Uso personale stupefacenti: Quando la Cassazione Dichiara Inammissibile il Ricorso
La distinzione tra detenzione di sostanze stupefacenti per uso personale e detenzione ai fini di spaccio è una delle questioni più delicate e frequenti nel diritto penale. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ci offre l’occasione per chiarire i confini del giudizio di legittimità in questa materia, spiegando perché non sempre è possibile contestare una condanna sostenendo la tesi dell’uso personale. La Corte ha infatti ribadito che il suo ruolo non è quello di riesaminare le prove, ma di controllare la correttezza giuridica e la logicità della decisione dei giudici di merito.
I Fatti del Caso: Oltre la Semplice Detenzione
Il caso analizzato riguarda un individuo condannato dalla Corte di Appello di Palermo per il reato di detenzione ai fini di spaccio di sostanze stupefacenti, previsto dall’art. 73, comma 5, del d.P.R. 309/1990. L’imputato ha presentato ricorso in Cassazione, sostenendo che la detenzione della sostanza, circa 85 grammi di hashish, fosse finalizzata esclusivamente al proprio consumo e non alla vendita.
La sua difesa si basava su un unico motivo di ricorso: la violazione di legge e il vizio di motivazione da parte della Corte di Appello nell’affermare la sua responsabilità penale per spaccio.
La Valutazione dei Giudici di Merito sulla Finalità di Spaccio
La Corte di Appello aveva fondato la sua decisione su una serie di elementi fattuali che, nel loro complesso, delineavano un quadro incompatibile con la tesi dell’uso personale stupefacenti. Nello specifico, i giudici avevano considerato:
* Il quantitativo considerevole: dagli 85 grammi lordi di hashish si sarebbero potute ricavare ben 986,84 dosi medie singole.
* La presenza di un bilancino di precisione: uno strumento tipicamente utilizzato per la suddivisione della droga in dosi da vendere.
* Le modalità di occultamento e il tentativo di disfarsi della prova: l’imputato aveva cercato di gettare la sostanza nel water all’arrivo delle forze dell’ordine.
* Le discrasie nei racconti: le dichiarazioni rese dall’imputato e dalla sua compagna presentavano delle evidenti contraddizioni.
Sulla base di questi indizi, la Corte di Appello ha ritenuto provata la finalità di spaccio, escludendo la destinazione a consumo personale.
Le Motivazioni della Cassazione: i Limiti del Ricorso
La Corte di Cassazione, nell’esaminare il ricorso, ha immediatamente evidenziato un problema di natura procedurale. I motivi presentati dal ricorrente non rientravano nel numerus clausus delle censure ammesse in sede di legittimità. In altre parole, l’imputato non stava contestando un errore di diritto o un’illogicità manifesta della motivazione, ma stava cercando di ottenere una nuova e diversa valutazione delle prove.
La Suprema Corte ha chiarito che la ricostruzione dei fatti e la valutazione del materiale probatorio sono compiti esclusivi dei giudici di merito (Tribunale e Corte di Appello). Il giudizio di Cassazione non è un ‘terzo grado’ dove si può ridiscutere se i fatti si siano svolti in un modo o in un altro. Il suo ruolo è limitato a verificare che la decisione impugnata sia sorretta da una motivazione congrua, esauriente e logicamente coerente.
Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che la sentenza della Corte di Appello fosse ampiamente e correttamente motivata. La ricostruzione dei fatti era precisa e circostanziata, basata su una disamina completa di tutte le risultanze processuali. Gli elementi valorizzati (quantità, bilancino, comportamento dell’imputato) costituivano, secondo la Cassazione, una base logica solida per inferire la finalità di spaccio e, pertanto, la decisione non era sindacabile.
Le Conclusioni: Conseguenze Pratiche della Decisione
L’ordinanza si conclude con la declaratoria di inammissibilità del ricorso. Questa decisione comporta due conseguenze significative per il ricorrente:
1. La condanna diventa definitiva: non essendoci altri gradi di giudizio, la sentenza della Corte di Appello è passata in giudicato.
2. La condanna alle spese e alla sanzione: in base all’art. 616 del codice di procedura penale, chi propone un ricorso inammissibile viene condannato al pagamento delle spese del procedimento e al versamento di una somma in favore della Cassa delle ammende. In questo caso, la somma è stata equitativamente fissata in tremila euro.
Questa pronuncia ribadisce un principio fondamentale: chi intende contestare una condanna per spaccio sostenendo la tesi dell’uso personale stupefacenti deve farlo basandosi su vizi di legittimità concreti (errori di diritto o illogicità palesi) e non sperando in una rivalutazione dei fatti da parte della Corte di Cassazione.
Posso contestare in Cassazione la valutazione delle prove che ha portato alla mia condanna per spaccio?
No, la Corte di Cassazione non riesamina le prove nel merito. Il ricorso è inammissibile se si limita a contestare la ricostruzione dei fatti e la valutazione degli indizi (come il quantitativo di droga o la presenza di un bilancino) già operate dai giudici di merito, a meno che la loro motivazione non sia manifestamente illogica o contraddittoria.
Quali elementi possono convincere un giudice che la droga non era per uso personale?
Secondo questa ordinanza, elementi come un quantitativo considerevole di sostanza (tale da ricavare quasi mille dosi), la presenza di un bilancino di precisione, le modalità di occultamento, il tentativo di disfarsene e le dichiarazioni contraddittorie possono costituire un quadro indiziario sufficiente a dimostrare la finalità di spaccio, escludendo l’uso personale.
Cosa succede se il mio ricorso in Cassazione viene dichiarato inammissibile?
Se il ricorso viene dichiarato inammissibile, la condanna diventa definitiva. Inoltre, il ricorrente viene condannato al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma di denaro in favore della Cassa delle ammende, che in questo caso è stata fissata a 3.000 euro.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 7 Num. 13692 Anno 2024
Penale Ord. Sez. 7 Num. 13692 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 26/01/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a CASTELVETRANO il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 10/05/2023 della CORTE APPELLO di PALERMO
dato avviso alle parti;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
COGNOME NOME ricorre per cassazione avverso la sentenza in epigrafe indicata con la qual la Corte di appello di Palermo lo ha condannato per il reato di cui all’art. 73, comma 5, d 309/1990.
Il ricorrente deduce, con unico motivo di ricorso, violazione di legge e vizio della motiva in ordine alla affermazione della responsabilità, assumendo l’uso personale dello stupefacente.
Il ricorso è basato su motivi che non rientrano nel numerus clausus delle censure deducibili in sede di legittimità, investendo profili di valutazione della prova e di ricostruzione d riservati alla cognizione del giudice di merito, le cui determinazioni, al riguardo, sono insind in cassazione ove siano sorrette da motivazione congrua, esauriente ed idonea a dar conto dell’iter logico-giuridico seguito dal giudicante e delle ragioni del decisum. Nel caso di specie, la Corte d’appello ha inferito la sussistenza della finalità di spaccio dal quantitativo conside di stupefacente, pari a 85 grammi lordi di sostanza del tipo hashish, da cui sono ricavabili 986 dosi medie singole, dalle discrasie tra i racconti dell’imputato e quelli della compagna rinvenimento di un bilancino di precisione, dalle modalità di occultamento della sostanza, di l’imputato ha cercato perfino di disfarsi lanciandola nel water. Dalle cadenze motivazionali d sentenza d’appello è quindi enucleabile una ricostruzione dei fatti precisa e circostanzi avendo i giudici di secondo grado preso in esame tutte le deduzioni difensive ed essendo pervenuti alla decisione attraverso una disamina completa ed approfondita delle risultanz processuali, in nessun modo censurabile sotto il profilo della correttezza logica, sulla ba apprezzamenti di fatto non qualificabili in termini di contraddittorietà o di manifesta ill perciò insindacabili in questa sede.
Tenuto altresì conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia prop il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen. l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro tremila.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processua ed al versamento della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma il 26 gennaio 2024
Il Consigliere estensore
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