (con la provvisionale di € 50.000,00) costituitasi parte civile.

Il profilo della colpevolezza è autonomamente demandato al giudice civile e la sentenza irrevocabile di condanna non è tuttavia vincolante con riferimento alle valutazioni e qualificazioni giuridiche attinenti agli effetti civili della pronuncia, quali sono quelle che riguardano l’individuazione delle conseguenze dannose che possono dare luogo a fattispecie di danno risarcibile [cfr. da ultimo Cass. n. 8477/20, n. 4318/19, n. 15392/18; in precedenza, Cass. n. 14648/11, n. 8360/10, n. 13672/10, n. 3713/09].

Analoghi effetti vincolanti sono rivestiti dalla sentenza penale anche nei confronti di chi non si sia costituito parte civile nel concluso processo penale, atteso che il giudicato penale di condanna fa stato, nel giudizio civile per il risarcimento del danno, anche a favore della vittima del reato e dei suoi congiunti che non si siano costituiti parte civile [cfr. Cass. n. 16391/09].

L’efficacia in sede civile del giudicato penale consegue soltanto a una pronuncia che sia stata resa con l’esame del merito della vicenda e a seguito dello svolgimento di un dibattimento che abbia posto tutte le parti del processo penale in condizione di esercitare le rispettive difese; questo è dunque il principio generale cardine del rapporto tra le due azioni.

L’azione civile non perde la sua originale connotazione e natura riparatoria del reato e, così inserita nel procedimento penale, promossa dalla persona danneggiata o da chi la rappresenta, è diretta a provocare dall’organo giurisdizionale l’esistenza o meno del suo diritto al risarcimento dei danni (patrimoniali e non) come scaturenti dal reato, la cui verificazione investe tanto l’an come il quantum debeatur, potendo peraltro il giudice penale decidere solo sul primo aspetto e rinviare per la quantificazione a separata sede civile, come statuito dal tribunale penale nel caso di specie.

Nella sentenza di condanna acquisita in atti, il giudice penale ha accolto la domanda proposta dalla parte civile, odierna attrice, demandando alla sede civile la relativa liquidazione e disponendo la provvisionale – evidentemente non sussistendo in quel processo elementi sufficienti per la liquidazione del danno medesimo, secondo quanto dispone l’articolo 539 c.p.p..

Quanto alla sentenza di patteggiamento, essa non ha efficacia di vincolo né di giudicato e neppure inverte l’onere della prova nel giudizio civile di risarcimento e restituzione, ma è valutabile dal giudice: la sentenza penale può avere effetti preclusivi o vincolanti in sede civile solo se tali effetti siano previsti dalla legge, mentre nel caso della sentenza penale di applicazione della pena l’articolo 445, comma 1 bis c.p.p. ne prevede espressamente l’inefficacia agli effetti civili disponendo: «salvo quanto previsto dall’articolo 653, la sentenza prevista dall’articolo 444, comma 2, anche quando è pronunciata dopo la chiusura del dibattimento, non ha efficacia nei giudizi civili o amministrativi» [cfr. anche Cass., n. 20170/18].

In ordine alla posizione dei chiamati in causa dunque, la sentenza di patteggiamento non ha effetto vincolante sui fatti dedotti nelle imputazioni elevate contro KKK e JJJ, anche se non è contestato che il fatto storico sia unico e corrispondente a quanto accertato nella sentenza passata in giudicato.

Va precisato infine che sebbene il giudicato penale precluda in questa sede qualsiasi valutazione circa la ricostruzione fattuale della vicenda e le ragioni di responsabilità di ZZZ, il Tribunale è comunque chiamato a esaminare il comportamento tenuto dalla vittima del reato nella produzione dell’infortunio: comportamento meno rilevante per il giudice penale, il cui esame è però necessario per valutare una eventuale colpa concorsuale del de cuius e per individuare le conseguenze dannose che possono dare luogo a fattispecie di danno risarcibile.

La causalità civile si articola infatti in un duplice accertamento: il primo è volto a determinare il rapporto di causalità materiale esistente tra la condotta dei protagonisti dell’evento e il verificarsi dell’illecito; il secondo impone di verificare il nesso di causalità che lega l’evento illecito alle conseguenze pregiudizievoli lamentate dai danneggiati, nesso che va sotto il nome di causalità giuridica e che trova la sua disciplina normativa negli articoli 1223 e seguenti c.c..

Tra tali norme spicca la previsione di cui all’articolo 1227, comma 1 c.c. per cui se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno (il danno e non l’evento, in quanto tale accertamento è a monte del tema che si sta esaminando), il risarcimento è diminuito secondo il grado della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate: l’accertamento è svolto anche d’ufficio, a differenza da quanto invece è previsto per la diversa ipotesi di cui al secondo comma.

Con specifico riferimento all’eventuale concorso di colpa, è stato evidenziato che «poiché una concausa può bensì ridurre la responsabilità civile del danneggiante ai sensi dell’art. 1227 c.c., comma 1, ma non esclude di regola la responsabilità penale, per il principio di equivalenza causale ex art. 41 cod. pen. – l’eventuale apporto causale colposo del danneggiato non necessariamente costituisce lo stesso fatto accertato dal giudice penale per gli effetti di cui all’art. 651 cod. proc. civ. e può essere dunque invocato a proprio favore dal danneggiante convenuto in giudizio per il risarcimento» [Cass., n. 15392/18]. La ricostruzione storico-dinamica del fatto preclude un nuovo accertamento al giudice civile, che non può procedere a una diversa e autonoma ricostruzione dell’episodio; possono essere invece indagate altre modalità del fatto non considerate dal giudice penale ai fini del giudizio a lui demandato, come il comportamento della parte lesa, negli aspetti in nessun modo esaminati dal giudice penale e incidenti sull’apporto causale nella produzione dell’evento [cfr. Cass., n. 11117/15, n. 19387/04, n. 4504/01]

Va ricordato poi che «Il principio di cui all’art. 1227 c.c. (riferibile anche alla materia del danno extracontrattuale per l’espresso richiamo contenuto nell’art. 2056 del codice) della riduzione proporzionale del danno in ragione dell’entità percentuale dell’efficienza causale del soggetto danneggiato si applica non solo nei confronti del danneggiato, che reclama il risarcimento del pregiudizio direttamente patito al cui verificarsi ha contribuito la sua condotta, ma anche nei confronti dei congiunti che, in relazione agli effetti riflessi che l’evento di danno subito proietta su di essi, agiscono per ottenere il risarcimento dei danni iure proprio, restando, peraltro, esclusa – ove essi avessero avuto sull’incapace un potere di vigilanza – la possibilità di far luogo ad una ulteriore riduzione del danno risarcibile sulla base di un loro concorso nella sua causazione per culpa in educando o in vigilando» [Cass, n. 14548/09, n. 2704/05].

Più di recente, tuttavia, la diminuzione è stata diversamente motivata: «nell’ipotesi di concorso della vittima di un illecito mortale (o anche solo lesivo) nella produzione dell’evento dannoso, il risarcimento del danno non patrimoniale da perdita (o, comunque, lesione) del rapporto parentale, patito iure proprio dai familiari del deceduto (o del danneggiato diretto), dev’essere ridotto in misura corrispondente alla parte di danno cagionato da quest’ultimo a se stesso, ma ciò non per effetto dell’applicazione dell’art. 1227 c.c., comma 1, bensì perché la lesione del diritto alla vita (o alla salute) colposamente cagionata da chi la vita (o l’integrità fisica) perde non integra un illecito della vittima nei confronti dei propri congiunti, atteso che la rottura (o la lesione) del rapporto parentale ad opera di una delle sue parti non può considerarsi fonte di danno nei confronti dell’altra, costituendo una conseguenza di una condotta non antigiuridica» [Cass., n. 8127/20, n. 9349/17]. È stato precisato infatti che l’articolo 1227 c.c. presuppone che l’avente diritto al risarcimento che abbia “concorso” a determinare il danno sia anche creditore del relativo risarcimento, ciò che non è se ad agire siano i congiunti iure proprio.

Va poi detto, sempre per completezza, che premesso il dato vincolante del giudicato penale nei termini di cui si è detto, il danno subito va poi in ogni caso effettivamente allegato e provato.

In virtù di tutti i principi finora riassunti è dunque possibile pronunciarsi in questo processo sulla domanda di ristoro del danno non patrimoniale alla persona di XXX per la lesione del rapporto parentale e per il danno morale.

Pur essendosi svolta in questo processo istruttoria orale, restano anche liberamente valutabili le prove raccolte nel processo penale (le dichiarazioni testimoniali, gli accertamenti dell’organo di vigilanza, le consulenze disposte in sede d’indagine).

Va dunque in proposito evidenziato che le valutazioni espresse dal giudice penale sono del tutto condivisibili in relazione agli elementi emersi nel relativo processo, sia con riguardo al fatto in sé che con riguardo alla colpevolezza di ZZZ e alle condotte omissive poste in essere dal conducente della pala gommata e dal “responsabile” o “direttore dei lavori” JJJ. Non può poi prescindersi dalla valutazione, sulla quale è caduto il giudicato penale, del concorso di colpa della vittima riconosciuto dalla Corte d’Appello e che ha condotto in quella sede al riconoscimento delle attenuanti generiche per l’imputato ZZZ.

Va solo sottolineato, nel considerare gli elementi confluiti nella formulazione dei capitoli di prova che sono stati sottoposti ai testimoni in questa sede, quanto segue.

Deve confermarsi la ricostruzione già operata in sede penale quanto alla dinamica stretta del fatto, ovvero che ***, conducente e “padroncino” del camion con cui trasportava gli inerti che era solito caricare presso la cava della YYY S.r.l. anche più volte al giorno, era sceso dal camion e, non essendo disponibili né predisposti luoghi appositi per l’attesa e anzi essendo di libero accesso la zona di deposito dei materiali e di carico, nonché di manovra e percorso dei mezzi e del macchinario pesante, era rimasto come al solito nei pressi del proprio automezzo. Si era portato poi (per ignota ragione: il funzionario ASL ha ipotizzato che lo abbia fatto probabilmente per andare a versare direttamente il compenso al conducente del mezzo, in assenza del direttore), in una posizione per la quale si è trovato dietro la pala gommata nel momento in cui KKK l’ha messa in movimento in retromarcia, non avvedendosi di lui in quanto egli si trovava in un “cono d’ombra”.

Si condivide assolutamente quanto osservato dai giudici penali in merito all’assoluta assenza di presidi e di rispetto delle minime norme di sicurezza sul luogo di lavoro, verificata non solo dagli operanti (carabinieri e dipartimento di prevenzione ASL) che avevano svolto gli accertamenti e dal consulente tecnico d’ufficio del pubblico ministero, ma anche confermata dalla «sconcertante»[1] deposizione dibattimentale di ***, all’epoca dipendente della società proprietaria della cava: è evidente dagli accertamenti svolti nell’indagine penale che l’impresa esercitata dalla società oggi convenuta fosse totalmente priva di cultura della sicurezza sui luoghi di lavoro (anzi, con il successivo e sprezzante atteggiamento di simulare l’osservanza di alcune delle norme a tutela, manomettendo i luoghi sottoposti a sequestro[2]) e che anche il più banale, inidoneo presidio («attenti a non farvi male») fosse in modo approssimativo affidato all’autogestione di operai, collaboratori, terzi.

Sulle gravi omissioni accertate e sui cui è caduto il giudicato penale i fatti che la società datrice di lavoro e il suo amministratore hanno inteso far valere a loro difesa rispetto alla produzione dell’infortunio sono marginali e ininfluenti. Nemmeno può condividersi l’assunto secondo cui la sentenza penale di condanna – comunque vincolante nei sensi di cui si è detto prima – sia stata frutto di equivoci ed errori nell’individuazione dei fattori causali. Irrilevante è infatti che l’evento si sia verificato in un luogo diverso dal sito estrattivo e ciò non solo non esclude l’applicazione delle norme di cui al D.P.R. n. 128/59 sulle aree minerarie, ma avrebbe imposto comunque l’osservanza delle tutele di cui alla legge n. 626/94: la normativa di sicurezza non riguarda infatti il solo, stretto sito di estrazione della cava, ma anche gli impianti connessi: espressamente l’articolo 1, lettera d) del D.P.R. citato prevede l’applicazione «ai lavori di frantumazione, vagliatura, squadratura e lizzatura dei prodotti delle cave ed alle operazioni di caricamento di tali prodotti dai piazzali»; le vie, i percorsi, i luoghi di accesso e i presidi e i mezzi idonei a prevenire situazioni di pericolo avrebbero dovuto riguardare tutta l’area, anche quella di deposito ove l’accesso di terzi estranei alla lavorazione era così frequente e ancor più rischioso, secondo le disposizioni all’epoca vigenti della legge n. 626/94. Irrilevante ai fini della valutazione dei presidi di sicurezza è che il mezzo coinvolto non fosse un escavatore, ma una pala meccanica. Irrilevante è che l’infortunato fosse a perfetta conoscenza dei luoghi, che la pala gommata fosse dotata di dispositivi luminoso e sonoro per la manovra di retromarcia e infine che l’apposizione di cartelli secondo il D.P.R. non avrebbe dissuaso la vittima dal porsi dietro al mezzo meccanico, giacché tale comportamento è stato dovuto a sua imprudenza, dettata dalla sottovalutazione del pericolo che viene dall’esperienza. Volendo dar credito a questa impostazione, qualunque presidio di sicurezza sui luoghi di lavoro sarebbe sempre inutile a prevenire gli infortuni di chi abbia anche un minimo di dimestichezza con l’attività svolta, con il luogo in cui opera e le macchine che adopera. Per questo, tra l’altro, è previsto l’obbligo di formazione e informazione dei lavoratori sulla sicurezza – compito che con riguardo al fatto oggetto di questo processo sarebbe spettato anche ad JJJ, in quanto direttore di cava e che mai risulta essere stato adempiuto né da lui, né dal datore di lavoro ZZZ –.

Anzi, le omissioni specifiche individuate dal consulente tecnico d’ufficio del pubblico ministero e dall’ufficiale di p.g. del dipartimento di prevenzione quanto agli obblighi imposti dal D.P.R. n. 128/59 dagli articoli 7 (sulla formazione e informazione) e 46 (il divieto di accesso per il pubblico ai lavori o agli impianti a mezzo di recinti o di appositi avvisi e il divieto di accesso agli estranei alle cave o impianti connessi senza autorizzazione della direzione e senza accompagnamento) hanno avuto specifica e significativa incidenza nella dinamica del fatto. Concorrente è stato l’apporto, sotto questo profilo, di JJJ al quale, come si è detto, l’articolo 7 avrebbe affidato compiti specifici; decisivo l’apporto del datore di lavoro, sul quale incombevano tutti gli obblighi (interamente omessi) inerenti la sicurezza sia in quanto derivanti dal D.P.R. citato che dalla legge n. 626/94; concorrente ma meno significativo l’apporto materiale di KKK, conducente-operatore addetto alla pala gommata, il quale ha posto in essere la manovra di retromarcia per uscire dall’area di carico senza assicurarsi che la zona interessata dalla manovra fosse libera (come di desume dalle dichiarazioni spontanee rilasciate il 10 maggio 1997), ma lavoratore non formato né informato e non coadiuvato da personale specifico addetto proprio a prevenire situazioni di rischio del tipo verificatosi, e con il quale lavoratore risponde in solido la società datrice qui convenuta in applicazione dell’articolo 2049 c.c..

Nel contesto delle responsabilità appena descritte, il comportamento della vittima dell’infortunio non solo non è autonomamente determinante nella serie causale, come sostenuto dalla difesa dei convenuti, ma riveste un apporto minimo che va valutato solo in quanto anche su di esso deve considerarsi prevalente il giudicato penale. La condotta di *** non fu infatti abnorme, ma connessa alle operazioni di carico (per la sorveglianza, in assenza di idonei e alternativi mezzi predisposti dalla società convenuta, e per la sua conclusione come ragionevolmente ipotizzata nella relazione del dipartimento di prevenzione di cui si è detto) e in astratto anche prevedibile.

È stato di recente confermato, infatti, che «In tema di infortunio sul lavoro, deve escludersi la sussistenza di un concorso di colpa della vittima, ai sensi dell’art. 1227, comma 1, c.c., al di fuori dei casi di cd. rischio elettivo, quando risulti che il datore di lavoro abbia mancato di adottare le prescritte misure di sicurezza, oppure abbia egli stesso impartito l’ordine, nell’esecuzione puntuale del quale si è verificato l’infortunio, od ancora abbia trascurato di fornire al lavoratore infortunato una adeguata formazione ed informazione sui rischi lavorativi; ricorrendo tali ipotesi, l’eventuale condotta imprudente della vittima degrada a mera occasione dell’infortunio ed è, pertanto, giuridicamente irrilevante». I principi cardine della materia impongono di considerare che «La vittima di un infortunio sul lavoro può ritenersi responsabile esclusiva dell’accaduto solo in un caso: quando il lavoratore abbia tenuto “un contegno abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute” […]. Il datore di lavoro, infatti, risponde dei rischi professionali propri (e cioè insiti nello svolgimento dell’attività lavorativa) e di quelli impropri (e cioè derivanti da attività connesse a quella lavorativa), ma non di quelli totalmente scollegati dalla prestazione che il lavoratore rende in quanto tale. Se il rischio cui si espone il lavoratore è privo di connessione con l’attività professionale, ed il lavoratore sia venuto a trovarsi esposto ad esso per scelta volontaria, arbitraria e diretta a soddisfare impulsi personali, quello non sarà più un “rischio lavorativo”, ma diviene un “rischio elettivo”, cioè creato dal prestatore d’opera a prescindere dalle esigenze della lavorazione, e quindi non meritevole della tutela risarcitoria od assicurativa da parte dell’assicuratore sociale […] il rischio elettivo sussiste in presenza di tre elementi: a) un atto del lavoratore volontario ed arbitrario, ossia illogico ed estraneo alle finalità produttive; b) la direzione di tale atto alla soddisfazione di impulsi meramente personali; c) la mancanza di nesso di derivazione con lo svolgimento dell’attività lavorativa […] Ricorrendo tale ipotesi, la condotta del lavoratore spezza il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro e l’infortunio, e la responsabilità datoriale viene meno per mancanza dell’elemento causale. […] anche quando la condotta della vittima di un infortunio sul lavoro possa astrattamente qualificarsi come imprudente, deve nondimeno escludersi qualsiasi concorso di colpa a carico del danneggiato in tre ipotesi. […] La prima ipotesi è quella in cui l’infortunio sia stato causato dalla puntuale esecuzione di ordini datoriali. In questo caso il datore di lavoro non può invocare il concorso di colpa della vittima che abbia eseguito un ordine pericoloso, perché l’eventuale imprudenza del lavoratore non è più “causa”, ma degrada ad “occasione” dell’infortunio. Del resto, se così non fosse, si finirebbe per attribuire al lavoratore l’onere di verificare la pericolosità delle direttive di servizio impartitegli dal datore di lavoro, assumendosene il rischio […] La seconda ipotesi in cui il datore di lavoro non può invocare il concorso di colpa della vittima, ex art. 1227 c.c., è quella in cui l’infortunio sia avvenuto a causa della organizzazione stessa del ciclo lavorativo, impostata con modalità contrarie alle norme finalizzate alla prevenzione degli infortuni, o comunque contraria ad elementari regole di prudenza […] Il datore di lavoro infatti ha il dovere di proteggere l’incolumità del lavoratore nonostante l’eventuale imprudenza o negligenza di quest’ultimo, con la conseguenza che la mancata adozione da parte datoriale delle prescritte misure di sicurezza costituisce in tal caso l’unico efficiente fattore causale dell’evento dannoso […] La terza ipotesi in cui il datore di lavoro non può invocare il concorso di colpa della vittima, ex art. 1227 c.c., è quella in cui l’infortunio sia avvenuto a causa di un deficit di formazione od informazione del lavoratore, ascrivibile al datore di lavoro. In tal caso, infatti, se è pur vero che concausa del danno fu l’imprudenza del lavoratore, non è men vero che causa dell’imprudenza fu la violazione, da parte del datore di lavoro, dell’obbligo di istruire adeguatamente i suoi dipendenti, e varrà dunque il principio per cui causa causae est causa causati, di cui all’art. 40 c.p.» [cfr. Cass., n. 8988/20 e la più recente giurisprudenza in essa richiamata].

Va ribadito che vale in linea generale, e dunque anche in questa sede di valutazione del danno, il principio per cui le disposizioni a tutela della sicurezza in materia di lavoro e di prevenzione degli infortuni «[…] sono da considerare emanate nell’interesse di tutti, finanche degli estranei al rapporto di lavoro, occasionalmente presenti nel medesimo ambiente lavorativo, a prescindere, quindi, da un rapporto di dipendenza diretta con il titolare dell’impresa e sempre che la presenza del soggetto passivo, estraneo all’attività e all’ambiente di lavoro, nel luogo e nel momento dell’infortunio, non rivesta carattere di anormalità, atipicità ed eccezionalità, tali da far ritenere interrotto il nesso eziologico tra l’evento e la condotta inosservante. In particolare le norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro devono essere osservate non solo a tutela dei dipendenti, ma anche delle persone estranee che occasionalmente si trovino sui luoghi di lavoro» [di recente, Cass. n. 6182/20].

Considerando, dunque, gli effetti del giudicato penale e tutto quanto finora osservato, l’apporto più significativo e decisivo in termini di responsabilità e di colpa dell’evento va attribuita al “datore di lavoro” ZZZ (per il 30%) e con lui alla società YYY S.r.l. (per il 30%); all’operatore KKK (il cui concorso, come si è detto, è dipeso anche dall’assenza di formazione e informazione nei suoi confronti quale dipendente della società e dall’assenza di altre misure preventive in ausilio alle operazioni di carico) nella misura del 10%; ad JJJ nella misura del 25%.

È solo il caso di rammentare che la richiesta di chiamare in causa KKK e JJJ è stata avanzata non a titolo di garanzia, ma per rispettivamente indicare in essi il soggetto eventualmente responsabile. In tale ipotesi, la parte attrice non è tenuta a esplicitare con formule particolari le richieste verso il terzo, purché non escluda espressamente la domanda nei suoi confronti. In proposito, la giurisprudenza di legittimità è più che stabile nell’affermare che non sussiste il vizio di ultra petizione laddove il giudice, anche in assenza di esplicita richiesta, pronunci condanna nei confronti del terzo ritenuto responsabile, per come indicato dal convenuto.

Quanto al danno risarcibile, l’attrice ha chiesto il ristoro dei danni non patrimoniali conseguenza della morte del padre.

In corso di causa la difesa dell’attrice ha sollecitato una consulenza tecnica d’ufficio per la determinazione del danno non patrimoniale subito in conseguenza della perdita per le ripercussioni psicologiche che la sofferenza aveva determinato.

Non si dubita dell’astratta possibilità che dalla morte di un congiunto possa derivare, quale danno meritevole di indennizzo, la compromissione dell’integrità psico-fisica del parente superstite; tuttavia di tale menomazione va poi offerta la prova in concreto.

Il danno biologico non può identificarsi nel maggiore o minore turbamento di carattere transeunte provocato dall’evento letale del proprio caro, atteso che tale situazione già riceve tutela sotto forma di danno morale, ma deve tramutarsi in un pregiudizio di carattere permanente, tale da poter essere qualificato alla stregua di una vera e propria malattia concretantesi in un disturbo della personalità o in disturbi psichici e fisici, idonea cioè ad incidere in maniera non transitoria sulle complessive condizioni di salute della persona.

Sul punto le allegazioni e le prove fornite dall’attrice sono carenti.

Il riconoscimento ai familiari del danno biologico iure proprio per la morte del congiunto ha quale presupposto lo stato di alterazione psicofisica del richiedente: occorre perciò che sussista un vero e proprio danno alla salute.

Tale danno costituisce il momento terminale di un processo patogeno originato dal medesimo turbamento dell’equilibrio psichico che sostanzia il danno morale soggettivo e che, in persone predisposte da particolari condizioni, anziché esaurirsi in un patema d’animo o in uno stato di angoscia, può degenerare in un trauma fisico o psichico permanente, alle cui conseguenze in termini di perdita di qualità personali, e non semplicemente al pretium doloris in senso stretto, va allora commisurato il risarcimento [Cass., n. 116/01].

Quanto, poi, alla prova dell’esistenza di un tale disturbo e del nesso causale con l’evento della perdita del congiunto, l’orientamento prevalente ed assolutamente condivisibile postula un concreto accertamento medico-legale sulla persona del richiedente, non potendosi ricorrere a mere presunzioni semplici.

L’attrice non ha fornito alcuna documentazione medica attestante uno stato di alterazione psico-fisica relativa alla sua persona e sulla cui base si potesse ritenere integrata la patologia affermata o disporre una consulenza tecnica d’ufficio medico legale la quale, stante l’evidente lacuna rilevabile già sul piano della mera allegazione dei pregiudizi subiti, avrebbe avuto un’inammissibile portata esplorativa.

Secondo il costante orientamento di legittimità, la morte di un congiunto conseguente a fatto illecito configura per i superstiti un danno consistente non solo nella sofferenza morale per la perdita della persona, ma anche nelle conseguenze pregiudizievoli di natura esistenziale, ossia nello sconvolgimento che la perdita del congiunto determina nella vita quotidiana del danneggiato per non poterlo più frequentare, a prescindere dalle varie denominazioni utilizzate; a tal riguardo, si discorre di pregiudizio dell’interesse all’intangibilità della sfera degli affetti e della reciproca solidarietà nell’ambito della famiglia, nonché all’inviolabilità della libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana nell’ambito della famiglia, la cui tutela è individuabile negli art. 2, 29 e 30 Cost.; a tali danni va aggiunto quello biologico iure proprio, della lesione della integrità psico-fisica – suscettibile di accertamento medico legale – sofferta dai prossimi congiunti della persona deceduta sempreché siffatta lesione sia eziologicamente riconducibile alla tragica morte del parente. Tutti tali pregiudizi si collocano nell’area del danno non patrimoniale e vanno integralmente risarciti tenendo conto delle circostanze del caso concreto ed evitando duplicazioni risarcitorie.

Tuttavia, se è vero che quello in esame è un interesse alla intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che connota la famiglia, per accertare l’effettiva sussistenza dell’interesse medesimo e della sua lesione è necessario fornire la prova dell’esistenza in concreto tra la persona deceduta e quella che invoca il risarcimento dei rapporti di affetto, reciproco affidamento e frequentazione che, secondo il comune sentire, costituiscono l’essenza del rapporto parentale. È evidente che se non risulta un particolare atteggiarsi del concreto assetto dei rapporti prima della morte tra vittima e congiunto, e sempre che non emergano elementi da cui desumere contrasti e dissapori, può farsi tesoro delle massime di esperienza e tenersi conto della particolare intensità degli affetti e dei rapporti esistenti tra determinate tipologie di congiunti secondo l’id quod plerumque accidit e riconoscersi la lesione del rapporto e il risarcimento ai congiunti più prossimi (figli, coniuge, genitori, fratelli).

Il prossimo congiunto è dunque tenuto ad allegare e provare il pregiudizio patito in conseguenza della lesione del rapporto parentale, potendo i congiunti più stretti usufruire delle semplificazioni probatorie (fondate su massime di esperienza) di cui si è ora detto.

In tempi abbastanza recenti i giudici di legittimità hanno affermato che «[…] la lesione da perdita del rapporto parentale subita da soggetti estranei al ristretto nucleo familiare […] è risarcibile ove sussista una situazione di convivenza, quale connotato minimo attraverso cui si esteriorizza l’intimità delle relazioni di parentela anche allargate, solo in tal modo assumendo rilevanza giuridica il collegamento tra danneggiato primario e secondario» e che, a fronte della contraria allegazione con cui le parti imploravano il riconoscimento di un «legame presunto di convivenza, a prescindere dalla effettività del rapporto di convivenza» (nella specie si trattava di nonno e nipote), «[…] in caso di domanda di risarcimento del danno non patrimoniale ‘da uccisione’, proposta iure proprio dai congiunti dell’ucciso, questi ultimi devono provare la effettività e la consistenza della relazione parentale, rispetto alla quale il rapporto di convivenza non assurge a connotato minimo di esistenza, ma può costituire elemento probatorio utile a dimostrarne l’ampiezza e la profondità […]; infatti, non essendo condivisibile limitare la “società naturale”, cui fa riferimento l’art. 29 Cost., all’ambito ristretto della sola cd. “famiglia nucleare”, il rapporto […] non può essere ancorato alla convivenza, per essere ritenuto giuridicamente qualificato e rilevante, escludendo automaticamente, nel caso di non sussistenza della stessa, la possibilità per tali congiunti di provare in concreto l’esistenza di rapporti costanti di reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto» [Cass., n. 29332/17, n. 21230/16]. È stato anche affermato che «[…] l’uccisione di una persona fa presumere da sola, ex art. 2727 c.c., una conseguente sofferenza morale in capo ai genitori, al coniuge, ai figli od ai fratelli della vittima […]; è pertanto onere del convenuto provare che vittima e superstite fossero tra loro indifferenti o in odio, e che di conseguenza la morte della prima non abbia causato pregiudizi non patrimoniali di sorta al secondo» [Cass., n. 14422/21, n. 25843/20, n. 3767/18].

Nel caso oggetto del presente giudizio la semplificazione probatoria di cui si è detto deve valere senz’altro per il nucleo convivente, di cui non è contestato che facesse parte l’attrice, di ventiquattro anni all’epoca del fatto e la cui qualità di figlia primogenita, convivente e studentessa non è contestata.

Venendo quindi all’individuazione del criterio di liquidazione di detto pregiudizio deve rilevarsi che, con riferimento alle vittime secondarie per l’ipotesi di morte di un familiare, l’osservatorio presso il Tribunale di Milano, le cui tabelle aggiornate da ultimo nel 2018 sono recepite da questo ufficio giudiziario, ha proposto di disancorare la commisurazione del danno non patrimoniale risarcibile (comprensivo sia del danno morale soggettivo che di quello conseguente alla lesione del rapporto parentale) da ogni astratto riferimento ad un ipotetico danno biologico del 100% subito dalla vittima primaria, privilegiando essenzialmente il legame familiare tra la vittima primaria e quelle secondarie, tenendo conto di tutte le circostanze del caso concreto ed in particolare della sopravvivenza o meno di altri congiunti, della convivenza o meno di questi ultimi, della qualità ed intensità della relazione affettiva familiare residua, della qualità ed intensità della relazione affettiva che caratterizzava il rapporto parentale con la persona perduta. In tale prospettiva, partendo dal presupposto che il giudice ha l’obbligo di adeguatamente motivare la quantificazione operata (senza tuttavia essere tenuto ad una dimostrazione particolareggiata e minuziosa di ciascuno degli elementi assunti a fondamento della valutazione: Cass. 9226/03) sì da evitare automatismi di calcolo che non consentano di tenere conto delle caratteristiche precipue della fattispecie concreta [cfr Cass., n. 15568/04, n. 13066/04, n. 10035/04], si sono proposte una serie di ampie forbici risarcitorie, variabili a seconda della tipo di parentela che viene in rilievo. In particolare si è proposto di liquidare il danno non patrimoniale per la morte del congiunto – comprensivo sia del danno morale c.d. soggettivo che dei pregiudizi conseguenti alla lesione del rapporto parentale – in misura compresa per i genitori, il coniuge e i figli tra € 165.960,00 ed € 331.920,00.

Tali valutazioni appaiono condivisibili.

Sotto il profilo degli oneri allegativi e probatori, va infatti evidenziato che in tema di morte del familiare già la mera doglianza del fatto illecito comporta la deduzione di tutti i riflessi negativi che normalmente conseguono dalla lesione allegata soprattutto in presenza di rapporti parentali di particolare vicinanza, come quello tra padre e figlia. Ciò in quanto le ricadute della perdita di un congiunto, essendo intrinsecamente connesse a quest’ultima, presentano una natura di tale immediata evidenza da non richiedere apposita enunciazione assertiva in sede di formulazione della domanda. Pertanto, tali conseguenze, nei limiti della loro ordinarietà, vanno ritenute sempre (seppur implicitamente) addotte con la semplice allegazione della morte, non potendosi dare rilievo ad un diverso ed eccessivo formalismo espositivo. Sul piano della prova, in considerazione del legame dato dai vincoli familiari, non si dubita, di fatti, che la perdita di un prossimo congiunto produca, nella normalità dei casi, un grave perturbamento nella sfera degli affetti, sicché, pur non potendosi ritenere che il danno sussista in re ipsa, questo può essere ragionevolmente presunto dal rapporto di parentela, salva la prova del contrario laddove emergano situazioni che dimostrino l’assenza di rapporti o l’esistenza di gravi ragioni di conflitto con la vittima [cfr. Cass. n. 20188/08, n. 10823/07]. In definitiva, non è necessaria la prova specifica della sussistenza del danno non patrimoniale dovuto ai parenti della vittima, potendo a tal fine farsi ricorso, in considerazione del legame affettivo esistente tra gli stessi, anche a presunzioni semplici, quali il grado di parentela, lo stato di convivenza, l’età della vittima al momento del sinistro – quanto minore è l’età della vittima, tanto maggiore sarà il periodo di tempo per il quale verosimilmente si protrarrà l’anticipata sofferenza dei prossimi congiunti [Cass. n. 3357/2009]. Rilevanti, poi, sono la particolare gravità del fatto e le conseguenze afflittive subite a cagione di eventuali peculiarità del rapporto con la vittima, eventualmente emerse dalle prove acquisite e riguardo ai quali si è già detto sopra.

Ciò premesso può quindi procedersi alla quantificazione del danno non patrimoniale patito dall’attrice considerando, quali circostanze di fatto emerse nel processo, l’età della vittima (di anni 51) e dei componenti del nucleo familiare stretto (la ancor giovane età della moglie del defunto, madre dell’attrice, e la giovanissima età delle altre due sorelle) e le modalità improvvise e tragiche del decesso, come si evincono dalla relazione del medico legale che ha svolto l’autopsia.

In relazione a tutti i detti parametri, si ritiene equa una determinazione di € 250.000,00. Si tratta di una voce di danno omnicomprensiva e già liquidata all’attualità, non sussistendo ulteriori elementi emersi nel corso del processo che possano giustificare un’ulteriore personalizzazione rispetto a quella “standard” delle tabelle di Milano (si ricorda che le Tabelle prendono in considerazione il cd. punto dinamico, già quantificando il quello che viene definito il cd. danno morale, in chiave meramente descrittiva).

Tale valore va decurtato del 5% per l’apporto di responsabilità della vittima, e dunque va riconosciuto all’attrice un risarcimento di € 237.500,00. Va inoltre detratto alla detta somma l’importo della provvisionale, rivalutato alla data odierna in € 56.047,10.

Trattandosi di credito risarcitorio, vanno inoltre riconosciuti gli interessi legali, calcolati, secondo l’ormai costante orientamento giurisprudenziale, con decorrenza dal fatto sulla somma devalutata alla data del fatto e poi rivalutata anno per anno: la predetta somma determinata all’attualità, costituendo debito di valore, secondo i consolidati principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in materia, deve poi essere devalutata alla data del fatto e sulla somma annualmente rivalutata secondo gli indici ISTAT dovranno computarsi gli interessi compensativi nella misura del saggio legale fino al momento del deposito della presente decisione.

Dal momento della pronunzia della presente sentenza e sino all’effettivo soddisfo, infine, con la trasformazione dell’obbligazione di valore in debito di valuta, dovranno essere corrisposti gli ulteriori interessi al tasso legale, ex articolo 1282 c.c. sulla somma totale sopra liquidata all’attualità.

È opportuno, infine, fare qualche osservazione in merito al rifiuto (di fatto) di KKK di aderire alla proposta conciliativa formulata e alla quale, con le modifiche suggerite dalla difesa dei convenuti, avevano manifestato di poter aderire le altre parti.

La proposta formulata ai sensi dell’articolo 185 bis c.p.c., com’è noto, si fonda sull’esame del materiale istruttorio acquisito fino a quel momento da parte dello stesso giudice che, in caso di mancato accordo, deciderà la causa con sentenza. Ovviamente il meccanismo previsto dal codice non prevede l’obbligo cogente di accogliere la proposta, la quale, appunto tale resta: e tuttavia non sarebbe armonico nel sistema complessivo, che sempre più tende a favorire modalità alternative di definizione dei conflitti, ritenere che le parti siano libere di non tenerla in considerazione alcuna: nel formularla, il giudice compie infatti uno studio e una valutazione degli elementi dedotti e acquisiti in causa, delle difese svolte, dell’atteggiamento delle parti, di ciò che concretamente può essere posto sul tavolo della definizione eliminando quanto non utile (ciò che non è dimostrato, ciò che è strategia difensiva e così via) e proprio per questo giungere a una formulazione comporta anche un’assunzione di responsabilità oltre che un impegno concreto che può essere anche di notevole entità. E proprio per questa ragione il legislatore si è preoccupato di prevedere il divieto di ricusazione, giacché in caso contrario a poco (forse solo a consentire la ricusazione!) la norma sarebbe servita.

Poiché, dunque, l’istituto ha la sua importanza nella generale ottica deflattiva e per l’impegno che esige, non sarebbe coerente lasciare che la totale indifferenza delle parti resti senza effetto, soprattutto quando l’indifferenza tende a coltivare la protrazione della controversia in modo irragionevole o immotivato.

Recita l’articolo 88 c.p.c. che le parti e i loro difensori hanno il dovere di comportarsi in giudizio con lealtà e probità e vi fa da specchio il principio di cui all’articolo 116, comma 2 c.p.c. laddove dà facoltà al giudice di desumere argomenti di prova, tra l’altro e in generale, dal contegno delle parti nel processo. Coerente con i detti principi sarebbe aver cura di prendere in esame con attenzione e diligenza la proposta conciliativa e di fare quanto possibile per adottarla (se non quale soluzione del conflitto) quale piattaforma di discussione; e nel caso in cui tale operazione resti infruttuosa, fare emergere all’udienza di verifica con lealtà la rispettiva e concreta posizione al riguardo, esplicando le ragioni per cui essa non è stata ritenuta idonea a raggiungere un accordo né a discuterne in modo anche alternativo.

Ciò che non è ammissibile è, invece, il rifiuto pregiudiziale o quello che tende a dilazionare al massimo i tempi della lite, quello palesemente irragionevole, in contrasto con le risultanze oggettive della causa, specialmente se il materiale offerto dall’istruttoria sia ampio e soddisfacente, non aperto a (fondate) interpretazioni contrastanti.

È naturale che in questa prospettiva, non vi è alcuno spazio sanzionatorio (altrimenti verrebbe meno la stessa razionalità dell’istituto), quanto piuttosto l’aspettativa ovvia che la decisione resa con la sentenza non potrà mai essere sovrapponibile al contenuto della proposta, la quale si avvantaggia degli strumenti conciliativi e dunque può stemperare grazie a componenti equitative e in senso lato “transattive” questa o quella pretesa, questo o quell’effetto: ciò che in sentenza non è possibile. L’irragionevole rifiuto, può, nell’ambito delle valutazioni complessive, venire in considerazione agli effetti di valutare, su istanza dell’altra, se la parte medesima abbia agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave al fine di una condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che il giudice liquida, anche di ufficio, nella sentenza; o per le valutazioni di cui all’ultimo comma dell’articolo 96 c.p.c. per il quale in ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata.

La norma in questione presuppone la condanna della parte in quanto soccombente e non è ovviamente applicabile alla parte vittoriosa.

Secondo la giurisprudenza di legittimità non può farsi applicazione della disposizione di cui all’articolo 91, comma 1 secondo periodo che presuppone anche secondo la più recente interpretazione dei giudici costituzionali [C. Cost. n. 268/20], la quale conferma quella dei giudici di legittimità a sezioni unite [Cass., sez. un., n. 21109/17], che la proposta conciliativa rifiutata provenga dalla controparte, restando esclusa quella formulata dal magistrato ai sensi dell’articolo 185 bis c.p.c..

La giurisprudenza di merito, invece, fa tranquilla applicazione del detto principio operando, anche in caso di vittoria, una riduzione per le spese i cui parametri siano riferibili alle fasi successive al rifiuto della proposta e che avrebbero potuto essere evitate [Tribunale di Catania, 1 marzo 2019; Tribunale di Nocera Inferiore, 27 agosto 2013].

La norma richiamata presuppone, in ogni caso, che la domanda sia accolta in misura non superiore alla proposta conciliativa, ciò che non è nel caso di specie considerando gli importi complessivamente riconosciuti in una sede e nell’altra, la decurtazione della provvisionale e gli accessori. Non vi è dunque spazio in questo ambito per sanzionare il comportamento processuale di KKK, alla luce di tutti gli elementi che in questa fase decisionale hanno condotto alla valutazione delle singole posizioni dei responsabili dell’infortunio.

Le spese giudiziali, liquidate come in dispositivo secondo i parametri medi di cui al D.M. 55/14 in virtù del valore della controversia, seguono la sostanziale soccombenza, non ravvisandosi nel rigetto di parte della domanda (quanto al danno biologico-psichico) ragione suscettibile di valutare una reciproca soccombenza anche solo parziale, per entità e valore come si evincono dall’atto di citazione in rapporto alla principale voce del danno da perdita del congiunto. Si procede a riduzione del 50% per la fase introduttiva, non particolarmente complessa come si deduce dal tenore degli atti.

La liquidazione si opera in modo unitario in favore dell’attrice: la pronuncia di un’unica condanna alle spese di causa, con liquidazione cumulativa, è consentita infatti a carico di più parti soccombenti come disposto dall’articolo 97 c.p.c..

P.Q.M.

Il Tribunale in composizione monocratica, definitivamente pronunciando, così provvede:

a) accoglie la domanda nei sensi di cui in motivazione e condanna ZZZ, la società YYY S.R.L. in persona del legale rappresentante pro tempore, KKK e JJJ al pagamento, in solido tra loro e in favore di XXX, della somma all’attualità di € 237.500,00 a titolo di risarcimento per il danno alla persona, a detrarsi la somma già eventualmente corrisposta in virtù della provvisionale concessa in sede penale rivalutata, e oltre interessi da calcolarsi come indicato in motivazione al tasso legale sulla somma devalutata alla data del fatto e poi rivalutata secondo gli indici Istat di variazione dei prezzi al consumo per gli anni successivi di anno in anno, fino al deposito della presente sentenza e oltre interessi legali dal deposito della sentenza fino al soddisfo;

b) condanna ZZZ, la società YYY S.R.L. in persona del legale rappresentante pro tempore, KKK e JJJ, in solido tra loro e in favore di XXX, al pagamento delle spese di lite del presente grado di giudizio che si liquidano in € 558,00 per esborsi ed € 12.655,00 per onorari, oltre rimborso forfetario come per legge, IVA e CPA., con attribuzione ex articolo 93 c.p.c. all’avvocato che ha dichiarato di averne fatto anticipo.

Santa Maria Capua Vetere, 1 maggio 2022

La giudice

 


[1] così definita nella sentenza che ha concluso il processo di primo grado.

[2] Sul fatto, senza dubbio accertato in sede penale e come si evince dai documenti prodotti, la negazione operata dall’interrogato ZZZ, peraltro responsabile del delitto di frode processuale, sui fatti oggetto dei capitoli 4) e 5) della memoria istruttoria dell’attrice è assolutamente ininfluente. Il maresciallo *** della Stazione CC di Vairano Scalo, accorso per il primo intervento, all’udienza del 22 settembre 2017 ha dichiarato: «[…] Noi abbiamo fatto il primo intervento: posso dire che sul luogo non vi era tutta la cartellonistica e i segnali che dovrebbero esserci in un luogo di estrazione. […] Nel giorno del primo intervento, come ho detto prima, non vi erano cartelli o qualsiasi altro dispositivo che potesse descrivere la pericolosità dei luoghi e quelli previsti nella normativa antinfortunistica. […] ricordo che abbiamo acceduto liberamente, senza alcuna difficoltà fino a sotto la zona di estrazione. […] quando siamo arrivati il corpo era in prossimità del luogo dove si trovava il suo camion destinato a ricevere il materiale e la pala, la quale “a cucchiaio” prelevava il detto materiale dal cumulo dove era riposto dopo l’estrazione. Posso dire che il cumulo si trovava molto vicino alla parete da dove veniva estratto il materiale.».

 

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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