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Perdita di esercizio, limiti del terzo della misura di capitale

La dottrina largamente maggioritaria e parte significativa della giurisprudenza di merito affermano che il fatto determinante lo scioglimento della società non è la riduzione del capitale al disotto del minimo legale, per effetto di una perdita di qualunque consistenza quantitativa, ma che l’evento dissolutivo in parola si verifica solo quando la perdita di esercizio è superiore al terzo del capitale e lo riduce al disotto di tale ammontare minimo. Nell’azione di responsabilità promossa dal curatore di fallimento ai sensi della L. Fall. ,

La dottrina largamente maggioritaria e parte significativa della giurisprudenza di merito affermano che il fatto determinante lo scioglimento della società non è la riduzione del capitale al disotto del minimo legale, per effetto di una perdita di qualunque consistenza quantitativa, ma che l’evento dissolutivo in parola si verifica solo quando la perdita di esercizio è superiore al terzo del capitale e lo riduce al disotto di tale ammontare minimo.

Tale interpretazione non è desunta dalla lettera dell’articolo 2448 c.c., comma 1, n. 4), che, nel “far salvo quanto disposto dall’articolo 2447 c.c.“, non prende posizione in ordine alla consistenza quantitativa della perdita che ha determinato la riduzione del capitale al disotto del minimo legale; chiamando in giuoco l’articolo 2447, nella sua parte precettiva, costituita dall’obbligo per gli amministratori di convocare senza indugio l’assemblea per l’adozione delle deliberazioni, direttamente (riduzione del capitale e suo contemporaneo aumento a una cifra non inferiore a quella minima prevista dalla legge) ovvero indirettamente (trasformazione della società) ripristinatorie del minimo di capitale; deliberazioni costituenti – per costante giurisprudenza di legittimità – condizione risolutiva, con effetto ex tunc, dello scioglimento della società, verificatosi quando il capitale sia sceso al disotto della misura minima prevista dalla legge (nel senso da ultimo precisato, cfr., per tutte: Cass. n. 9619 del 2009; Cass. n. 4923 del 1995; Cass. n. 8928 del 1994; Cass. n. 4089 del 1980).

L’interpretazione dell’articolo 2448 c.c., comma 1, n. 4), fondata sul solo suo dato letterale determina però una quanto mai rilevante amputazione della parte descrittiva della fattispecie contenuta nell’articolo 2447 c.c., costituente il presupposto dell’insorgere degli obblighi da tale disposizione di legge previsti: id est, la diminuzione del capitale oltre il minimo legale causata dalla “perdita di oltre un terzo del capitale”.

Tale amputazione provoca rilevante distonia fra disposizioni di legge fra loro complementari.

Come autorevole dottrina non ha mancato di rimarcare, la tesi derivata dalla mera interpretazione letterale dell’articolo 2448 c.c., comma 1, n. 4), “finirebbe col sottoporre la conseguenza più grave, vale a dire lo scioglimento, a presupposti obiettivi minori (qualunque perdita incidente sul minimo legale) di quelli (perdita di oltre un terzo del capitale che incida sul minimo legale) richiesti per la conseguenza meno grave, vale a dire l’obbligatoria (riduzione e) ricostituzione del capitale”; con il risultato di determinare “una arbitraria mutilazione logica dell’articolo 2447 c.c., nella sua parte descrittiva di fattispecie”, non avendo altrimenti senso il rilievo, dato da tale articolo di legge, al limite del terzo “se la società fosse comunque costretta a provvedere di fronte a perdite di qualsiasi misura indenti sul minimo legale di capitale”.

Tali argomenti sono da condividere in ragione della logica intrinseca che li caratterizza.

L’interpretazione dell’articolo 2448 c.c., comma 1, n. 4), non può dunque prescindere dall’intero contenuto del precedente articolo 2447, sì che:
fino a quando la perdita di esercizio si contiene entro i limiti del terzo della misura di capitale scelta dai soci al momento in cui tale evento si verifica, anche se tale misura è quella (minima) imposta dalla legge per il modello societario adottato, non vi è obbligo per gli amministratori di convocare senza indugio l’assemblea per l’adozione di una delle decisioni indicate dall’articolo 2447 c.c., e tale inerzia, ovvero una decisione assembleare diversa da quelle prescritte da tale articolo, non comporta conseguenze negative di sorta quanto alla vita della società;
è solo la perdita di esercizio superiore al terzo del capitale e incidente sul suo ammontare minimo che determina, per volontà della legge (il citato articolo 2448 c.c.), lo scioglimento della società.

Principio di diritto:
L’articolo 2448 c.c., comma 1, n. 4), (nel testo anteriore all’entrata in vigore del Decreto Legislativo 17 gennaio 2003, n. 6, ratione temporis applicabile al caso di specie), che prevede lo scioglimento della società di capitali “per la riduzione del capitale al disotto del minimo legale, salvo quanto è disposto dall’articolo 2447“, si interpreta nel senso che tale evento: si verifica solo quando la perdita di esercizio di consistenza superiore al terzo del capitale determina la riduzione di questo al disotto del minimo stabilito dalla legge (articolo 2327 c.c., per la società per azioni; articolo 2474 c.c., per la società a responsabilità limitata); non si verifica quando la perdita di capitale, pur determinando la riduzione di questo al disotto del minimo stabilito dalla legge, sia pari o inferiore al terzo del capitale medesimo.

Nell’azione di responsabilità promossa dal curatore di fallimento ai sensi della L. Fall., articolo 146, comma 2, contro l’ex amministratore di una società, poi fallita, che abbia violato il divieto di compiere nuove operazioni sociali dopo l’avvenuta riduzione, per perdite, del capitale sociale al disotto del minimo legale (articolo 2449 c.c., nel testo anteriore all’entrata in vigore del Decreto Legislativo 17 gennaio 2003, n. 6, ratione temporis applicabile al caso di specie), il giudice, ove, nella quantificazione del danno risarcibile, si avvalga, ricorrendone le condizioni, del criterio equitativo della differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare, temperato dalla espunzione da tale differenza del passivo formatosi successivamente al verificarsi dello scioglimento della società, deve indicare le ragioni per le quali, da un lato, l’insolvenza sarebbe stata conseguenza delle condotte gestionali dell’amministratore e, dall’altro, l’accertamento del nesso di causalità materiale tra queste ultime e il danno allegato sarebbe stato precluso dall’insufficienza delle scritture contabili sociali; e ciò sempre che il ricorso a tale criterio equitativo sia, in ragione delle circostanze del caso concreto, logicamente plausibile e, comunque, l’attore abbia allegato un inadempimento dell’amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore medesimo.

Corte di Cassazione, ordinanza n. 4347 del 10 febbraio 2022

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