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Lavoro, intermediazione ed interposizione

Il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro, appalto avente ad oggetto la messa a disposizione di una prestazione lavorativa.

Pubblicato il 16 September 2021 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

REPUBBLICA ITALIANA
In nome del popolo italiano
La Corte di Appello di Firenze
Sezione lavoro

SENTENZA n. 528/2021 pubblicata il 03/09/2021

nelle persone dei Magistrati:

nella causa iscritta al n. /2020 RG

 promossa da

XXX

appellante nei confronti di YYY S.p.A.

 appellata, appellante in via incidentale

Oggetto: Appello avverso la sentenza del Tribunale di Siena, giudice del lavoro, n. 143/2019, pubblicata il 25.3.2020

*******

Rilevato che l’art. 221 del d.l. 19-5-2020 n. 34 convertito con modificazioni nella l. 17-7-2020 n. 77 (rubricato «Modifica all’art. 83 del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18 convertito con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27 e disposizioni in materia di processo civile e penale») al comma 4 stabilisce che: «4. Il giudice può disporre che le udienze civili che non richiedono la presenza di soggetti diversi dai difensori delle parti siano sostituite dal deposito telematico di note scritte contenenti le sole istanze e conclusioni. Il giudice comunica alle parti almeno trenta giorni prima della data fissata per l’udienza che la stessa è sostituita dallo scambio di note scritte e dà alle parti un termine fino a cinque giorni prima della predetta data per il deposito delle note scritte. Ciascuna delle parti può presentare istanza di trattazione orale entro cinque giorni dalla comunicazione del provvedimento. Il giudice provvede entro i successivi cinque giorni. Se nessuna delle parti effettua il deposito telematico di note scritte, il giudice provvede ai sensi del primo comma dell’articolo 181 del codice di procedura civile»;

-rilevato che, in attuazione di tale norma, con decreto del 22.3.2021 (confermato con ordinanza del 22.4.2021), la Presidente ha disposto che la discussione della presente causa fosse sostituita dallo scambio e dal deposito telematico di note scritte

– rilevato che le parti hanno depositato note scritte nel termine assegnato;

all’udienza del 8 luglio 2021, tenutasi con le modalità sopra descritte, con separato dispositivo, ha emesso la seguente

SENTENZA 

Il Tribunale di Siena, con la sentenza appellata, ha respinto il ricorso proposto da XXX nei confronti di YYY diretto a far dichiarare l’illegittimità dei contratti di appalto in forza dei quali egli ha lavorato presso YYY dal 1.12.1981 ad oggi e la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato direttamente con tale utilizzatore, con diritto al ripristino del rapporto stesso ed al pagamento delle spettante retributive.

Il XXX rappresenta infatti di aver lavorato in favore di YYY sin dal 1981, formalmente assunto alle dipendenze di diverse ditte che hanno stipulato con YYY contratti di appalto aventi ad oggetto servizi vari di trasporto. Deduce sotto diversi aspetti l’illegittimità formale e sostanziale dei contratti di appalto evidenziando come il rapporto di lavoro debba essere imputato per tutto il periodo a YYY, come effettivo e sostanziale datore di lavoro.

Il Tribunale di Siena, espletata ampia prova testimoniale, ha respinto il ricorso del XXX ritenendo, in sintesi, legittimi i contratti di appalto impugnati e non ravvisando in capo a YYY l’esercizio di un potere direttivo tale da rendere la committente effettivo datore di lavoro del ricorrente. Ha compensato le spese di lite tra le parti.

XXX appella la sentenza sulla base di 6 motivi di merito:

– Dal punto di vista formale evidenzia come – almeno per alcuni periodi (01/1/2010 al 23/03/2010, dal 25/09/2012 al 07/03/2013) – il rapporto di lavoro si sia svolto in assenza di un contratto di appalto con il formale datore di lavoro dell’odierno appellante. Sostiene che secondo la normativa in vigore il contratto di appalto non potrebbe che essere stipulato in forma scritta;

– Violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c.; Il Tribunale di Siena ha ampiamente richiamato le previsioni del CCNL servizi postali in appalto senza che tale contratto fosse depositato in atti dalle parti;

– La sentenza di primo grado viene censurata anche per aver ritenuto insussistente l’esercizio di un potere direttivo da parte dei preposti di YYY nei confronti del XXX. Viene qui contestata la valutazione delle prove orali effettuata dal primo Giudice e dei documenti con particolare riferimento ai modelli MPT e Mod. 36 con i quali YYY dettava precise disposizioni circa lo svolgimento del servizio appaltato;

– Errata la sentenza di primo grado anche per non aver considerato che alcune prestazioni lavorative sono state svolte dal XXX al di fuori delle previsioni contenute nel capitolato di appalto (es. consegna dei quotidiani) e comunque in violazione della legge che riserva agli agenti postali determinati servizi;

– Erroneamente il primo giudice ha ritenuto che in capo alle ditte appaltatrici sussistesse un rischio di impresa;

– Errata valutazione delle deduzioni circa la mancanza del documento di valutazione dei rischi.

YYY si è costituita in giudizio chiedendo il rigetto dell’appello, con conferma della prima sentenza.

Con apposito appello incidentale ha rinnovato le questioni sollevate in primo grado e non considerate dal Tribunale di Siena:

– Difetto di giurisdizione del G.O. – in favore del G.A. – per ogni questione relativa al periodo antecedente alla adozione del primo

CCNL del 1994;

– Prescrizione delle eventuali ragioni di credito del XXX;

– Omesso deposito dei CCNL che non consente, in ogni caso, di valutare le domande a contenuto economico del XXX.

Infine, secondo YYY, in caso di accoglimento della domanda del lavoratore, il rapporto dovrebbe essere costituito a tempo parziale, così come lo stesso era regolato con le società appaltatrici. La Corte adita, inoltre, dovrà accertare, stante le intervenute dimissioni da parte dell’appellante formulate il 10/09/2018 (Doc.9), di cui YYY è venuta a conoscenza solo successivamente alla pronuncia impugnata in questa sede, che il rapporto di lavoro è cessato a fare data dal 01/11/2018 con ogni conseguenza ed effetto di legge.

Così ricostruiti i termini della vicenda, secondo questa Corte territoriale l’appello è fondato e merita accoglimento secondo ragione e diritto.

Logicamente preliminare è la questione di giurisdizione: YYY insiste, anche in questo giudizio d’appello, nel sostenere che fino all’entrata in vigore del primo CCNL (ossia prima del 26.11.1994) difetterebbe la giurisdizione del G.O. adito.

Il lavoratore, da parte sua, non contesta tale impostazione ma precisa che l’eventuale difetto di giurisdizione non preclude la tutela ex art. 2126 c.c. che era stata chiesta sin dal primo grado.

L’eccezione sollevata da YYY è, in parte fondata ma l’impostazione difensiva del XXX può essere condivisa.

Le S.U. della S.C. hanno chiarito che le controversie concernenti il rapporto di lavoro dei dipendenti dell’Amministrazione delle YYY e delle telecomunicazioni proYYY dopo la disposta privatizzazione di detto rapporto di lavoro – privatizzazione avvenuta a seguito della trasformazione dell’Amministrazione postale in ente pubblico economico “ex” art. 1 D.L. n. 487 del 1993, convertito, con modificazioni, nella legge n. 71 del 1994, con effetto dalla data di efficacia dei decreti di nomina degli organi dell’ente, emanati il 23 dicembre 1993 e pubblicati nella G.U. del 31 dicembre 1993 – sono devolute, ai sensi dell’art. 10 di detto D.L., alla cognizione dell’autorità giudiziaria ordinaria, in considerazione della natura privatistica di detto rapporto “ex” art. 6, secondo comma, del citato D.L., che non è esclusa dalla disposizione del sesto comma dell’art. 6, ult. cit., la quale, prevedendo che, sino alla stipulazione di un nuovo contratto collettivo di lavoro, ai dipendenti dell’ente continuano ad applicarsi i trattamenti vigenti alla data di entrata in vigore della nuova disciplina, stabilisce un assetto transitorio della normativa sostanziale. Inoltre, sull’attribuzione delle controversie all’autorità giudiziaria ordinaria derivante da dette norme, e sulla data dalla quale si è verificata detta devoluzione, non hanno inciso né l’ulteriore trasformazione dell’ente in società per azioni (art. 1, secondo comma, D.L. n. 487 del 1993, modificato dall’art. 2, ventisettesimo comma, della legge n. 662 del 1996), in quanto al tempo in cui questa è stata perfezionata il rapporto di lavoro era già stato privatizzato, né l’art. 1 del D.L. n. 269 del 1994, il quale, in riferimento agli enti pubblici trasformati in enti pubblici economici o in società di diritto privato, prevede che continuano ad essere attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro svoltesi anteriormente alla trasformazione, poiché detta norma reca una disciplina transitoria concernente esclusivamente le trasformazioni effettuate in data successiva alla sua entrata in vigore e, conseguentemente, non è applicabile alle controversie aventi ad oggetto il rapporto di lavoro dei dipendenti degli enti già trasformati” (Cass. S.U. n. 8691 del 2005).

Sussiste quindi certamente la giurisdizione dell’adito G.O. ma da essa esula la domanda avente ad oggetto la costituzione di un rapporto di lavoro con YYY per il periodo precedente alla sua trasformazione, trattandosi di pretesa costituzione di un rapporto di pubblico impiego.

È stato infatti chiarito che – proprio in tema di intermediazione illecita di manodopera – l’estensione alle aziende dello Stato ed agli enti pubblici della disciplina introdotta dalla l. n. 1369 del 1960 (ex art. 1, comma 4), applicabile “ratione temporis”, va coordinata con il principio costituzionale dell’accesso agli impieghi pubblici mediante concorso, sicché, anche nelle ipotesi in cui l’intermediazione illecita si riferisca ad un’attività gestita in forma imprenditoriale dalla P.A., non può costituirsi un valido rapporto di impiego, ai sensi del comma 5 dell’art. 1, prevalendo il divieto sancito dall’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001 (e, in precedenza, dall’art. 36 del d.lgs. n. 29 del 1993), con conseguente nullità del rapporto di lavoro ed applicabilità dei limitati effetti previsti dall’art. 2126 c.c. (Cass. 28260 del 2017).

Negli stessi termini, la S.C. ha precisato che il rapporto di lavoro subordinato instaurato da un ente pubblico non economico per i suoi fini istituzionali, affetto da nullità perché non assistito da regolare atto di nomina o addirittura vietato da norma imperativa, rientra nella sfera di applicazione dell’art. 2126 cod. civ., con conseguente diritto del lavoratore al trattamento retributivo e alla contribuzione previdenziale per il tempo in cui il rapporto stesso ha avuto materiale esecuzione (Cass. 1639 del 2012).

In conclusione, sul punto, ritiene la Corte che non si possa comunque accogliere la domanda “costitutiva” del rapporto prima del 26.11.1994 ma – se dovuta – ben si possa riconoscere la tutela ex art. 2126 c.c. per il periodo precedente, ovviamente nei limiti della domanda.

L’appello incidentale di YYY merita quindi accoglimento entro i limiti ora delineati.

Passando al merito, questa Corte ha recentemente deciso una controversia in larga parte analoga alla presente ed a questa decisione si intende dare continuità (sentenza del 4.2.2021, RG. 164/2020).

Giova ricordare che ai sensi dell’art. 1655 c.c. l’appalto è definito come il contratto con il quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in denaro. I caratteri essenziali del contratto di appalto sono quindi costituiti dal compimento dell’opera o del servizio verso un corrispettivo in denaro e dall’assunzione di tale obbligo da parte di un imprenditore, ossia da parte di un soggetto che agisce in maniera autonoma rispetto al committente ed a tal fine organizza i mezzi necessari a proprio rischio.

Le ipotesi nelle quali un soggetto utilizzi la prestazione lavorativa di personale non assunto direttamente ma fornito da altro soggetto appositamente autorizzato risultano successivamente disciplinate dal D.Lvo n. 276 del 2003 con l’istituto della somministrazione di lavoro (artt.20 e seguenti ).

L’art. 29 del Decreto citato espressamente prevede che “Ai fini della applicazione delle norme contenute nel presente titolo, il contratto di appalto, stipulato e regolamentato ai sensi dell’articolo 1655 del codice civile, si distingue dalla somministrazione di lavoro per la organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore, che puo’ anche risultare, in relazione alle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, nonche’ per la assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d’impresa”.

La somministrazione di lavoro si distingue dunque dall’appalto stipulato e regolamentato ai sensi dell’art. 1655 c.c. per “la organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore”.

La norma tuttavia precisa poi che tale “organizzazione” può anche risultare, in relazione all’esigenza dell’opera o del servizio dedotti in contratto, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, nonché per l’assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d’impresa”.

In altre parole, è ben possibile che nel contratto di appalto “l’organizzazione dei mezzi necessari” non preveda la fornitura da parte dell’appaltatore dei materiali e degli strumenti necessari per l’espletamento del servizio ma che tale “organizzazione” sia rappresentata dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, tenuto conto della peculiarità dell’opera o del servizio dedotti in contratto.

La S.C. ha più volte precisato, in riferimento ai c.d. fenomeni interpositori, che il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro, sancito dall’art. 1 della legge n. 1369 del 1960, opera nel caso in cui l’appalto abbia ad oggetto la messa a disposizione di una prestazione lavorativa, attribuendo all’ appaltatore i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto in assenza di una reale organizzazione della prestazione stessa finalizzata ad un risultato produttivo autonomo ( Cass. 19920 del 2011).

E’ d’interesse richiamare – trattandosi di rapporto sorto nel 1981 – la giurisprudenza formatasi in merito alla L. n. 1369 del 1960, art. 1. La Corte di Cassazione, più volte, ha affermato che il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro (della L. n. 1369 del 1960, art. 1), in riferimento agli appalti “endoaziendali”, caratterizzati dall’affidamento ad un appaltatore esterno di tutte le attività, ancorché strettamente attinenti al complessivo ciclo produttivo del committente, opera tutte le volte in cui l’appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all’appaltatore – datore di lavoro i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), ma senza che da parte sua ci sia una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo (vedi Cass. 9 marzo 2009, n. 5648; 30 agosto 2007, n. 18281; 5 ottobre 2002, n. 14302). Da ultimo (Cass., n. 12201 del 2011), si è affermato che, se è vero che, nella vigenza del regime di cui alla L. n. 1369 del 1960 (ora abrogata dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 85, comma 1, lett. c),), uno degli indici principali dell’interposizione è stato ravvisato nell’assoggettamento dei dipendenti dello pseudo appaltatore al potere direttivo e di controllo dell’effettivo utilizzatore delle prestazioni lavorative (Cass. n. 86431 del 2001, Cass. n. 3196 del 2000, Cass. n. 5087 del 99), in quanto tale situazione denoterebbe l’assenza di un vero appalto, che si caratterizza per l’utilizzazione diretta della prestazione lavorativa da parte dell’appaltatore, con esercizio del potere direttivo e di controllo da parte di quest’ultimo, quale creditore della prestazione lavorativa del personale da lui dipendente, è anche vero che l’esercizio di un potere di controllo da parte del committente è compatibile con un regolare contratto di appalto e che, sotto questo profilo, può ritenersi legittima la predeterminazione da parte del committente anche delle modalità temporali e tecniche di esecuzione del servizio o dell’opera oggetto dell’appalto che dovranno essere rispettate dall’appaltatore, con la conseguenza che “non può ritenersi sufficiente ai fini della configurabilità di un appalto fraudolento, la circostanza che il personale dell’appaltante impartisca disposizioni agli ausiliari dell’appaltatore, occorrendo verificare se le disposizioni impartite siano riconducibili al potere direttivo del datore di lavoro, in quanto inerenti a concrete modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative, oppure al risultato di tali prestazioni, che può formare oggetto di genuino contratto di appalto” (Cass. n. 13015 del 1993, cui adde Cass. n. 9398 del 1993, secondo cui per valutare la legittimità dell’appalto, il giudice deve tener conto anche “delle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa che manifestino la sussistenza di un rapporto di subordinazione diretta con il committente”). Tanto richiamato, ritiene la Corte che ferma la ratio legis che sottende la disciplina di cui al D.Lgs. n. 276 del 2003 e l’autonomia e la specificità degli istituti ivi previsti, rispetto alle disposizioni previgenti abrogate dal medesimo D.Lgs. e alle disposizioni del codice civile, l’interprete può, tutt’ora, rinvenire nei principi sopra richiamati alcuni parametri significativi al fine della verifica della ricorrenza o meno di un contratto di appalto attraverso il quale si intenda eludere le disposizioni che disciplinano il mercato del lavoro. Ciò, in particolare, tenendo conto che il citato art. 29 fa riferimento, giova ribadirlo, nell’indicare le peculiarità del contratto di appalto, all'”organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenze dell’opera o del servizio dedotti in contratto, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, nonché per la assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d’impresa”, e, dunque, naturalmente, nei limiti della persistenza, nelle disposizioni vigenti, di analoghi indici rivelatori della insussistenza di un contratto di appalto di opere e di servizi ( in tal senso la Cass. n. 15615 del 2011).

Orbene, l’istruttoria svolta in primo grado ha dimostrato che nel periodo in questione il XXX ha svolto un’attività pienamente inseribile nel processo produttivo di YYY.

L’attività, come riferita dalla teste ***, già responsabile del Servizio Trasporti, era molto ampia: gli oggetti degli appalti è il servizio di trasporto postale da una struttura all’altra; la vuotatura delle cassette di impostazione. Quindi, diciamo, intendendo strutture, da una struttura all’altra si intende sia l’Ufficio Postale che eventualmente un ufficio di recapito, quindi la vuotatura delle cassette di impostazione e negli ultimi contratti viene indicato anche attività accessorie. Quindi ci sono anche i ritiri verso clienti, quindi i pick up, quelle attività che sono, diciamo, servizi postali da e per le strutture piuttosto che i clienti. Più servizi accessori perché a fine 2010 quando YYY ha avuto il consenso a lavorare su cinque giorni anziché su sei, nei servizi accessori è stato compresa la consegna dei quotidiani al sabato.

Anche il teste *** ha confermato che l’attività svolta dagli esterni, tra i quali il XXX, coincideva in larga parte con quella ordinaria dell’Ente YYY: A questi esterni era affidato il compito di prendere la mattina le cassette della corrispondenza e le raccomandate, che sarebbero no così volanti, proprio nelle specifiche cassette con tanto di volanda e le portavano nei vari posti. Per dire Montepulciano e paesi limitrofi.

La consegna non riguardava solo i quotidiani ma tutti gli invii postali, tranne le raccomandate e le assicurate, ed avveniva tutti i giorni.

La testimone *** ha confermato le stesse circostanze: noi si facevano le lavorazioni, si preparavano tutti i roller coi nomi, Paesi, loro si prendevano i loro roller, li caricavano e li portavano a destinazione.

Per quanto riguarda l’esercizio del potere direttivo – che nei termini ora delineati assume valore decisivo – è emerso che l’organizzazione del servizio, nel dettaglio, era effettuata da YYY.

In riferimento ai modelli MPT e Mod. 36, la teste *** ha chiarito che: l’acronimo MPT vuol dire Modello Pianificazione Trasporto ed è diamo quella esplicitazione di necessità operative che vengono, che scaturiscono da determinato territorio. Quindi ogni modello riporta alcune attività da fare, i vari modelli sono quelli che poi compongono il contratto perché sono quelli andati a gara d‟appalto. In un MPT ci sono indicati i servizi da effettuare che possono essere la vuotatura delle cassette piuttosto che l‟Ufficio Postale da ritirare, piuttosto che la consegna all‟Ufficio Postale. Può essere indicata l‟alimentazione presso un ufficio di recapito con il ritiro della corrispondenza da un altro e portare a quell‟altro con un orario di inizio attività e di fine attività. Quell‟orario di inizio e fine è un orario che ovviamente si basa su quelle che sono le necessità che YYY ha. Cioè se c‟è da portare la corrispondenza ai portalettere di un posto, non possiamo dire alla ditta vieni a prenderla e portala quando tu vuoi, perché i portalettere devono fare poi le consegne. Quindi entro le otto e trenta, quindi l’orario lo diamo. Ugualmente il ritiro agli Uffici Postali. Da contratto di programma con i Governo rispetto a quelli che sono gli standard dei prodotti, ci sono prodotti che hanno la consegna il giorno dopo piuttosto che la consegna quattro giorni dopo. Però per stabilire i tempi di consegna è stabilito anche un orario limite di accettazione che è genericamente le dodici. Diciamo poi ci sono uffici che hanno anche le quattordici piuttosto che le sedici per quanto riguarda le grandi metropoli. Quindi va da sé che gli orari di ritiro presso gli Uffici Postali non possono essere prima di quegli orari delle dodici piuttosto che delle quattordici perché altrimenti contravverremo a quelli che sono gli impegni che ha preso YYY ma soprattutto per garantire ai clienti le spedizioni che vengono fatte. Rispetto agli orari degli operatori sugli MPT, cioè, io sinceramente non credo che siano quelli gli orari perché se il furgone ha da fare anche il rifornimento di benzina mi immagino che la ditta dica agli operatori alla fine del servizio fai il rifornimento del furgone per il giorno dopo. E quindi, diciamo, quel tempo per fare il rifornimento immagino che faccia parte dell‟orario dell‟operatore ma che ovviamente non è un orario che YYY paga alla ditta.

Si conferma quindi quanto, sul punto specifico, questa Corte, nella citata sentenza del 4.2.2021, ha già precisato: “Tali modelli contengono infatti una specifica previsione dei singoli percorsi richiesti all’appaltatore, della sequenza e degli orari di ogni sosta oltre che del chilometraggio da percorrere (cfr. peraltro sul punto espressamente pag. 4 della memoria di costituzione di YYY in primo grado, che in tali termini descrive gli MPT, ma si vedano anche le difese svolte in questo grado dall’appellante a pag. 36 dell’appello e riportate sopra testualmente), così che di necessità, già secondo il programma negoziale descritto dall’odierna appellante e documentato dai contratti commerciali in atti e relativi allegati, la prestazione dei dipendenti del formale appaltatore impiegati nei servizi commessi era preventivamente regolata nella maniera più dettagliata dal committente”.

Per quanto riguarda il ruolo del formale datore di lavoro il teste *** ha riferito che non “c’erano anche persone di riferimento delle cooperative, delle ditte che venivano a controllare, a coordinare, a verificare” (nello stesso senso anche la teste ***).

Le società appaltatrici hanno effettivamente fornito un furgone per lo svolgimento di tale servizio ma, a parte ciò, tutti gli strumenti di lavoro sono stati forniti da YYY.

Non è emerso, come detto, che un referente della società appaltatrice fosse presente presso l’ufficio postale.

Siamo quindi in presenza di un’attività lavorativa direttamente ed interamente riferibile a YYY: il XXX ha svolto per un tempo lunghissimo (dal 1981) prestazioni del tutto coincidenti con l’attività ordinaria di YYY ed ha seguito le indicazioni di lavoro che provenivano dalla committente. In nessun modo le ditte appaltatrici hanno offerto a YYY altro se non la mera forza lavoro: la “organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore” non può certo esaurirsi nel mettere a disposizione dei furgoni mentre, come visto, il “potere direttivo ed organizzativo” non veniva esercitato dai referenti delle ditte esterne che erano, in sostanza, assenti.

Si tratta quindi certamente di un illegittimo fenomeno interpositorio che si verifica, come detto, quando l’appalto abbia ad oggetto la messa a disposizione di una prestazione lavorativa, attribuendo all’appaltatore i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto in assenza di una reale organizzazione della prestazione stessa finalizzata ad un risultato produttivo autonomo (Cass. 19920 del 2011 cit.).

L’appello del XXX quindi merita accoglimento e la sentenza di primo grado deve essere riformata.

Per quanto riguarda la prescrizione rileva la Corte che essa non decorre prima della cessazione del rapporto (non ancora intervenuta, come si dirà) trattandosi di rapporto di lavoro assolutamente precario in considerazione della scissione tra datore di lavoro formale e datore di lavoro effettivo.

Proprio con riferimento ai fenomeni interpositori, la S.C. ha precisato infatti che “il requisito della stabilità reale, che consente il decorso della prescrizione quinquennale dei diritti del lavoratore in costanza di rapporto di lavoro, va verificato alla stregua del concreto atteggiarsi del rapporto stesso. Ne consegue che, con riferimento a rapporti di lavoro costituiti in violazione del divieto di intermediazione ed interposizione di cui all’art. 1 della legge 23 ottobre 1960, n. 1369 (applicabile “ratione temporis”), la suddetta verifica deve essere effettuata sulla base delle concrete modalità, anche soggettive, di svolgimento del rapporto, senza che assumano rilievo la disciplina che l’avrebbe regolato ove fosse sorto “ab initio” con il datore di lavoro effettivo ovvero la qualificazione attribuita in sede giudiziale” (Cass. 12553 del 2014).

YYY sostiene poi che, comunque, il rapporto di lavoro sarebbe ormai cessato avendo il XXX rassegnato le proprie dimissioni nei confronti del datore di lavoro formale.

Orbene, sul punto, giova ricordare che le dimissioni sono state rassegnate dal XXX in data 1.11.2018, ossia quando era già pendente il primo grado del presente giudizio (iscritto il 25.7.2016) e la parte aveva costituito in mora YYY notificandole il ricorso introduttivo.

Su tale questione il XXX richiama l’interpretazione autentica intervenuta sull’art. 38, co. 3, Dlgs 81/2015, ex art. 29 Dlgs 276/2003, a seguito dell’art. 1, comma 1, della L. 77/2020, di conversione, con modificazioni, del DL 34/2020 (Decreto rilancio), che così recita: “Dopo l’articolo 80 e’ inserito il seguente: «Art. 80-bis (Interpretazione autentica del comma 3 dell’articolo 38 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81). – 1. Il secondo periodo del comma 3 dell’articolo 38 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, ai sensi del quale tutti gli atti compiuti o ricevuti dal somministratore nella costituzione o nella gestione del rapporto, per il periodo durante il quale la somministrazione ha avuto luogo, si intendono come compiuti o ricevuti dal soggetto che ha effettivamente utilizzato la prestazione, si interpreta nel senso che tra gli atti di costituzione e di gestione del rapporto di lavoro non è compreso il licenziamento»”.

Secondo il XXX, quindi, il Legislatore avrebbe quindi escluso, nell’ambito degli atti di costituzione o di gestione del rapporto, l’atto di risoluzione. In buona sostanza, l’atto risolutivo, licenziamento od atto dimissionario.

YYY, da parte sua, si limita a ribadire l’efficacia delle dimissioni anche perché dopo di esse il XXX non ha più lavorato né ha offerto a YYY la sua prestazione lavorativa.

Orbene, secondo la Corte il richiamo all’art. 38 non è pertinente perché la norma riguarda la somministrazione mentre oggi si discute di appalto illegittimo. Inoltre, la norma esclude dagli atti comunque riferibili anche all’utilizzatore solo il licenziamento mentre qui si tratta di dimissioni.

Resta però il fatto che le dimissioni sono intervenute ben dopo che il XXX aveva depositato e notificato il ricorso a YYY costituendo in mora il datore di lavoro effettivo. Non si può quindi sostenere che il XXX abbia omesso di offrire a YYY la propria prestazione lavorativa.

Siamo quindi in presenza di un atto risolutivo del rapporto diretto unicamente al datore di lavoro apparente (formale), come tale non idoneo a far venire meno il rapporto stesso nei confronti del datore di lavoro effettivo, rispetto del quale, al contrario, il lavoratore aveva già da tempo reclamato il riconoscimento del rapporto di lavoro mediante la notifica del ricorso.

Ne deriva che le dimissioni rese nei confronti del datore di lavoro formale non sono efficaci anche nei confronti di YYY, datore di lavoro effettivo.

Sul punto si veda la Cass. 4862 del 1996 relativa proprio ad un fenomeno interpositorio: Le dimissioni del socio – lavoratore di una cooperativa costituiscono un atto unilaterale ricettizio idoneo a determinare la risoluzione del rapporto con la cooperativa nel momento in cui pervengono a conoscenza di essa; peraltro, nell’ipotesi in cui, per effetto dell’art. 1 della legge 23 ottobre 1960 n. 1369 (in tema di divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro) il rapporto del socio si sia convertito in rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze dell’impresa appaltante – da considerarsi a tempo indeterminato (al pari del rapporto con la cooperativa) – questo non viene risolto per effetto delle suddette dimissioni rassegnate nei confronti di un soggetto diverso dall’appaltante.

L’ultima questione sollevata da YYY riguarda la regolazione oraria del rapporto che, in ogni caso, secondo la appellata, dovrebbe essere a tempo parziale, come previsto dai contratti di lavoro con le ditte appaltatrici.

Sul punto, il XXX eccepisce che quella di YYY è una difesa nuova perché, nel giudizio di primo grado, mai la società aveva contestato specificamente l’orario dedotto, che era comunque superiore alle 36 ore previste dal CCNL YYY e quindi a tempo pieno.

Orbene, effettivamente esaminando la memoria di costituzione di YYY in primo grado non si rinviene una specifica eccezione relativa alla regolamentazione part-time dell’orario; del resto nel corso degli anni le mansioni alle quali è stato adibito il XXX sono mutate spesso e non è contenuta, neppure nel suo ricorso, una precisa ricostruzione dell’orario di lavoro. Allo stesso modo, nelle conclusioni del ricorso di primo grado non è presente una domanda relativa all’orario.

Tanto chiarito ritiene la Corte che, nel silenzio delle parti, la domanda debba essere intesa come riferita al tempo pieno che costituisce la regola rispetto alla quale il part-time è eccezione.

È noto infatti che sia a livello normativo che contrattuale collettivo, il rapporto si intende instaurato a tempo pieno salvo che – con apposita previsione che deve risultare per iscritto – non sia previsto il tempo parziale. In tal senso, l’art. 13 della legge 196/1997 definisce “normale” l’orario di lavoro a tempo pieno mentre l’art. 2 del D.Lgs 61/2000 impone la forma scritta per il part-time (si vedano anche gli artt. 5 e 7 del CCNL 1994).

Nel caso in esame, non avendo le parti in primo grado dedotto nulla di specifico per quanto riguarda la regolazione oraria del rapporto, la domanda che oggi viene accolta non può che essere riferita al tempo pieno.

Del resto, il XXX ha depositato in giudizio due contratti di lavoro individuali dai quali emerge una regolazione part-time a 34,5 ore settimanali che non è molto distante dal tempo pieno che per YYY è pari a 36 ore (art. 9 CCNL 1994).

In conclusione, la domanda deve essere accolta secondo l’orario pieno previsto dal CCNL di YYY.

La riforma della sentenza appellata comporta una nuova regolazione delle spese del doppio grado.

Le spese di lite del doppio grado seguono la soccombenza sostanziale di YYY, come di norma e si liquidano ai sensi del DM 55 del 2014 in € 3.372,00 per il primo grado ed € 3.308,00 per l’appello.

PQM

La Corte, definitivamente pronunciando, respinta ogni diversa istanza, eccezione e deduzione, in riforma della sentenza appellata:

Dichiara il difetto di giurisdizione del G.O., in favore del G.A., per quanto riguarda la domanda di accertamento del rapporto di lavoro subordinato con YYY per il periodo antecedente al 26.11.1994.

Dichiara che tra XXX e la Società YYY Spa, si è costituito un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, sin dalla data del 26.11.1994 con il diritto del XXX ad essere inquadrato nel liv. “D” CCNL di YYY;

Dichiara che il rapporto di lavoro è ancora in essere ed ordina alla società YYY Spa di riammettere la parte appellante in servizio nella unità di applicazione e nelle mansioni di appartenenza;

Dichiara che XXX ha diritto di ricevere il trattamento economico e normativo previsto per il lavoratore a tempo pieno, appartenente alla categoria Liv. “D” ai sensi del CCNL applicabile, con decorrenza 1.12.1981, ai sensi dell’art. 1226 c.c. per il periodo precedente al 26.11.1994;

Condanna YYY s.p.a. al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio liquidate in € 6.680,00 oltre spese generali 15%, Iva e Cpa.

Così deciso in Firenze,

l’8 luglio 2021

La Presidente

Il Consigliere estensore

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