Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 26628 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 26628 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 24/04/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da Procuratore generale presso la Corte di appello di Torino NOME, nato il DATA_NASCITA a Pescara NOME, nata il DATA_NASCITA a Sanremo
avverso la sentenza in data 26/06/2023 della Corte di assise di appello di Torino visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME; udite le conclusioni del Pubblico ministero in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME, che ha concluso per il rigetto del ricorso del P.G. e per l’inammissibilità di ricorsi di NOME e NOME; udite le conclusioni dell’AVV_NOTAIO COGNOME per NOME e NOME COGNOME per NOME, che hanno chiesto l’accoglimento del ricorso, riportandosi
anche alle proposte questioni di legittimità costituzionale.
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 26 giugno 2023 la Corte di assise di appello di Torino, giudicando in sede di rinvio, dopo che la Corte di cassazione con sentenza del 06 luglio 2022 aveva riqualificato il reato di cui al capo F) ai sensi dell’art. 285 cod pen. e rinviato per la rideterminazione della pena, ha parzialmente riformato nei confronti di NOME COGNOME e di NOME, anche alla luce della sentenza n. 94 del 2023 della Corte costituzionale, pronunciata a seguito di questione di legittimità costituzionale sollevata nel giudizio di rinvio, la sentenza della Corte di assise di Torino in data 24 aprile 2019, riconoscendo agli imputati in relazione al reato di cui all’art. 285 cod. pen. l’attenuante di cui all’art. 311 cod. pen dichiarando la prevalenza di detta attenuante e delle attenuanti generiche sulla recidiva reiterata contestata a NOME e sulla recidiva contestata a NOME, rideterminando perciò la pena imputabile al reato di cui al capo F), ritenuto il più grave, e confermando gli aumenti già computati nei precedenti gradi per la continuazione con gli altri reati per i quali i due imputati erano stat irrevocabilmente condannati (capi A, relativamente ad un periodo, C, D, E, G, H, I, L, M, Q per NOME; capi A, relativamente ad un periodo, G, H, I, L, M, Q per NOME).
Ha presentato ricorso il Procuratore generale presso la Corte di appello di Torino.
2.1. Richiamate le fasi che hanno contraddistinto il processo, con il primo motivo denuncia violazione di legge in relazione al riconoscimento ai due imputati dell’attenuante di cui all’art. 311 cod. pen.
La Corte di assise di appello aveva dato conto dei beni giuridici tutelati dall’art. 285 cod. pen., l’ordine pubblico e la pubblica incolumità, beni condivisi con l’incriminazione di cui all’art. 422 cod. pen., nonché la sicurezza dello Stato, correlata al dolo specifico che connota la fattispecie.
Aveva inoltre rilevato che i presupposti dell’attenuante, relativi alle modalità attuative dell’azione e all’entità del danno o del pericolo, che devono essere connotati da minimo disvalore e lieve offensività, avrebbero dovuto correlarsi al bene giuridico protetto, non potendosi valutare il bene condiviso con l’art. 422 cod. pen., posto che l’attenuante è riferita ai soli reati contro la personalità dello Stat
Aveva dunque ritenuto che la valutazione non poteva poggiare sulla non lieve gravità delle caratteristiche obiettive dell’azione e sulla non modesta entità degli eventi di danno o di pericolo a cose e persone, e neppure sull’accertata potenzialità offensiva per l’incolumità pubblica, costituendo essa solo uno degli elementi del delitto di strage.
Si trattava di valutazione non condivisibile a fronte del fatto che l’art. 311 cod. pen. si fonda su un giudizio in forza del quale per natura, specie, mezzi, modalità o circostanze dell’azione ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità.
Nel far riferimento al vulnus per la sicurezza dello Stato o di una parte di esso la Corte di assise di appello aveva inteso prescindere dalla gravità della condotta lesiva e del danno o pericolo cagionati ai militari, vittime designate, in violazione del dettato normativo.
Ma in tal modo si potrebbe riconoscere l’attenuante anche nel caso in cui sia cagionata la morte di una o più persone, in quanto la condotta abbia comportato un danno o pericolo limitati per lo Stato con conseguenze contraddittorie in termini di pena rispetto all’ipotesi della strage ordinaria.
Avrebbe dovuto considerarsi quanto desumibile dalla sentenza n. 68 del 2012 della Corte costituzionale, che aveva rilevato che la previsione dell’art. 311 cod. pen. ha la finalità di mitigare la risposta punitiva in rapporto ai profili oggettivi fatto, non potendosi dunque dar rilievo ad uno dei beni giuridici tutelati, la sicurezza dello Stato, obliterando il profilo della pubblica incolumità, ciò che avrebbe finito per valorizzare la valutazione di quanto forma oggetto dell’elemento soggettivo e non oggettivo.
La valutazione deve essere riferita al fatto nel suo complesso risultando non applicabile l’attenuante ove il requisito della lieve entità manchi in rapporto all’evento o in rapporto a natura, specie, mezzi, modalità, circostanze della condotta, o in rapporto all’entità del danno o del pericolo conseguente al reato.
2.2. Con il secondo motivo denuncia vizio di motivazione in ordine all’applicabilità dell’attenuante.
La sentenza impugnata recava una contraddittoria valutazione anche in ordine al profilo del minimo disvalore o della lieve offensività rispetto al bene costituit dalla sicurezza dello Stato, in rapporto alla collocazione di due ordigni esplosivi contenenti bulloni metallici fatti esplodere a distanza di tempo presso una scuola allievi carabinieri, considerata di valore simbolico quale storica istituzione statale, volta alla formazione di appartenenti ad un corpo adibito alla tutela della sicurezza dello Stato, fatto seguito da una rivendicazione tesa a segnalare il valore simbolico dell’atto, come risulta dallo stralcio riportato nel ricorso.
Il pericolo di vita cui sono stati esposti i militari e il tenore della rivendicazi non erano stati debitamente apprezzati, non potendosi far riferimento ad un vulnus per la sicurezza dello Stato di modesta entità, peraltro non corrispondente alla particolare tenuità o alla lieve entità menzionata dalla norma.
Non erano pertinenti i riferimenti all’orario notturno, al fatto che le due esplosioni erano avvenute in luogo isolato a distanza di metri dall’istituto e
avevano procurato danni modesti, a fronte del pericolo grave per l’incolumità delle persone, con la seconda esplosione che avrebbe potuto colpire soggetti intervenuti dopo la prima.
Contraddittoriamente dopo essersi sottolineato che la lieve entità non è ravvisabile allorché non sia lieve uno dei profili evocati, la Corte aveva ritenuto sufficiente il fatto che l’attentato avesse provocato un vulnus per la sicurezza dello Stato di modesta entità, senza considerare la micidialità e la potenzialità offensiva degli esplosivi.
2.3. Con il terzo motivo denuncia vizio di motivazione in ordine al giudizio di prevalenza formulato con riferimento alla posizione di COGNOME.
La Corte aveva affermato che la circostanza non avrebbe potuto applicarsi che con giudizio di prevalenza sulla recidiva.
Ma l’estrema modestia alla base del riconoscimento dell’attenuante non avrebbe potuto giustificare il giudizio di comparazione formulato, in assenza della valutazione della personalità dell’imputato, promotore di associazione terroristica, condannato per istigazione e apologia di delitti contro la personalità dello Stato, per detenzione e porto di esplosivo, per spedizione di plichi esplosivi incendiari e già separatamente giudicato per l’atto lesivo in danno dell’amministratore delegato di RAGIONE_SOCIALE Nucleare.
L’inclinazione a delinquere dell’imputato avrebbe dovuto valutarsi nel quadro del giudizio di bilanciamento, mentre non era stata considerata dal Collegio.
Ha proposto ricorso NOME COGNOME tramite il difensore, AVV_NOTAIO.
3.1. Con il primo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla questione di legittimità costituzionale degli artt. 620, comma 1, lett. I), e 623 cod. proc. pen. per violazione degli artt. 111, comma settimo, 10, comma primo, 117, comma primo, Cost. e 14, par. 5 Patto internazionale sui diritti civili e politici del 16/12/1966.
Non era stato prospettato un vulnus difensivo in relazione alla qualificazione del fatto, non essendo stato dedotto che la stessa fosse stata operata a sorpresa.
Era stata invece rilevata la necessità che sulla qualificazione del fatto la difesa potesse presentare impugnazione, secondo il principio desumibile dall’art. 14 par. 5, del Patto internazionale sui diritti civili e politici, che riconosce ad o condannato per un reato il diritto a che l’accertamento della sua colpevolezza e condanna siano riesaminati da un tribunale di seconda istanza, ciò che avrebbe dovuto valere anche in casi in cui la decisione provenisse dal giudice supremo in unica istanza.
Ciò valeva tanto più nel caso di specie, in cui la sentenza rescindente aveva introdotto un orientamento innovativo rispetto a quanto avvenuto in passato anche con riguardo a fatti di strage molto più gravi, nei quali era stato ravvisato il reato di cui all’art. 422 cod. pen. e non quello di cui all’art. 285 cod. pen.
Di qui la necessità di un sistema che consenta alla Corte di cassazione di definire il principio di diritto in forza del quale in sede di rinvio possa poi proceder alla corretta qualificazione del fatto sulla base di una rinnovata valutazione dello stesso: in tale prospettiva si rinnova la questione di legittimità costituzionale degli artt. 620, comma primo, lett. I) e 623 cod. proc. pen., in quanto consentono l’annullamento senza rinvio anche in punto di qualificazione del fatto, precludendo una nuova impugnazione sul punto.
3.2. Con il secondo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla proposta questione di legittimità costituzionale dell’art. 285 cod. pen. per violazione degli artt. 3 e 27 Cost.
La questione riguarda la previsione della pena dell’ergastolo come unica applicabile per tale reato.
Non era sufficiente il rilievo della Corte di assise di appello secondo cui non era stata applicata una pena fissa in ragione del riconoscimento delle due attenuanti, ritenute prevalenti sulla recidiva in base a quanto ritenuto possibile dalla Corte costituzionale.
Si trattava di argomento elusivo, a fronte di quanto dedotto in merito all’incostituzionalità dell’ergastolo quale unica pena per il reato in esame.
La questione continuava ad essere rilevante, in quanto nel caso di previsione di limiti edittali diversi, comprensivi di un minimo e di un massimo, diverso e più favorevole avrebbe potuto essere anche l’impatto delle due attenuanti riconosciute.
Inoltre, non era stata censurata la pena dell’ergastolo come tale, ma specificamente la previsione dell’ergastolo quale unica pena prevista dall’art. 285 cod. pen., così da sottrarre al giudice la possibilità di adattamento della pena al fatto.
Avrebbe dovuto richiamarsi quanto osservato in ordine al carattere innovativo della sentenza rescindente, che aveva riqualificato il fatto.
In una prospettiva volta a restringere il dolo specifico, inerente alla sicurezza e personalità dello Stato, in riferimento a fatti eccezionali tali da scuoter l’ordinamento costituzionale, non avrebbe potuto ravvisarsi l’illegittimità costituzionale della norma, proprio in ragione della possibilità di determinare la pena in concreto attraverso l’applicazione di attenuanti, in primo luogo quella di cui all’art. 311 cod. pen.
Ma a seguito della dilatazione del perimetro della disposizione operata dalla sentenza rescindente, così da ricondurla a situazioni che esorbitano dal rigore descrittivo della norma, si pone invece il dedotto profilo di illegittimi costituzionale dell’art. 285 cod. pen. nella parte in cui non prevede una pena differenziata analoga a quella stabilita dall’art. 422 cod. pen., potendosi altrimenti legittimare la pena dell’ergastolo in relazione a qualsiasi azione retta da ragioni politiche, pur se connotata da limitata offensività in concreto.
La discrezionalità del legislatore incontra il limite della manifesta irragionevolezza per sproporzione che incide sulla funzione rieducativa e viola il principio di uguaglianza, imponendo pari trattamento di situazioni molto diverse sotto il profilo della gravità.
Solo con previsioni edittali relative al minimo e al massimo è possibile adattare la pena alla gravità del fatto e all’esigenza di individualizzazione della risposta sanzionatoria.
Richiamando la sentenza della Corte costituzionale n. 50 del 1980 il ricorrente segnala che in linea di principio previsioni rigide non sono in linea con il volto costituzionale del sistema penale e che il dubbio può essere superato a condizione che per la natura dell’illecito e per la misura della sanzione la stessa appaia ragionevolmente proporzionata rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato.
Posto che l’art. 285 cod. per). si distingue dall’art. 422 cod. pen. per il dolo specifico di attentare alla sicurezza dello Stato, va rimarcato che la seconda fattispecie contempla tre diversi livelli, con la previsione dell’ergastolo nel caso della morte di una o più persone e la reclusione da 15 a 24 anni negli altri casi.
Risulta in tale ottica irragionevole che le conseguenze della condotta non assumano rilevanza rispetto al fatto sussunto nell’art. 285 cod. pen., essendo incongrua l’applicazione della pena massima, prevista per fatti che non abbiano prodotto neppure lesioni personali.
Ciò può ripetersi con riferimento alle conseguenze per la sicurezza dello Stato, non potendo essere puniti allo stesso modo fatti che non abbiano causato effettivi e concreti pericoli, senza che possa assumere dirimente rilievo il dolo specifico.
Nel caso di specie si prospetta come evidente l’irragionevolezza della pena dell’ergastolo rispetto alla concreta fattispecie, posto che il condannato la percepisce come ingiusta e tale da frustrare il fine rieducativo e che comunque la stessa viola il principio di uguaglianza rispetto a fatti di ben maggiore gravità e con esiti letali, a fronte dei diversi stadi sanzionatori contemplati dall’art. 422 co pen.
Né può farsi in senso contrario riferimento all’art. 311 cod. pen. o alle circostanze attenuanti in generale, giacché tenendo conto di esse il problema della
tendenziale incostituzionalità delle pene fisse non si potrebbe porre neppure in astratto.
Inoltre, richiamando la sentenza n. 222 del 2018 della Corte costituzionale, il ricorrente segnala la necessità di poter tener conto dei parametri di cui agli artt. 133 e 133-bis cod. pen., mentre l’art. 311 cod. pen. considera solo alcuni di quei parametri ma non tutti.
Tale norma concorre dunque ad un’ulteriore rimodulazione della pena, dopo che la stessa è stata determinata ai sensi dell’art. 133 cod. pen.
3.3. Con il terzo motivo denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in relazione agli artt. 597 cod. proc. pen. e 81 cod. pen.
Contesta la decisione impugnata nella parte in cui gli aumenti della pena in continuazione non sono stati determinati in misura inferiore rispetto a quelli definiti nei precedenti gradi di giudizio.
Premette un’analisi dei canoni che presiedono alla determinazione della pena a titolo di aumento per la continuazione, compreso quello per cui, ove la determinazione della pena base non si discosta dai minimi, mentre quella fissata in aumento per la continuazione è tale da configurare pur in astratto una ipotesi di cumulo materiale, il giudice deve specificare le ragioni della decisione, onde consentire il controllo della motivazione, non potendo adottare criteri contraddittori.
Ciò posto, dopo aver rilevato che la Corte aveva ampiamente dato conto della modesta entità dell’attentato di cui al capo F) rispetto al bene giuridico tutelato dalla norma, come riqualificata dalla sentenza rescindente, segnala che la Corte di assise di appello non aveva fatto seguire una motivazione che spiegasse le ragioni per cui, a fronte di una pena base determinata per il reato più grave in misura corrispondente al minimo edittale, non avesse operato alcuna riduzione degli aumenti irrogati a titolo di continuazione, adottando così criteri contraddittori rispetto a quelli seguiti per la pena base anche in violazione del criterio di proporzionalità reciproca.
3.4. Con il quarto motivo denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 62-bis cod. pen.
Dopo aver quantificato la pena base al minimo edittale in ragione della modestia del fatto di reato, la Corte aveva negato la riduzione per le circostanze generiche nella massima estensione, valorizzando la spiccatissima capacità a delinquere dell’imputato, come desunta dai gravi reati oggetto del procedimento, compresa la strage di cui all’art. 285 cod. pen.
Ma in tal modo era ravvisabile un profilo di contraddittorietà della motivazione, poiché lo stesso elemento era stato utilizzato negativamente ai fini
delle attenuanti generiche e positivamente ai fini della pena base in assenza di una specifica e rafforzata motivazione.
Ha presentato ricorso NOME tramite i suoi difensori AVV_NOTAIO e AVV_NOTAIO.
Propone tre motivi corrispondenti ai primi tre motivi del ricorso presentato nell’interesse di NOME.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso del Procuratore generale è nel suo complesso infondato.
Il primo motivo, in particolare, pur muovendo da una plausibile esegesi dell’art. 311 cod. pen., non giunge a conclusioni tali da disvelare l’erroneità dell’analisi formulata nella sentenza impugnata.
2.1. Va al riguardo osservato che l’art. 311 cod. pen. è applicabile a tutti i delitti previsti dal Titolo I del libro II del codice penale e quindi a tutti i contro la personalità dello Stato.
Esso contempla un’attenuante avente ad oggetto la lieve entità del fatto, la quale va valutata in rapporto alla natura, alla specie, ai mezzi, alle modalità o circostanze dell’azione ovvero alla particolare tenuità del danno o del pericolo.
E’ stato rilevato dalla Corte costituzionale (sentenze n. 68 del 2012 e n. 94 del 2023) che tale attenuante «rientrante nel novero delle circostanze cosiddette indefinite o discrezionali (non avendo il legislatore meglio precisato il concetto di “lievità” del fatto) consiste propriamente nel mitigare – in rapporto ai s profili oggettivi del fatto (caratteristiche dell’azione criminosa, entità del danno del pericolo) – una risposta punitiva improntata a eccezionale asprezza e che, proprio per questo, rischia di rivelarsi incapace di adattamento alla varietà delle situazioni concrete riconducibili al modello legale».
Costituisce affermazione ricorrente che tale attenuante si fonda su un giudizio che concerne il fatto nel suo complesso ed ha carattere oggettivo in relazione al danno o al pericolo per il bene giuridico protetto, da valutarsi in rapporto alle modalità o circostanze o ai mezzi che connotano la condotta o alle conseguenze da essa prodotte (sul punto si richiamano Sez. 1, n. 8944 del 07/10/1986, dep. 1987, COGNOME, Rv. 176504; Sez. 1, n. 4588 del 23/01/1984, COGNOME, Rv. 164238; Sez. 1, n. 15171 del 05/06/1978, COGNOME, Rv. 140477).
E’ stato rilevato anche che la lieve entità non è ravvisabile quando, a fronte di un fatto non di particolare gravità, assumano rilievo l’evento o anche solo la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione (Sez. 1, n. 15171,
COGNOME, cit., nonché più di recente, in senso sostanzialmente analogo, con riguardo all’attenuante, applicabile anche al delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione per effetto della sentenza n. 68 del 2012 della Corte Costituzionale, Sez. 5, n. 18981 del 22/02/2017, COGNOME, Rv. 269933).
Quale utile parametro di riferimento nell’inquadramento dell’attenuante, attesa la sua natura, può richiamarsi l’insegnamento delle Sezioni Unite, concernente l’ipotesi della lieve entità prevista dall’art. 73, comma 5, d.P.R. 309 del 1990, strutturata in modo simile e incentrata su una serie di elementi sintomatici, in relazione alla quale è stata sottolineata la necessità di una valutazione sincronica degli stessi in modo da valorizzare tutti i profili quand’anche non tutti dello stesso segno, e giungere ad un giudizio di sintesi (sul punto Sez. U, n. 51063 del 27/09/2018, Murolo, Rv. 274076).
Sta di fatto che ai fini in esame finisce per assumere rilievo tale giudizio di sintesi sulla lieve entità del fatto e che peraltro tale giudizio è in astra formulabile con riguardo a tutti i reati contro la personalità dello Stato.
2.2. In relazione al delitto di cui all’art. 285 cod. pen., deve rimarcarsi che lo stesso è connotato da una soglia anticipata della punibilità, riferita alla condotta che, allo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato, si risolve in un fatto dirett a portare (la devastazione, il saccheggio o) la strage nel territorio dello Stato o in una parte di esso.
Tale fattispecie va letta congiuntamente con quella dettata dall’art. 422 cod. pen., che in effetti contiene una clausola di sussidiarietà espressa a favore dell’ipotesi di cui all’art. 285 cod. pen., e che contempla la condotta di chi al fin di uccidere compie atti tali da porre in pericolo la pubblica incolumità, con previsione di diversa pena, a seconda che ne derivi o meno la morte di una o più persone.
Ciò significa che costituisce elemento costitutivo di entrambe le fattispecie la condotta tenuta al fine di uccidere, tale da porre in pericolo la pubblica incolumità, condotta che nel caso previsto dall’art. 285 cod. pen. è ulteriormente connotata dallo scopo di attentare alla sicurezza dello Stato.
A ben guardare, la maggiore gravità di tale fattispecie è sostanzialmente assorbita dalla proiezione della condotta, volta ad attentare alla sicurezza dello Stato, che costituisce il bene da essa primariamente tutelato, in aggiunta a quello della pubblica incolumità.
D’altro canto, tale peculiare proiezione offensiva deve risultare apprezzabile e verificabile, seppur tale da risultare, se del caso, di assai modesta consistenza.
Nel contempo, deve osservarsi che la condotta deve essere connotata, come quella prevista dall’art. 422 cod. pen. da ciò che dà contenuto al delitto di strage, cioè il fine di uccidere e l’idoneità a porre in pericolo la pubblica incolumità.
A fronte di ciò, si rileva che, mentre tale ipotesi delittuosa modula la pena in rapporto all’eventualità che si produca l’evento morte, ciò non è invece previsto dall’art. 285 cod. pen., che contempla la sola pena dell’ergastolo in ragione della rilevata maggior gravità, correlata alla proiezione specifica dell’offensività.
Sta di fatto che l’attenuante di cui all’art. 311 cod. pen. è applicabile solo all’ipotesi di cui all’art. 285 cod. pen. e non anche a quella di cui all’art. 422 co pen. che contempla tuttavia una possibilità di gradazione sanzionatoria.
Tutto ciò non può non riverberarsi nell’inquadramento dell’operatività dell’attenuante di cui all’art. 311 cod. pen.: in primo luogo la stessa postula comunque una condotta compiuta al fine di uccidere, tale da porre in pericolo la pubblica incolumità e connotata da una specifica proiezione offensiva, elementi che dunque non possono incidere in astratto ai fini dell’esclusione della lieve entità, ma possono, se del caso, assumere rilievo solo in concreto, nel quadro di un ponderato giudizio di sintesi; in secondo luogo essa implica che sia comunque primariamente valutata la peculiare direzione della volontà e l’apprezzabilità della sua specifica offensività, pur dovendosi considerare tutti i profili comuni al delitto di strage, rispetto al quale lo stesso legislatore, modulando la pena, fornisce un’indicazione del diverso grado di offensività, punendo più gravemente l’ipotesi in cui si registri la morte di una o più persone.
Detto altrimenti, può concludersi che non vale ad escludere la configurabilità dell’attenuante la circostanza che la condotta sia volta ad uccidere persone e idonea a porre in pericolo la pubblica incolumità, dovendosi invece formulare un giudizio nel quale si dia conto delle ragioni per cui il fatto, concretamente valutato, pur idoneo a integrare il reato, possa dirsi di lieve entità, ferma restando la primaria valutazione dell’offensività specifica, propria del delitto di strage politic e, peraltro, la tendenziale esclusione dell’attenuante, ove risulti addirittura prodotta la morte di una o più persone.
2.3. Orbene, la Corte di assise di appello, nel dar rilievo alla necessità di valutare primariamente il bene costituito dalla sicurezza dello Stato, non si è sostanzialmente discostata dai rilievi fin qui formulati e, contrariamente a quanto prospettato dal ricorrente, non si è limitata valutare il profilo soggettivo del dol specifico: in motivazione si è segnalato l’utilizzo di strumenti micidiali, avent potenzialità offensiva, di modalità che avrebbero potuto comportare eventi lesivi nei confronti dei destinatari dell’azione e di quanti fossero accorsi per prestare soccorsi in ragione della doppia esplosione, e in definitiva dell’apprezzabilità dei profili oggettivi dell’azione e degli eventi di danno in astratto derivabili dal condotta; ma il dato riassuntivo emergente da tale analisi è che si è in realtà inteso dar conto degli elementi costitutivi del delitto di strage, in rapporto alla final dell’azione e alla sua effettiva idoneità a mettere in pericolo la pubblica incolumità,
e che a tutto ciò ha comunque fatto riscontro l’indicazione delle ragioni per cui in concreto avrebbe dovuto ravvisarsi la lieve entità del fatto, inquadrato nella fattispecie di cui all’art. 285 cod. pen.
Ed invero, sia pur correlati alla valutazione della proiezione offensiva della condotta in relazione al bene della sicurezza dello Stato, nella sentenza impugnata la circostanza attenuante della lieve entità del fatto è stata fondata sull’apprezzamento di elementi inerenti alla dimensione oggettiva del fatto e della sua concreta offensività.
E’ stato infatti posto in evidenza -con rilievi che connotato l’attentato nel suo complesso- che le esplosioni erano avvenute in orario notturno a distanza di circa trenta minuti l’una dall’altra e in luogo sostanzialmente isolato, che gli ordigni erano collocati in un contenitore porta rifiuti posti sul marciapiede antistante la recinzione della RAGIONE_SOCIALE, a distanza di diversi metri dall’istituto, che le due esplosioni avevano provocato danni assai modesti, cioè il danneggiamento di due bidoni, la piegatura della rete di recinzione e, verosimilmente, il danneggiamento della facciata del Reparto RAGIONE_SOCIALE Istruzione della Caserma, raggiunta da schegge e detriti. In tale ottica si è poi specificamente rilevato che assai modesto era stato il pericolo per la sicurezza dello Stato, che gli attentatori avevano perseguito, considerando l’obiettivo dell’azione (la RAGIONE_SOCIALE) e la rivendicazione e i simbolismi sottesi all’attentato, ma nel quadro di un’operazione che non aveva riguardato un centro di comando ed era stata limitata ad un ambito assai limitato, senza che potesse dirsi che si fosse registrata la possibilità di un vulnus concreto agli interessi nazionali, al libero esercizio delle istituzioni democratiche, all’esistenza incolumità dei supremi organi statuali e in generale un’incidenza sulla compagine statuale o una parte di essa, con limitatissimo pericolo per la lesione alla personalità dello Stato. Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Si tratta dunque di un giudizio di sintesi che corrisponde a quanto richiesto dal dato normativo ai fini della valutazione della lieve entità del fatto, in rapport ai profili che connotano l’azione e l’offensività della condotta.
Il secondo motivo del ricorso del Procuratore generale, incentrato sulla motivazione, in relazione alla configurabilità dell’attenuante, è inammissibile, in quanto, una volta definito l’ambito del giudizio su cui si fonda detta attenuante, esso risulta volto a sollecitarne una rivisitazione, in una prospettiva che inerisce al merito e non anche allo scrutinio di legittimità.
Ed invero la Corte di assise di appello non ha trascurato alcun profilo inerente all’analisi dell’azione e dell’offensività della condotta, collocando non illogicamente tutti gli elementi valutati all’interno di un non arbitrario giudizio di sintesi, nel q
si è dato conto dell’apprezzabilità della condotta ai fini della configurabilità de reato e nel contempo degli elementi che valevano a ricondurre la condotta entro i confini della lieve entità del fatto nella sua concretezza, non essendo stata esclusa ma concretamente dimensionata la sua potenzialità offensiva.
D’altro canto, l’intento di uccidere e il pericolo derivante dall’attentato devono ritenersi sottesi al reato e devono nondimeno ritenersi non incompatibili con l’applicabilità dell’attenuante, che, come già rilevato, è riferibile in astratto a t i reati contro la personalità dello Stato.
Inoltre, le modalità dell’azione e la rivendicazione dell’attentato sono state valorizzate al fine di apprezzare la concreta offensività della condotta, inquadrata nella fattispecie di cui all’art. 285 cod. pen. ma sono state non illogicamente reputate inidonee, così come l’astratta micidialità dei mezzi, a rendere configurabile una marcata offensività dell’azione, risolvendosi nel tentativo di sollecitare un diverso apprezzamento di merito le censure riguardanti il riferimento fatto nella sentenza impugnata all’orario notturno e al luogo isolato nonché alla modestia dei danni in concreto cagionati.
Il terzo motivo, riguardante la ritenuta prevalenza delle attenuanti con riguardo alla posizione di COGNOME, è infondato.
Il ricorrente contesta la mancata valutazione della personalità di NOME e della sua inclinazione a delinquere, elementi non fatti oggetto di specifica motivazione nel quadro del giudizio di prevalenza delle attenuanti.
Va tuttavia rimarcato che l’apparente laconicità della motivazione sul punto, come esattamente rilevato nelle sue conclusioni anche dal Procuratore generale nel corso dell’udienza di discussione, è da ricondurre al fatto che la ritenuta prevalenza aveva costituito il fondamento dell’eccezione di illegittimità costituzionale sollevata dalla stessa Corte di assise di appello, a seguito della quale la Corte costituzionale si era pronunciata con la sentenza n. 94 del 2023, che aveva rimosso il divieto della prevalenza delle attenuanti in presenza della recidiva reiterata.
In quella sede la Corte di assise di appello aveva formulato valutazioni destinate a suffragare l’assunto della prospettabilità della prevalenza delle attenuanti, valutazioni, che anche in ragione dello stadio cui era giunto il processo, avrebbero dovuto ritenersi ormai ad esso immanenti e costituenti il presupposto intorno al quale è ruotato l’intero apprezzamento della regiudicanda nella sede rescissoria.
Deve, d’altro canto, rimarcarsi come il concreto apprezzamento dei profili oggettivi dell’azione, sfociato nel riconoscimento dell’attenuante di cui all’art. 311 cod. pen. abbia assunto di per sé – tanto più in una situazione peculiare, connotata
dalla previsione astratta della pena dell’ergastolo, salva la riduzione per effetto di attenuanti- un rilievo preponderante e assorbente, anche al fine di recuperare un adeguato margine di apprezzamento discrezionale in ordine alla determinazione della pena, tema sul quale si avrà modo di tornare esaminando i motivi di NOME e di NOME, fermo restando che il profilo personologico, comunque reputato significativo anche nella sentenza impugnata, ha in concreto influito sul quantum di pena, in particolare comportando, nell’ambito di un giudizio di sintesi, una riduzione per le attenuanti generiche non corrispondente al massimo consentito.
In tale prospettiva, dunque, la deduzione del ricorrente non può dirsi fondata.
5. I ricorsi di NOME e NOME sono inammissibili.
6. In primo luogo, è irrilevante, oltre che manifestamente infondata, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 620, comma 1, lett. I) e 623 cod. proc. pen. per violazione degli artt. 111, comma settimo, 10, comma primo, 117, comma primo, Cost. e 14, par. 5 Patto internazionale sui diritti civili e politici del 16/12/1966.
Deve al riguardo osservarsi che la Corte di cassazione con la sentenza del 06/07/2022 ha annullato la sentenza impugnata nei confronti degli imputati, in accoglimento del ricorso del P.M., procedendo a riqualificare il reato di cui al capo F) ai sensi dell’art. 285 cod. pen. in conformità con l’originaria imputazione -prima che i Giudici di merito qualificassero la fattispecie ai sensi dell’art. 422 cod. pen. e disponendo il rinvio ai soli fini della rideterminazione del trattamento sanzionatorio, conseguente a tale diversa e più grave qualificazione.
In tal modo la Corte di cassazione ha proceduto all’irretrattabile applicazione dell’art. 620, disponendo nella sostanza un annullamento senza rinvio sul punto della qualificazione del reato, seguita dalla nuova qualificazione, e ha fatto applicazione dell’art. 623 cod. proc. pen., nella parte in cui ha ritenuto necessario sottoporre al Giudice di merito il tema della rideterminazione della pena.
Ne discende che con riguardo alla riqualificazione in sede di rinvio non avrebbe potuto farsi applicazione né dell’art. 620 né dell’art. 623 cod. proc. pen., trattandosi di tema che la Corte di cassazione aveva ormai definito, potendosi semmai prospettare la questione prima che tali norme fossero applicate dal giudice di legittimità e spettando al giudice del rinvio solo di prendere atto dei limiti dell operata devoluzione.
Va in ogni caso segnalata la manifesta infondatezza della questione.
I ricorrenti hanno inteso sottolineare che non veniva in rilievo il tema della riqualificazione a sorpresa ed hanno invece invocato, soprattutto sulla base della richiamata norma pattizia, il diritto a che l’accertamento della colpevolezza e la
condanna siano riesaminati da un giudice di seconda istanza, volendo in tale prospettiva segnalare la necessità di un nuovo esame del tema della qualificazione, che non potrebbe essere definito dalla Corte di cassazione, senza la possibilità di una nuova devoluzione, e rispetto al quale dunque spetterebbe alla Corte di cassazione solo la facoltà di enunciare i principi vincolanti rimessi poi alla valutazione del giudice del rinvio.
Si tratta di assunto manifestamente infondato, in quanto il diritto ad un nuovo esame dell’accertamento della colpevolezza e della condanna è ampiamente soddisfatto dalla possibilità di presentare appello e di ricorrere poi in sede di legittimità.
Deve al riguardo rilevarsi che il tema della qualificazione è stato fatto oggetto di esame da parte delle Corti europee in relazione all’esigenza di assicurare il diritto di difesa e di garantire il contraddittorio, per tale motivo essendosi segnalata la contrarietà ai principi del giusto processo di una riqualificazione non prevista e non prevedibile e tale da pregiudicare la facoltà di difendersi (sul punto la nota COGNOME contro Italia dell’11/12/2007, n. 25574/04 e, più di recente, Corte di giustizia UE, 9/11/2022, BK, C-175/22).
Ma tutto ciò non toglie che la qualificazione del reato costituisca un profilo del tema di accusa, cui si correla la condanna, e che quest’ultima costituisca il risultato dell’accertamento della colpevolezza in relazione a tutti i temi rilevanti, non potendosi isolare al fine della sottoposizione a nuovo esame solo uno di essi.
Deve d’altro canto rimarcarsi come l’assunto secondo cui la Corte dovrebbe limitarsi a definire i principi vincolanti e rimettere la definitiva qualificazion giudice di merito non consideri che la qualificazione inerisce alla sussunzione del fatto come definitivamente accertato e dunque implica l’applicazione della norma penale, di per sé rientrante nello scrutinio di legittimità, e che i principi vincola non potrebbero che orientare in modo stringente il giudizio e, ove rispettati, non potrebbero giustificare l’ammissibilità di un nuovo vaglio di legittimità.
Risulta dunque all’evidenza surrettizia la prospettiva di sottoporre a nuovo scrutinio lo specifico tema della qualificazione, non isolabile da tutti quelli ch concorrono alla condanna.
Va del resto ribadito, con riguardo al caso di specie, che il contraddittorio sullo specifico tema si è svolto in tutti i gradi di giudizio, a fronte dell’origin qualificazione del capo F) e della successiva riqualificazione, operata dalla Corte di assise, nel reato di cui all’art. 422 cod. pen., prima che, in accoglimento del ricorso del P.m., la Corte di cassazione si pronunciasse nei termini indicati, il che conferma che i ricorrenti hanno avuto la possibilità di confrontarsi sul tema fino alla fine fermo restando che è ineludibile giungere al giudizio finale coinvolgente il profilo della qualificazione.
In pari misura irrilevante e comunque manifestamente infondata è anche la questione di legittimità costituzionale dell’ergastolo come unica pena prevista dall’art. 285 cod. pen.
Va al riguardo osservato che i ricorrenti hanno inteso contestare non tanto l’ergastolo come pena astrattamente prevista dal codice penale, bensì la fissità della pena stabilità dall’art. 285 cod. pen., che non consentirebbe di applicare una pena realmente corrispondente alla diversa gravità e offensività e al diverso grado di colpevolezza sotteso a condotte in astratto riconducibili allo stesso paradigma.
Viene in rilievo il noto insegnamento della Corte costituzionale secondo cui previsioni sanzionatorie rigide non sono in linea con il «volto costituzionale» del sistema penale, potendo esse essere giustificate solo «a condizione che, per la natura dell’illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, quest’ultima appaia ragionevolmente “proporzionata” rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato» (sentenze n. 222 del 2018 e n. 50 del 1980).
Va tuttavia rimarcato che proprio in ragione di tale presupposto la Corte costituzionale con la sentenza n. 94 del 2023, pronunciata a seguito della questione sollevata nell’ambito del presente processo, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, comma quarto, cod. pen., nella parte in cui relativamente ai delitti puniti con la pena edittale dell’ergastolo, prevede il diviet di prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata di cui all’art. 99, comma quarto, cod. pen., facendo in particolare riferimento all’applicabilità prospettata dalla Corte di assise di appello remittente delle attenuanti di cui all’art. 311 cod. pen. e di cui all’art. 62-bis cod. pen., che in assenza della declaratoria di incostituzionalità sarebbero state sterilizzate in un giudizio al più di equivalenza, implicante l’irrogabilità della pena dell’ergastolo, quale che fosse state la gravità del fatto e il grado di colpevolezza degli imputati.
Orbene, deve rilevarsi che proprio la possibilità di scrutinare l’applicabilità dell’art. 311 cod. pen. e di altre attenuanti consente al Giudice, con riguardo al reato di cui all’art. 285 cod. pen. e agli altri reati puniti con la sola pe dell’ergastolo, di esercitare il potere discrezionale di determinazione del trattamento sanzionatorio, posto che in caso di applicazione delle attenuanti la pena dell’ergastolo ai sensi dell’art. 65 cod. pen. è sostituita dalla reclusione da venti a ventiquattro anni.
Sul punto si era del resto già osservato che la possibilità di applicare attenuanti avrebbe dovuto intendersi come idonea a far risultare come manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 285
cod. pen. in relazione agli artt. 3 e 27 Cost. (Sez. 1, n. 1538 del 15/11/1978, Azzi, Rv. 141120).
Si recupera, invero, per questa via la mobilità e l’individualizzazione del trattamento sanzionatorio, che ne assicura l’adeguamento alle particolarità della fattispecie concreta, in conformità con quanto richiesto dalla Corte costituzionale (sentenze n. 67 del 1963, n. 104 del 1968, n. 50 del 1980, n. 222 del 2018).
Si è già visto, d’altro canto, che l’art. 311 cod. pen. consente di tener conto del diverso grado di offensività della concreta fattispecie in rapporto ad una pluralità di indici e che le stesse attenuanti generiche consentono di valutare plurimi parametri, desumibili dai canoni di cui all’art. 133 cod. peri., idone all’individuazione di profili specificamente meritevoli di considerazione, anche a fronte della contestazione della recidiva reiterata (si consideri ad esempio la sentenza della Corte costituzionale n. 183 del 2011, riguardante la possibilità di prendere in considerazione il comportamento susseguente al reato, in quanto espressivo di collaborazione ed emenda).
In tale prospettiva deve ritenersi che proprio la richiamata sentenza n. 94 del 2023 della Corte costituzionale, avendo rimosso il divieto di prevalenza delle attenuanti, abbia inteso assicurare la possibilità di un trattamento sanzionatorio individualizzato, correlato alle caratteristiche del fatto, confrontate con i prof personologici, in un complessivo giudizio di sintesi dal quale discende la determinazione della pena, senza che residui la necessità di interventi ulteriori in rapporto ai parametri di costituzionalità evocati.
Sta di fatto che i Giudici di merito hanno concretamente valutato l’applicabilità delle richiamate attenuanti e le hanno poi applicate, così da recuperare un profilo di determinazione discrezionale della pena, che vale a rendere in radice irrilevante la questione prospettata, fermo restando che la stessa proprio alla luce della sentenza n. 94 del 2023 risulta anche manifestamente infondata.
Non vale in senso contrario il rilievo che il reato di strage comune, di cui all’art 422 cod. pen. prevede diversi livelli di gravità, a seconda che si registri o meno la morte di una o più persone, cui commisura la pena. E’ invero agevole replicare che il reato di cui all’art. 285 cod. peri., a fronte di un base fattuale corrispondente si caratterizza per la direzione della volontà, che sorregge la condotta, volta ad attentare alla sicurezza dello Stato, ciò che fa emergere sul piano astratto un profilo di gravità estrema del reato, tale da giustificare una scelta sanzionatoria parimenti estrema. Nel contempo va rimarcato come, rispetto all’art. 422 cod. peri., all’ipotesi di cui all’art. 285 cod. pen. è applicabile l’attenuante di cui all 311 cod. pen., che, come sottolineato anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 94 del 2023, priva di qualsivoglia fondamento l’assunto che non sia possibile distinguere il caso in cui si registri la mancanza di vittime: si è rileva
infatti che «per consentire alla pena di riflettere il concreto disvalore del fatto, legislatore del 1930 ha previsto, anche nell’ambito di reati, pur gravissimi, quali i delitti contro la personalità dello Stato, la diminuente di cui all’art. 311 cod. pen. applicabile trasversalmente a tutti tali reati, e dunque anche alla strage di cui all’art. 285 cod. pen. L’applicazione di tale circostanza al delitto in esame consente al giudice di non irrogare la pena dell’ergastolo nei casi che si collocano nella soglia inferiore della scala di gravità dei fatti riconducibili alla figura astratta del reato particolare per non avere cagionato la morte di alcuno».
Il tema dedotto risulta dunque a priori definito, senza necessità di alcun intervento correttivo, essendo la questione, nella prospettiva evocata, manifestamente infondata.
8. Il terzo motivo è inammissibile perché manifestamente infondato.
I ricorrenti deducono che rispetto al criterio di muovere dal minimo edittale di anni venti, per determinare la pena base riferita proprio al reato di cui all’art. 285 cod. pen., considerato il più grave, sia incongrua e violi l’art. 597 cod. proc. pen. la conferma degli stessi aumenti a titolo di continuazione con gli altri reati, applicati nei precedenti gradi di giudizio.
Si tratta di assunto che non considera alcuni elementi decisivi: innanzi tutto al di là della modulazione della pena base all’interno della forbice edittale consentita dal giudizio di prevalenza delle attenuanti, è dirimente che la qualificazione operata dalla Corte di cassazione, in accoglimento del ricorso del P.m., con riguardo al reato sub F) sia ben più grave rispetto a quella operata nei precedenti gradi e che corrispondentemente la pena base applicata in sede di rinvio sia in concreto più elevata rispetto a quella cui erano stati commisurati nei precedenti gradi gli aumenti per la continuazione; in secondo luogo la sentenza rescindente ha reso definitivo il giudizio relativamente a tutti gli altri reati, unifi ai sensi dell’art. 81 cod. pen.; infine il tema della motivazione degli aumenti per la continuazione non aveva formato oggetto di ricorso nella fase rescindente.
A ben guardare, dunque, l’intervento modificativo non ha riguardato gli altri reati e, nel contempo, la relatio intercorrente tra questi e il reato assunto come più grave, che connota il reato continuato (sul punto, in motivazione, Sez. U, n. 16208 del 27/03/2014, C., Rv. 258653), non implicava alcuna riduzione della pena imputabile a titolo di continuazione, non essendo stati alterati i rapporti tra i divers reati, dei quali erano stati delineati la fisionomia e il carico sanzionatorio, non potendosi in alcun modo prospettare un profilo di contraddittorietà valutativa rispetto ad un giudizio confinato entro la soglia stabilita per il reato più grave qualificato, peraltro, in termini di maggior gravità.
Inammissibile risulta infine il quarto motivo, contenuto nel ricorso presentato nell’interesse del solo NOME.
La prospettazione di una violazione di legge e di un vizio di motivazione nella parte in cui la riduzione per le attenuanti generiche è stata determinata in misura inferiore al massimo consentito, si risolve in una deduzione volta a sollecitare una diversa valutazione di merito, esulante dallo scrutinio di legittimità e comunque manifestamente infondata.
Va infatti rilevato che, a seguito della rimozione del relativo divieto, i formulato e necessariamente unitario giudizio di prevalenza delle attenuanti sulla recidiva reiterata ha consentito di adeguare la pena alla concreta gravità e offensività della condotta, ma ciò non significa che il profilo personologico non assumesse ormai alcun rilievo, potendo invece incidere sull’entità delle riduzioni imputabili alle attenuanti, essendosi in particolare del tutto correttamente valorizzata la capacità a delinquere del ricorrente, desunta anche dalla pluralità dei reati addebitati, per dimensionare la riduzione di pena imputabile alle riconosciute attenuanti generiche in misura inferiore al massimo consentito, nel quadro di un ragionevole bilanciamento, che dà contenuto ad un giudizio discrezionale, non sindacabile ove non arbitrario (per i canoni che presiedono al computo delle diminuzioni correlate alle attenuanti, si rinvia a Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, Mastro, Rv. 271243; Sez. 3, n. 6877 del 26/10/2016, S., Rv. 269196).
In conclusione, il ricorso del Procuratore generale deve essere rigettato, mentre devono essere dichiarati inammissibili i ricorsi di NOME COGNOME e NOME, che devono essere condannati al pagamento delle spese processuali e, in ragione dei profili di colpa sottesi alla causa dell’inammissibilità, a quello del somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
P. Q. M.
Rigetta il ricorso del Procuratore generale. Dichiara inammissibilt,i$ ricorsiLdi NOME NOME e li condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso il 24/04/2024