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Frode carosello IVA: la Cassazione sulla buona fede

Una società operante nel commercio di quote di emissione di CO2 si è vista negare la detrazione dell’IVA a causa del suo coinvolgimento, secondo l’Agenzia delle Entrate, in una frode carosello IVA con “missing traders”. La Corte di Cassazione ha confermato la decisione, respingendo il ricorso dell’azienda. La Corte ha stabilito che, in presenza di operazioni soggettivamente inesistenti, il contribuente perde il diritto alla detrazione se sapeva, o avrebbe dovuto sapere usando l’ordinaria diligenza, della frode. La presenza di numerosi indici di anomalia (prezzi bassi, uso di conti in paradisi fiscali) sposta sul contribuente l’onere di provare la propria buona fede, onere che in questo caso non è stato assolto a causa di una “voluta noncuranza”.

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Pubblicato il 7 dicembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Frode Carosello IVA: La Buona Fede non Basta se Ignori i Campanelli d’Allarme

Con la recente sentenza n. 20558/2024, la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi su un tema cruciale per le imprese: la frode carosello IVA e i limiti della buona fede del contribuente. La decisione chiarisce che, di fronte a evidenti segnali di anomalia nelle transazioni commerciali, non è sufficiente invocare la propria estraneità per evitare conseguenze fiscali pesanti, come il disconoscimento del diritto alla detrazione dell’IVA e l’applicazione di sanzioni. L’ordinaria diligenza richiede un’attenta valutazione delle controparti, specialmente in settori ad alto rischio.

I Fatti: La Controversia sulle Quote di Emissione di CO2

Il caso riguarda una società per azioni operante nel settore del trading di quote di emissione di gas serra (CO2). L’Agenzia delle Entrate le ha notificato un avviso di accertamento per l’anno 2010, recuperando l’IVA indebitamente detratta su fatture di acquisto considerate relative a operazioni soggettivamente inesistenti.

Secondo l’amministrazione finanziaria, la società agiva come un “filtro” in un complesso schema di frode carosello a livello internazionale. Acquistava le quote da società estere che si sono rivelate essere delle “cartiere” (c.d. missing traders), create al solo scopo di comprare e rivendere i beni senza mai versare l’IVA dovuta. La società contribuente, dopo aver acquistato, rivendeva a sua volta le quote, detraendo l’IVA assolta sugli acquisti.

Le Commissioni Tributarie, sia in primo che in secondo grado, hanno dato ragione all’Agenzia delle Entrate, ritenendo che la società non potesse essere considerata in buona fede, data la presenza di numerosi e gravi indizi di anomalia.

La Decisione della Corte: L’onere della prova nella frode carosello IVA

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso della società, confermando le decisioni dei giudici di merito. La sentenza si articola attorno al principio consolidato, sia a livello nazionale che europeo, riguardante la ripartizione dell’onere della prova in materia di frode carosello IVA.

Gli Indici Presuntivi della Consapevolezza

La Corte ha ribadito che spetta all’Amministrazione Finanziaria dimostrare due elementi:
1. L’oggettiva fittizietà del fornitore (il missing trader).
2. La consapevolezza, o la conoscibilità con l’uso dell’ordinaria diligenza, da parte del cessionario (il contribuente) che l’operazione si inseriva in un’evasione IVA.

Questa seconda prova può essere fornita anche tramite presunzioni gravi, precise e concordanti. Nel caso di specie, gli elementi a carico della società erano schiaccianti:
– Prezzi di acquisto inferiori a quelli di mercato.
– Utilizzo sistematico di conti correnti in Paesi non collaborativi (inseriti in black list).
– Coincidenza della sede sociale tra alcune delle imprese fornitrici.
– Omesso versamento dell’IVA da parte dei fornitori.
– Stretti rapporti commerciali emersi dall’analisi della corrispondenza elettronica.

La “Voluta Noncuranza” del Contribuente

A fronte di questi “campanelli d’allarme”, l’onere della prova si sposta sul contribuente, che deve dimostrare di aver agito in buona fede e di aver adottato la massima diligenza esigibile da un operatore accorto per evitare di essere coinvolto nella frode.

La Corte ha ritenuto che le giustificazioni della società – come la sua recente costituzione, il modesto margine di guadagno (1%) o l’aver seguito le procedure KYC (Know Your Customer) – fossero insufficienti. Anzi, proprio un margine di guadagno molto basso su volumi di scambio elevatissimi avrebbe dovuto insospettire un operatore diligente. La condotta della società è stata qualificata come un “perdurato comportamento di voluta noncuranza”, che integra la colpa necessaria a giustificare sia il recupero dell’imposta sia l’applicazione delle sanzioni.

Le Motivazioni della Sentenza

Ripartizione dell’Onere Probatorio

La Cassazione ha chiarito che il giudice di merito ha correttamente applicato i principi sulla prova presuntiva (art. 2729 c.c.). L’insieme degli indizi forniti dall’Agenzia delle Entrate era sufficiente a creare una presunzione forte sulla conoscibilità della frode. La valutazione di tali indizi è un apprezzamento di fatto che, se logicamente motivato come in questo caso, non è sindacabile in sede di legittimità.

La Valutazione degli Elementi Contrari

La Corte ha spiegato perché le prove a discolpa fornite dalla società non sono state ritenute decisive. Il principio del libero convincimento del giudice consente di valutare tutte le prove e di scegliere quelle più idonee a sorreggere la decisione, senza dover confutare analiticamente ogni singolo elemento difensivo. Gli argomenti della società sono stati implicitamente disattesi perché logicamente incompatibili con la ricostruzione complessiva dei fatti, che deponeva per un coinvolgimento consapevole nel meccanismo fraudolento.

Irrilevanza dell’Errore e del ‘Favor Rei’

Sono stati rigettati anche i motivi relativi all’applicazione delle sanzioni. Non sussisteva un errore incolpevole sul fatto, data la “voluta noncuranza” della società. Né vi era un’incertezza normativa oggettiva, poiché i principi in materia di frodi IVA sono consolidati da tempo. Infine, non è stato ritenuto applicabile il principio del favor rei in relazione alla successiva introduzione del meccanismo del reverse charge per le quote CO2, in quanto si tratta di un regime fiscale diverso che non rende lecita la condotta precedente.

Conclusioni: Implicazioni Pratiche per le Imprese

La sentenza n. 20558/2024 è un monito importante per tutte le aziende: la lotta alla frode carosello IVA richiede un ruolo attivo da parte degli operatori economici. Non è possibile trincerarsi dietro una buona fede formale quando le circostanze concrete della transazione urlano “anomalia”. La diligenza professionale impone di verificare attentamente le proprie controparti commerciali, di analizzare le condizioni economiche delle operazioni e di non ignorare segnali che suggeriscono un’irregolarità. In caso contrario, il rischio è quello di essere considerati complici, anche solo per colpa, di un meccanismo fraudolento, con conseguenze fiscali devastanti.

In una frode carosello IVA, quando un’azienda perde il diritto a detrarre l’IVA?
Un’azienda perde il diritto alla detrazione dell’IVA quando l’Amministrazione Finanziaria dimostra, anche tramite presunzioni, che l’azienda sapeva o avrebbe dovuto sapere, usando l’ordinaria diligenza di un operatore accorto, che la transazione si inseriva in un’evasione fiscale commessa dal fornitore o da un altro soggetto nella catena di fornitura.

Quali sono i “campanelli d’allarme” che un’impresa non può ignorare per dimostrare la propria buona fede?
La sentenza evidenzia diversi indizi che costituiscono segnali di allarme, tra cui: prezzi di acquisto inferiori a quelli di mercato, l’insolita richiesta di utilizzare conti correnti in Paesi non collaborativi (black list), la coincidenza di sedi sociali tra fornitori, l’assenza di una reale struttura operativa delle controparti e l’omesso versamento dell’IVA da parte di queste ultime.

Basta dimostrare di aver seguito le procedure interne di controllo (come la KYC) per provare la propria buona fede?
No, secondo la Corte non è sufficiente. Sebbene le procedure come la KYC (Know Your Customer) siano importanti, non possono essere una scusante se, nonostante la loro applicazione, emergono numerosi e gravi indizi di anomalia che un operatore diligente dovrebbe riconoscere. In tali casi, la condotta può essere interpretata come “voluta noncuranza”, invalidando la pretesa di buona fede.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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