Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 15130 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 15130 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 07/02/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a POLLENA TROCCHIA il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 07/06/2023 della CORTE di APPELLO di NAPOLI visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto procuratore generale NOME, che ha chiesto l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata limitatamente alla statuizione relativa alla circostanza attenuante di cui all’art. 648-bis, comma 4, cod. proc. pen. e la declaratoria di inammissibilità nel resto del ricorso;
ricorso trattato con contraddittorio scritto ai sensi dell’art. 23, comma 8, D. L. 137/2020 e s.m.i.
RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di Napoli con sentenza del 7/6/2023 confermava la sentenza pronunciata dal Tribunale di Noia in data 3/2/2020, che aveva condannato NOME COGNOME per i reati di cui agli artt. 648 e 648-bis cod. pen.
L’imputato, a mezzo del difensore, ha interposto ricorso per cassazione, deducendo con il primo motivo l’omessa e/o la manifesta illogicità della motivazione in relazione alla richiesta di assoluzione. Ritiene che l’imputato abbia fornito una plausibile spiegazione in ordine al rinvenimento presso la sua abitazione del contratto di locazione e del verbale di sequestro, non smentita da
prove o indizi contrari; che la Corte territoriale sia incorsa in un duplice error laddove afferma che il ricorrente svolge l’attività di barbiere (svolta invece da mediatore NOME COGNOME) e che esiste un verbale negativo di perquisizione a carico del COGNOME, di cui invece non vi è traccia nel fascicolo processuale; che, dunque, sia illogico sostenere che la versione fornita dall’imputato non è attendibile perché questi svolge l’attività di barbiere (circostanza questa in ogni caso non vera); che sia plausibile che il ricorrente svolgesse l’attività mediazione immobiliare in favore di NOME COGNOME e che per tale motivo detenesse il contratto di locazione ed il verbale di sequestro; che il ritrovamento del foglio manoscritto nulla provi, in considerazione del fatto che non contiene alcun riferimento alle autovetture in sequestro, oltre che essere privo di data.
2.1 Con il secondo motivo deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 648-bis, 648 e 624 cod. pen. Rileva che la Corte territoriale non ha accolto il motivo con cui si chiedeva di riqualificare le condotte contestate nella fattispecie di furto; che ciò era imposto in ragione del breve lasso temporale intercorso tra il furto ed il ritrovamento delle due autovetture.
2.2 Con il terzo motivo lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 648-bis cod. pen. sotto il profilo della manifesta illogicità della motivazion Osserva che mancherebbe nel caso di specie il dolo del riciclaggio, posto che nulla porta ad escludere che il ricorrente abbia ricettato i singoli pezzi della Kuga, in luogo di provvedere in prima persona allo smontaggio dell’autovettura; che non vale a sopperire la mancanza del dolo la circostanza che il sequestro sia intervenuto in prossimità temporale del furto,
2.3 Con il quarto motivo deduce omessa e/o illogicità manifesta della motivazione in relazione alla mancata applicazione della circostanza attenuante prevista dall’art. 648-bis, comma quarto, cod. pen. ed al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. In ordine al primo profilo, rileva come la Corte territoriale abbia errato nel non riconoscere l’ipotesi attenuata in ragione della gravità della condotta, posto che trattasi di circostanza di natura oggettiva che non ammette alcun potere discrezionale in ordine alla sua applicazione; in relazione al secondo profilo, evidenzia come la sentenza impugnata non abbia considerato lo stato di incensuratezza e l’apprezzabile comportamento processuale.
2.4 In data 29/1/2024 è pervenuta memoria difensiva con conclusioni, con cui si insiste nell’accoglimento del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
1.1 I primi tre motivi non sono consentiti, in quanto costituiti da mere doglianze di fatto, tutte finalizzate a prefigurare una rivalutazione alternativ delle fonti probatorie, estranee al sindacato di legittimità. Peraltro, tutti e t motivi sono reiterativi di medesime doglianze inerenti alla ricostruzione dei fatti e all’interpretazione del materiale probatorio già espresse in sede di appello ed affrontate in termini precisi e concludenti dalla Corte territoriale.
Va, poi, evidenziato che la sentenza di appello oggetto di ricorso in relazione alla affermazione della responsabilità degli imputati costituisce una c.d. doppia conforme della decisione di primo grado, con la conseguenza che le due sentenze di merito possono essere lette congiuntamente costituendo un unico corpo decisionale, essendo stato rispettato sia il parametro del richiamo da parte della sentenza d’appello a quella del Tribunale, sia l’ulteriore parametro costituito dal fatto che entrambe le decisioni adottano i medesimi criteri nella valutazione delle prove (Sezione 2, n. 6560 del 8/10/2020, Capozio, Rv. 280654 – 01).
Tanto premesso, si osserva che la modifica dell’art. 606 lett. e) cod. proc. pen., per effetto della legge n. 46 del 2006, non consente alla Corte di legittimità di sovrapporre la propria valutazione a quella già effettuata dai giudici di merito, mentre comporta che la rispondenza delle dette valutazioni alle acquisizioni processuali possa essere dedotta sotto lo stigma del cosiddetto travisamento della prova, a condizione che siano indicati in maniera specifica e puntuale gli atti rilevanti e sempre che la contraddittorietà della motivazione rispetto ad essi sia percepibile ictu ocull, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato ai rilievi di macroscopica evidenza, senza che siano apprezzabili le minime incongruenze (Sezione 3, n. 18521 del 11/01/2018, COGNOME, Rv. 273217 01; Sezione 6, n. 25255 del 14/02/2012, COGNOME, Rv. 253099 – 01; Sezione 4, n. 35683 del 10/07/2007, COGNOME, Rv. 237652 – 01). Questa Corte, infatti, con orientamento (Sezione 2, n. 5336 del 9/1/2018, COGNOME., Rv. 272018 – 01; Sezione 6, n. 19710 del 3/2/2009, Buraschi, Rv. 243636 – 01) che il Collegio condivide e ribadisce, ritiene che, in presenza della c.d. “doppia conforme”, ovvero di una doppia pronuncia di eguale segno (nel caso di specie, riguardante l’affermazione di responsabilità in ordine ai reati come contestati), il vizio di travisamento del prova possa essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso in cui il ricorrent rappresenti (con specifica deduzione) che l’argomento probatorio asseritamente travisato sia stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado.
In altri termini, secondo la giurisprudenza della Suprema Corte (Sezione 2, n. 9106 del 12/2/21, COGNOME, Rv. 280747 – 01; Sezione 6, n. 5465 del 4/11/2020, F., Rv. 280601 – 01), il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato deve mirare a verificare che
la relativa motivazione sia: a) “effettiva”, ovvero realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non “manifestamente illogica”, ovvero sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; c) non internamente “contraddittoria”, ovvero esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; d) non logicamente “incompatibile” con altri atti del processo, dotati di una autonoma forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o radicalmente inficiare sotto il profilo logico la motivazione (nell’affermare tal principio, la Corte ha precisato che il ricorrente, che intende dedurre la sussistenza di tale incompatibilità, non può limitarsi ad addurre l’esistenza di “atti del processo” non esplicitamente presi in considerazione nella motivazione o non correttamente interpretati dal giudicante, ma deve invece identificare, con l’atto processuale cui intende far riferimento, l’elemento fattuale o il dat probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione adottata dal provvedimento impugnato, dare la prova della verità di tali elementi o dati invocati, nonché dell’esistenza effettiva dell’atto processuale in questione, indicare le ragioni per cui quest’ultimo inficia o compromette in modo decisivo la tenuta logica e l’interna coerenza della motivazione).
1.1.1 Non è dunque sufficiente che gli atti del processo invocati dal ricorrente siano semplicemente “contrastanti” con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante e con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità, né che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante. Ogni giudizio, infatti, implica l’analisi di un complesso di elementi di segno non univoco e l’individuazione, nel loro ambito, di quei dati che – per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra loro e convergenti verso un’unica spiegazione – sono in grado di superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, ad un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento. È, invece, necessario che gli atti del processo richiamati dal ricorrente per sostenere l’esistenza di un vizio della motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione sia in grado di disarticolare l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione. Il giudice di legittimità è, pertanto, chiamato a svolgere un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione
effettiva, non manifestamente illogica e internamente coerente, a seguito delle deduzioni del ricorrente concernenti “atti del processo”.
1.1.2 Tale controllo, per sua natura, è destinato a tradursi in una valutazione, di carattere necessariamente unitario e globale, sulla reale “esistenza” della motivazione e sulla permanenza della “resistenza” logica del ragionamento del giudice. Al giudice di legittimità resta, invero, preclusa, in sede di controllo sulla motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatt posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati giudice di merito, perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la Corte nell’ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispettino sempre uno standard di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione. Può quindi affermarsi che, anche a seguito delle modifiche dell’art. 606 cod. proc. pen., comma 1, lett. e) ad opera dell’art. 8 della L. n. 46 del 2006, «mentre non è consentito dedurre il travisamento del fatto, stante la preclusione per il giudice di legittimità sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito, è invece, consentito dedurre il vizio di travisamento della prova, che ricorre nel caso in cui il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale, considerato che in tal caso, non si tratta di reinterpretare gli elementi di prova valutati dal giudice di meri ai fini della decisione, ma di verificare se detti elementi sussistano» (Sezione 5, n. 39048 del 25/09/2007, COGNOME, Rv. 238215 – 01). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
1.1.3 Pertanto, il sindacato di legittimità non ha per oggetto la revisione del giudizio di merito, bensì la verifica della struttura logica del provvedimento e non può quindi estendersi all’esame ed alla valutazione degli elementi di fatto acquisiti al processo, riservati alla competenza del giudice di merito, rispetto alla quale la Suprema Corte non ha alcun potere di sostituzione al fine della ricerca di una diversa ricostruzione dei fatti in vista di una decisione alternativa. Né i giudice di legittimità può trarre valutazioni autonome dalle prove o dalle fonti di prova, neppure se riprodotte nel provvedimento impugnato. Invero, solo l’argomentazione critica che si fonda sugli elementi di prova e sulle fonti indiziarie contenuta nel provvedimento impugnato può essere sottoposto al controllo del giudice di legittimità, al quale spetta di verificarne la rispondenz
alle regole della logica, oltre che del diritto e all’esigenza della completezz espositiva (Sezione 6, n. 40609 del 01/10/2008, COGNOME, Rv. 241214 – 01).
1.1.4 Nel caso di specie, la Corte territoriale ha risposto punto per punto alle doglianze avanzate dalla difesa, valorizzando i) il rinvenimento presso il domicilio del COGNOME del contratto di locazione, del verbale di sequestro e dell’appunto relativo a pezzi di ricambio di autovetture; il) l’assenza di qualsivoglia elemento che potesse fare pure solo ipotizzare il concorso del ricorrente nel furto delle autovetture rinvenute; iii) la struttura del reato di cui all’art. 648-bis cod. pen., quale reato a consumazione anticipata, che si perfeziona con il compimento delle operazioni volte ad ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa del bene e, dunque, per quel che qui rileva con lo smontaggio in parti del veicolo provento di furto.
Ebbene, a fronte di una motivazione congrua, analitica ed esaustiva, del tutto esente da qualsivoglia vizio logico, la difesa si è limitata a ripropor doglianze, già avanzate ai giudici di appello, con le quali ha continuato nell’opera di parcellizzazione del materiale probatorio ed ha cercato di fornire una lettura in fatto alternativa a quella fatta propria dai giudici di entrambi i gradi di merito.
Va, poi, evidenziato che l’errore sulla attività lavorativa svolta dal COGNOME non è tale da inficiare la struttura motivazionale della sentenza, atteso che riguarda un aspetto che non pregiudica la bontà del percorso logico argomentativo seguito per confermare la sentenza di primo grado in punto di affermazione della penale responsabilità. Invero, sotto questo aspetto, il motivo risulta aspecifico, posto che non indica se, all’esito della prova di resistenza, g altri elementi valutati a carico dell’imputato fossero sufficienti o meno respingere la doglianza sulla responsabilità del ricorrente in relazione ad entrambi i reati ascrittigli.
Con riferimento a tale ultimo profilo, si osserva che, nell’ipotesi in cui con il ricorso per cassazione si lamenti l’errore di valutazione di un elemento a carico, il motivo di impugnazione deve illustrare, a pena di inammissibilità per aspecificità, l’incidenza dell’eventuale eliminazione del predetto elemento ai fini della cosiddetta “prova di resistenza”, in quanto gli elementi di prova erroneamente valutati diventano irrilevanti ed ininfluenti se, nonostante la loro espunzione, l residue risultanze risultino sufficienti a giustificare l’identico convincimento.
Nel caso oggetto di scrutinio, a seguito della prova di resistenza, ritiene i Collegio che, ai fini del riconoscimento della responsabilità del COGNOME, la questione relativa all’attività lavorativa da lui svolta non risulti determinante, quanto la Corte territoriale ha fondato la conferma della sentenza di primo grado sul rinvenimento della documentazione di cui si è detto, che non trova diversa plausibile spiegazione.
1.2 Il quarto motivo è articolato sotto un duplice profilo.
1.2.1 Sotto un primo aspetto ci si duole del mancato riconoscimento dell’ipotesi attenuata prevista dall’art. 648-bis, comma quarto, cod. pen. Ritiene il Collegio che il motivo sia infondato, in considerazione del fatto che il reat presupposto, da individuarsi nel furto delle due autovetture aggravato quantomeno ai sensi dell’art. 625, comma primo, n. 7, cod. pen. (che all’epoca di commissione dei fatti era punito con la pena della reclusione da uno a sei anni), è punito con pena superiore a cinque anni. Non può, invero, sostenersi che il richiamo contenuto nell’art. 648-bis, comma quarto, cod. pen. alla pena detentiva inferiore nel massimo a cinque anni debba essere riferito alla pena massima prevista per la fattispecie-base, senza che assumano rilievo le circostanze aggravanti, comprese quelle ad effetto speciale e quelle per cui la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato.
In proposito, rileva in linea generale il Collegio che questa Corte di legittimità nella sua più autorevole composizione (Sezioni Unite n. 36272 del 31/3/2016, Sorcinelli, Rv. 267238 – 01) ha affermato che «i criteri per la selezione dei reati attraverso il riferimento alla quantità di pena sono influenzati dagli istituti a cui si riferiscono e sono utilizzati, di volta in volta, in valutazioni discrezionali del legislatore», sicché ««ogni tentativo di ricercare una rigorosa e indefettibile coerenza del sistema in materia è destinato all’insuccesso». Ed, infatti, il principio di diritto enunciato nell’arresto in disc («Ai fini dell’individuazione dei reati ai quali è astrattamente applicabile disciplina dell’istituto della sospensione con messa alla prova, il richiamo contenuto nell’art. 168-bis c.p., alla pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni va riferito alla pena massima prevista per la fattispeciebase, non assumendo a tal fine alcun rilievo le circostanze aggravanti, comprese le circostanze ad effetto speciale e quelle per cui la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato»), non ha valenza generale proprio perché è limitato all’istituto della messa alla prova di cui all’art. 168-bis c pen., come risulta evidente dalla motivazione, che è tutta incentrata sull’analisi storica e sistematica dell’art. 168-bis cod. pen.
Escluso, quindi, che il suddetto principio possa essere applicato sia pure in via analogica alla fattispecie in esame, non resta che procedere all’interpretazione della norma per verificare se, per l’applicazione dell’attenuante, debba tenersi conto della pena stabilita dal reato presupposto base ovvero dalla pena stabilita dal reato presupposto aggravato. Del resto, anche se la maggior parte delle disposizioni del codice tengono conto, per la determinazione della pena ai più diversi fini, delle circostanze aggravanti per le quali è stabilita una pena di specie diversa e di quelle ad effetto speciale, non
per questo deve ritenersi che da esse emerga una regola generale e, soprattutto, che tale regola non sia derogabile dal legislatore. In realtà, si trat semplicemente di una “linea di tendenza”, che non assurge a criterio generale.
Orbene, come hanno osservato le Sezioni Unite cit. « il riferimento alla lettera della legge costituisce la prima regola interpretativa (art. 12 preleggi) e allo stesso tempo, il limite di ogni altro criterio ermeneutico cui ricorrere sol quando il testo risulti poco chiaro o di significato non univoco».
L’art. 648-bis, comma quarto, cod. pen. dispone che la pena per il delitto di riciclaggio è diminuita solo quando per il reato presupposto «è stabilita la pena della reclusione inferiore nel massimo a cinque anni». Tuttavia, poiché la legge è silente sul criterio da seguire per calcolare la pena stabilita per il rea presupposto, non vi è alcun motivo per cui debba privilegiarsi la pena stabilita per il reato base e non anche quella stabilita dal reato base aggravato, tanto più ove si consideri che «la fattispecie circostanziata è dotata di una sua autonoma cornice edittale » (Sezioni Unite cit.).
Risulta, dunque, determinante, a giudizio del Collegio, l’interpretazione sistematica della norma.
Sul punto, occorre prender le mosse da un dato fondamentale: la circostanza attenuante di cui al comma quarto dell’art. 648-bis cod. pen. si giustifica e trova la sua ragion d’essere nel minor disvalore del reato presupposto, al quale è in modo indissolubilmente subordinata: se la pena (edittale) prevista per il reato presupposto – comprese le circostanze aggravanti – è inferiore nel massimo a cinque anni, il giudice che giudica il reato a valle (rectius: riciclaggio) deve riconoscere la sussistenza dell’attenuante di cui all’art. 648-bis, comma quarto, cod. pen.; se, invece, la pena (edittale) prevista per il reato presupposto – comprese le circostanze aggravanti – è superiore nel massimo a cinque anni, il giudice che giudica il reato a valle (rectius: riciclaggio) non può riconoscere la sussistenza dell’attenuante di cui all’art. 648-bis, comma quarto, cod. pen.
È chiaro, a questo punto, che diventa fondamentale accertare quale sia la pena del reato presupposto.
Ove il reato presupposto sia stato oggetto di un separato giudizio con sentenza passata in giudicato, il giudice che giudica il riciclaggio non può che prendere atto della decisione del giudice del reato presupposto e ad essa adeguarsi. Quindi, riterrà o meno la sussistenza dell’attenuante a seconda che la pena edittale del reato presupposto (comprese le aggravanti, ove siano state ritenute se pure in astratto e, quindi, indipendentemente da eventuali bilanciamenti) superi o meno nel massimo la pena di anni cinque.
Ove il reato presupposto non sia stato oggetto di alcun giudizio, spetta al giudice che giudica del riciclaggio, verificarne – sia pure in via incidentale sussistenza. In tal senso è la consolidata giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale «in tema di riciclaggio ed autoriciclaggio, non è necessario che la sussistenza del delitto presupposto sia stata accertata da una sentenza di condanna passata in giudicato, essendo sufficiente che il fatto costitutivo di tale delitto non sia stato giudizialmente escluso, nella sua materialità, in modo definitivo e che il giudice procedente per il riciclaggio o autoriciclaggio ne abbi incidentalmente ritenuto la sussistenza, in mancanza imponendosi l’assoluzione dell’imputato perché il fatto non sussiste» (Sezione 2, n. 42052 del 19/6/2019 , COGNOME, Rv. 277609 – 02; Sezione 2, n. 28272 del 31/5/2023, COGNOME; Sezione 2, n. 16764 del 19/1/2023, COGNOME; Sezione 5, n. 17747 del 17/1/2022, COGNOME).
Si ripropone, quindi, anche per il giudizio incidentale, mutatis mutandis, la stessa situazione illustrata in relazione alla sentenza passata in giudicato sul reato presupposto.
In proposito, invero, questa Corte ha rilevato che «è poi innegabile che il giudizio prognostico circa l’applicabilità o meno dell’attenuante di cui all’art. 648 bis c.p., comma 3 e – in caso affermativo – circa la misura della riduzione di pena derivantene, per i fini di cui all’art. 280 c.p.p., appartiene al merito e non p formare oggetto di ricorso per cassazione, una volta che il giudice abbia motivato il proprio convincimento: il che si riscontra nel caso di specie, in cui il Tribuna ha valorizzato la gravità dei fatti contestati e l’applicabilità ai reati presupp dell’aggravante di cui al D.L. 13 maggio, n. 152, art. 7» (Sezione 5, n. 36940 del 21/5/2008, COGNOME).
Come risulta da quanto finora illustrato, è evidente che il trattamento sanzionatorio più mite per il reato di riciclaggio trova la sua ratio legis nel minor disvalore del reato presupposto. E così – per fare un esempio – una cosa è un furto semplice, commesso con modalità che non destano particolare allarme sociale e cosa ben diversa è un furto pluriaggravato ai sensi dell’art. 625 cod. pen., che, com’è noto, prevede plurime circostanze ad effetto speciale che determinano la pena in misura indipendente (fino a dieci anni di reclusione) da quella del reato base (si pensi ad un furto ad una banca con la tecnica cosiddetta del “buco”, per mezzo del quale gli agenti penetrano di notte all’interno dei locali dell’istituto di credito e saccheggiano le cassette di sicurezza): il disvalo all’evidenza è del tutto diverso, di talché non sarebbe razionale applicare la circostanza attenuante di cui al comma quarto dell’art. 648-bis cod. pen. (per effetto di una sterilizzazione artificiosa della pena del reato presupposto derivante dall’eliminazione delle aggravanti) a fronte di un reato presupposto che
finirebbe per essere punito più severamente del riciclaggio (il che contrasterebbe con l’intento legislativo che, in situazioni analoghe, proprio al fine di sterilizz gli effetti del reato presupposto, tende a punire più gravemente i reati a valle, come ad es. nella ricettazione).
In conclusione, in ordine alla questione dedotta dal ricorrente, dev’essere ribadito il seguente principio di diritto: «L’attenuante di cui all’art. 648-bis, comma quarto, cod. pen., in considerazione della littera e della ratio legis, è applicabile nel solo caso in cui la pena prevista in astratto per il rea presupposto – comprensiva delle circostanze aggravanti che siano state riconosciute sussistenti, indipendentemente da un eventuale bilanciamento, all’esito di un giudizio conclusosi con sentenza passata in giudicato ovvero all’esito di un giudizio incidentale compiuto dal giudice del riciclaggio – s inferiore nel massimo a cinque anni di reclusione» (Sezione 2, n. 46211 del 3/10/2023, Hanndi, Rv. 285438 – 01).
1.2.2 Sotto un secondo profilo, il quarto motivo lamenta il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. In relazione a tale aspetto il motivo è manifestamente infondato, atteso che la statuizione della Corte territoriale sul punto è giustificata da motivazione esente da manifesta illogicità avendo i giudici di appello valorizzato la gravità del fatto, le modali professionali ed articolate della condotta criminosa, unitamente alla negativa personalità del ricorrente, elementi questi rispetto ai quali lo stato incensuratezza è stato ritenuto recessivo – con la conseguenza che è insindacabile in cassazione (Sezione 3, n. 2233 del 17/6/2021, COGNOME, Rv. 282693 – 01; Sezione 5, n. 43952 del 13/4/2017, COGNOME, Rv. 271269 – 01; Sezione 2, n. 3609 del 18/1/2011, COGNOME, Rv. 249163 – 01; Sezione 6, n. 42688 del 24/9/2008, COGNOME, Rv. 242419 – 01). Del resto, è ormai pacifico il principio affermato da questa Corte secondo cui non è necessario che il giudice di merito, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a q ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli al da tale valutazione (Sezione 2, n. 23903 del 15/07/2020, COGNOME, Rv. 279549 – 02; Sezione 5, n. 43952/20017 cit.; Sezione 3, n. 28535 del 19/03/2014, COGNOME, Rv. 259899 – 01; Sezione 6, n. 34364 del 16/6/2010, Giovane, Rv. 248244).
Al rigetto del ricorso segue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., l condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P. Q. M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il giorno 7 febbraio 2024.