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Interposizione fittizia: prova e oneri del Fisco

La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 9639/2024, ha rigettato il ricorso di un contribuente contro un avviso di accertamento per interposizione fittizia. L’Agenzia delle Entrate aveva imputato al professionista i redditi di una società in accomandita semplice, ritenendola un mero schermo. La Corte ha confermato la validità dell’accertamento, basato su presunzioni gravi, precise e concordanti derivanti dalla totale commistione gestionale e finanziaria tra il contribuente e la società. È stato inoltre ribadito che l’obbligo del contraddittorio preventivo non è generalizzato per i tributi ‘non armonizzati’ come IRPEF e IRAP.

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Pubblicato il 13 novembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Interposizione fittizia: la Cassazione fa il punto su prova presuntiva e contraddittorio

L’interposizione fittizia è uno degli strumenti più contestati dall’Amministrazione Finanziaria nella lotta all’evasione fiscale. Si verifica quando un contribuente utilizza un’altra entità, tipicamente una società, come schermo per occultare i propri redditi. Con la recente ordinanza n. 9639 del 10 aprile 2024, la Corte di Cassazione è tornata su questo tema cruciale, delineando i confini della prova presuntiva a disposizione del Fisco e chiarendo gli obblighi relativi al contraddittorio preventivo.

I fatti di causa

Un professionista riceveva dall’Agenzia delle Entrate tre avvisi di accertamento con i quali venivano ripresi a tassazione, ai fini IRPEF e IRAP, i redditi formalmente dichiarati da una società in accomandita semplice. Secondo l’Ufficio, il contribuente, pur detenendo solo una quota dell’1%, era il reale dominus e percettore dei redditi della società, la quale fungeva da mero soggetto interposto. L’accertamento contestava anche una maggiore IVA dovuta su ricavi non dichiarati e irrogava le relative sanzioni.
Il contribuente impugnava gli atti, ma sia la Commissione Tributaria Provinciale che quella Regionale confermavano la legittimità dell’operato dell’Agenzia. La questione è così giunta dinanzi alla Corte di Cassazione.

I motivi del ricorso e l’interposizione fittizia

Il ricorrente basava la sua difesa su due motivi principali:
1. Violazione del contraddittorio endoprocedimentale: Sosteneva che la mancata attivazione del contraddittorio prima dell’emissione dell’avviso di accertamento rendesse l’atto nullo.
2. Violazione delle norme sulla prova presuntiva: Contestava che l’Amministrazione Finanziaria avesse provato l’interposizione fittizia senza presunzioni ‘gravi, precise e concordanti’, come richiesto dalla legge (art. 37, D.P.R. 600/1973).

L’analisi della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha respinto entrambi i motivi, offrendo importanti chiarimenti su entrambi i fronti.

Sul contraddittorio preventivo

La Corte ha ribadito la sua consolidata giurisprudenza, distinguendo tra tributi ‘armonizzati’ (come l’IVA) e ‘non armonizzati’ (come IRPEF e IRAP). Per questi ultimi, non esiste un obbligo generalizzato di contraddittorio preventivo, a meno che non sia previsto da una norma specifica. Per i tributi armonizzati, pur sussistendo l’obbligo, il contribuente che ne lamenta la violazione deve superare la ‘prova di resistenza’, dimostrando in giudizio quali argomenti concreti avrebbe potuto far valere per influenzare l’esito dell’accertamento. Nel caso di specie, il ricorrente non ha fornito tale prova.

Sulla prova dell’interposizione fittizia

Questo è il cuore della decisione. La Cassazione ha confermato che la prova dell’interposizione può essere fornita dall’Ufficio tramite presunzioni gravi, precise e concordanti. Nel caso esaminato, la Commissione Tributaria Regionale aveva correttamente individuato una serie di elementi che, nel loro insieme, dimostravano una ‘inestricabile promiscuità’ organizzativa, operativa e contabile tra il professionista e la società.

Le motivazioni della decisione

Le motivazioni della Corte si fondano sulla valutazione dei fatti accertati nei gradi di merito. L’interposizione fittizia è stata provata da una serie di circostanze oggettive, tra cui:
* Spese sostenute dalla società a favore del professionista e viceversa.
* Pagamento delle retribuzioni dei dipendenti della società effettuato direttamente dal contribuente.
* Intestazione al professionista di fatture per prestazioni svolte dalla società.
* Versamenti incrociati sui rispettivi conti correnti, con denaro della società che finiva sul conto personale del contribuente e viceversa.
Questi elementi, secondo la Corte, costituiscono un quadro presuntivo solido che permette di inferire logicamente che il contribuente si fosse ingerito nella gestione della società ‘uti dominus’ (come proprietario), utilizzando le sue risorse finanziarie. Una volta che l’Ufficio ha fornito tale prova, l’onere di dimostrare l’assenza di interposizione o la mancata percezione dei redditi si sposta sul contribuente, cosa che in questo caso non è avvenuta.

Le conclusioni

L’ordinanza ribadisce un principio fondamentale: la separazione patrimoniale e gestionale tra un professionista e un’entità societaria a lui collegata deve essere netta e sostanziale, non solo formale. La commistione di finanze e operazioni rappresenta un forte indizio di interposizione fittizia, legittimando il Fisco a imputare i redditi della società al soggetto che ne è il reale beneficiario. Per i contribuenti, la lezione è chiara: è essenziale mantenere una contabilità e una gestione rigorosamente separate per evitare che l’Amministrazione Finanziaria possa, attraverso prove presuntive, disconoscere la struttura societaria e procedere a un accertamento diretto.

Quando è obbligatorio per il Fisco avviare un contraddittorio prima di un avviso di accertamento?
Non esiste un obbligo generalizzato per i tributi ‘non armonizzati’ come IRPEF e IRAP, a meno che una norma specifica non lo preveda. Per i tributi ‘armonizzati’ come l’IVA, l’obbligo sussiste, ma il contribuente deve dimostrare in giudizio quali argomenti avrebbe potuto addurre per ottenere un risultato diverso.

Come può l’Agenzia delle Entrate provare un’interposizione fittizia?
L’Agenzia può provarla attraverso presunzioni gravi, precise e concordanti. Nel caso specifico, la prova è derivata dalla dimostrazione di una totale commistione finanziaria e operativa tra il contribuente e la società, come pagamenti incrociati, gestione dei dipendenti e intestazione di fatture.

Cosa si intende per ‘commistione’ tra il patrimonio del professionista e quello della società?
Si intende una situazione in cui non esiste una chiara separazione tra le finanze e le attività dei due soggetti. Gli esempi citati nella sentenza includono: la società che paga spese personali del professionista e viceversa; il professionista che paga gli stipendi dei dipendenti della società; e versamenti di denaro tra i conti correnti personali e quelli aziendali senza una chiara giustificazione economica.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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