Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 13986 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 1 Num. 13986 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 28/11/2023
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
COGNOME NOME nato a REGGIO CALABRIA il DATA_NASCITA COGNOME NOME nato a REGGIO CALABRIA il DATA_NASCITA avverso la sentenza del 16/12/2019 della CORTE APPELLO di REGGIO CALABRIA
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; udite le conclusioni del Sost. Proc. Gen. NOME COGNOME per il rigetto del ricorso di NOME COGNOME e l’inammissibilità del ricorso di NOME COGNOME; udito l’AVV_NOTAIO che, in difesa di NOME COGNOME, insiste per l’accoglimento dei motivi di ricorso; udito l’AVV_NOTAIO. AVV_NOTAIO COGNOME che in difesa di NOME COGNOME, insiste per l’accoglimento dei motivi di ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Reggio Calabria, con sentenza pronunciata in data 31/10/2006 ha condannato, per quanto interesse ai fini della decisione, COGNOME NOME e COGNOME NOME (c1 65) alla pena di anni quattro di reclusione in relazione al reato di cui all’art. 416 bis, commi primo, secondo, terzo,
quarto e quinto cod. pen. per avere fatto parte dell’associazione di tipo mafioso denominata RAGIONE_SOCIALE e, nello specifico, di avere preso parte al “locale” di San Giovannello e, il solo COGNOME, anche per il reato di estorsione aggravata di cui al capo k).
A fondamento dell’affermazione di responsabilità il giudice per le indagini preliminari ha posto le dichiarazioni rese dai collaboratori NOME COGNOME e NOME COGNOME, nonché alcune intercettazioni di conversazioni.
Avverso la sentenza di primo grado hanno proposto appello gli imputati che, tra l’altro, hanno dedotto l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da NOME COGNOME.
La Corte di Appello di Reggio Calabria, con sentenza del 19/05/2008, ritenuta fondata la dedotta eccezione, per quanto interessa in questa sede, ha assolto gli imputati dal reato associativo e COGNOME anche dal reato di cui all’art. 629 cod. pen.
Avverso l’assoluzione per il reato di cui all’art. 416 bis cod. pen. ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale presso la Corte di appello di Reggio Calabria, rilevando l’erroneità della dichiarazione di inutilizzabilità delle dichiarazioni rese collaboratore NOME COGNOME.
La Corte di cassazione, Sezione Quinta Penale, con sentenza pronunciata il 14/7/2009, ha accolto il ricorso proposto e ha annullato con rinvio la sentenza impugnata affinché fossero “riesaminate le posizioni dei predetti alla luce dell’utilizzazione delle dichiarazio di COGNOME NOME“.
La Corte di appello di Reggio Calabria, con sentenza del 16/12/2019, quale giudice del rinvio a seguito della sentenza di annullamento emessa dalla Corte di cassazione, ha proceduto a un nuovo esame delle prove legittimamente acquisite e, all’esito del giudizio, ha confermato la sentenza di condanna pronunciata dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Reggio Calabria il 31/10/2006 nei confronti di entrambi gli imputati per i reato di cui all’art. 416 bis, commi primo, secondo, terzo, quarto e quinto, cod. pen.
Avverso la sentenza hanno proposto ricorso per cassazione gli imputati che, a mezzo dei rispettivi difensori, hanno dedotto i seguenti motivi.
5.1. AVV_NOTAIO COGNOME per NOME COGNOME.
Violazione di legge e vizio di motivazione, anche con riferimento al travisamento della prova, in relazione agli artt. 192, comma 2, cod. proc. pen. e 416 bis cod. pen. In un unico articolato motivo la difesa rileva che la Corte territoriale non si sarebb adeguatamente confrontata con gli elementi acquisiti e non avrebbe in effetti evidenziato quali sarebbero le prove in ordine alla sussistenza degli elementi costitutivi del reato
contestato. Nello specifico, infatti, i secondi giudici del rinvio si sarebbero limit riportare in modo “grafico” le intercettazioni e alcuni spezzoni delle dichiarazioni rese da collaboratori senza fornire alcuna effettiva e concreta motivazione quanto al ruolo che il ricorrente, al di là di una mera vicinanza ad alcuni componenti dell”associazione, avrebbe svolto nell’interesse del sodalizio. La presenza nella sala giochi nella quale si è tenuta l conversazione intercettata il 27 novembre 2003, ad esempio, sarebbe nella sostanza neutra, non avendo il ricorrente proferito parola ed essendosi limitato, al più, a essere presente. A ben vedere, pertanto, la Corte territoriale non si sarebbe conformata ai principi anche di recente enucleati dalla giurisprudenza di legittimità, secondo la quale la partecipazione a un’associazione di tipo mafioso deve essere oggetto di rigorosa prova quanto allo stabile inserimento dell’agente nella struttura organizzativa. Ad analoghe conclusioni, d’altro canto, si dovrebbe pervenire quanto agli ulteriori elementi indicat (l’intercettazione della conversazione avvenuta il 25/7/2003 e le dichiarazioni di NOME COGNOME), che sarebbero del tutto generiche.
5.2 AVV_NOTAIO per NOME.
Vizio di motivazione in relazione agli artt. 192, 187, 546, comrna 1 lett. e) cod. proc. pen. e 416 bis cod. pen. In un unico articolato motivo la difesa evidenzia diversi profili di illogicità della motivazione della sentenza impugnata e gli errori nei quali sarebbe incorsa la Corte territoriale. Nello specifico. a) Il giudice intervenuto in sede di rinvio non si sar adeguatamente confrontato con la sentenza pronunciata dal giudice del “primo gravame”, cioè con la sentenza di assoluzione annullata dalla Corte di cassazione. A fronte del c.d overtuming, quindi, la sentenza impugnata non avrebbe rispettato il c.d. principio della “motivazione rafforzata”, invece imposta dalla valutazione resa dal giudice di appello in termini di insufficienza degli elementi di accusa. b) I giudici del rinvio, poi, avrebb erroneamente fatto riferimento a periodi antecedenti a quello oggetto di contestazione, cioè, avrebbero attribuito rilievo probatorio alle dichiarazioni dei collaboratori che riferiscono a un periodo precedente all’anno 2002, periodo non compreso nella contestazione nella quale la data di inizio è indicata in “quantomeno dal 2002”. c) Le prove valorizzate, le dichiarazioni dei collaboratori e lo stesso contenuto della conversazione intercorsa il 27 novembre 2003, sarebbero generiche e la motivazione sul punto, acritica ripetizione di quanto già indicato dal giudice di primo grado, sarebbe del tutto inadeguata, ciò anche facendo riferimento, a fronte della diversa conclusione cui era pervenuta la medesima Corte con la sentenza annullata, alla necessità di una motivazione rafforzata sul punto.
6. In data 12 novembre 2023 sono pervenuti in cancelleria i motivi nuovi con i quali l’AVV_NOTAIO ha chiesto che la sentenza impugnata sia annullata senza rinvio in quanto il reato contestato sarebbe prescritto. Il difensore, infatti, evidenzia che
consumazione del reato si sarebbe interrotta in data 27 maggio 2005, data di esecuzione dei provvedimenti custodiali, e che pertanto, considerati i limiti di pena previsti all’epo per il reato e applicata la disciplina di cui all’art. 157 cod. pen. antecedente il dicemb 2005, il termine di quindici anni sarebbe interamente decorso in data 27 maggio 2020, così come sarebbe anche decorso il termine di prescrizione decennale c.d. breve che è intercorso tra la sentenza di annullamento di questa Corte, pronunciata il 14 luglio 2009, e la pronuncia della sentenza di rinvio del 12 dicembre 2019, ora impugnata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I ricorsi sono inammissibili.
Entrambi i ricorrenti, seppure la censura sia esposta in termini specifici solo nel ricorso redatto nell’interesse di NOME COGNOME, prendono le mosse dalla considerazione che la Corte territoriale non si sarebbe confrontata con la sentenza di assoluzione annullata dalla Corte di cassazione e che ciò determinerebbe un vizio di motivazione.
Secondo i ricorrenti, infatti, in questa situazione il giudice di rinvio avrebbe dovut attenersi ai principi posti dalla giurisprudenza di legittimità in presenza di un c overtuming e, quindi, avrebbe dovuto rendere una motivazione rafforzata facendo specifico riferimento agli argomenti che avevano determinato la precedente assoluzione, confutandoli.
2.1. La premessa sulla quale si fonda il ragionamento seguito dai ricorrenti è errata.
L’art. 627, comma 3, cod. proc. pen. prevede che nel giudizio di rinvio dopo l’annullamento il giudice chiamato a pronunciarsi, seppure nella piena libertà della valutazione di merito allo stesso devoluta, è tenuto a uniformarsi alla sentenza della Corte di cassazione, cioè a conformarsi ai principi indicati e a confrontarsi con le ragioni in questa esposte.
Nessuna disposizione, di contro, fatti salvi gli effetti del giudicato progressiv quanto alle parti divenute irrevocabili e le preclusioni processuali previste dal princip devolutivo, impone al giudice di rinvio di tenere in qualche modo conto delle considerazioni contenute nella decisione cassata.
Ciò in quanto, in una corretta prospettiva interpretativa, si deve ritenere che la sentenza precedente, nelle parti oggetto dell’annullamento, perda qualsivoglia rilievo, tanto che la stessa, con riferimento a tali parti, deve essere considerata alla stregua di un mero antecedente storico il cui contenuto è processualmente inesistente.
2.2. Nel caso di specie la Corte di cassazione ha annullato la sentenza di assoluzione pronunciata dal giudice di appello ritenendo che fosse errata la parte della decisione nella
quale la Corte territoriale aveva dichiarato l’inutilizzabilità delle propalazioni rese NOME COGNOME e che, pertanto, il compendio probatorio acquisito dovesse essere nuovamente valutato tenendo conto anche di tale fonte di prova.
In questa situazione, nella quale al giudice di rinvio era espressamente devoluto il compito di “riesaminare le posizioni dei predetti alla luce dell’utilizzazione dell dichiarazioni di COGNOME NOME“, l’annullamento in ordine all’affermazione di responsabilità per il reato associativo è stato totale e al giudice è stata restituit cognizione che l’ordinamento attribuisce al giudice di appello, cioè quella di pronunciarsi in merito ai motivi di critica proposti avverso la decisione di primo grado, unica pronuncia con la quale nel caso in esame il giudice di rinvio era tenuto a confrontarsi.
Sotto tale profilo la Corte territoriale, pertanto, non era affatto tenuta a tenere considerazione gli argomenti contenuti in una decisione sul punto inesistente, quanto, piuttosto, uniformandosi al principio posto dalla Corte di cassazione, aveva il compito di verificare la fondatezza delle critiche avanzate dalla difesa nell’atto di impugnazione avverso la decisione di primo grado, quella oggetto delle censure, quella che era allo stato, in conseguenza dell’annullamento della sentenza che l’aveva riformata, l’unica sentenza validamente emessa nei confronti degli imputati.
Il giudice di rinvio, chiamato a celebrare così l’appello, ha correttamente proceduto a quanto richiesto dal sistema processuale e il fatto che la pronuncia di primo grado impugnata sia stata confermata -in assenza quindi di un ribaltamento (di un overtuming)ci pone in presenza di una c.d. “doppia conforme” di condanna.
Nei rispettivi motivi di ricorso i due ricorrenti deducono, sotto profili parzialment diversi, la violazione di legge e il vizio di motivazione quanto alla dichiarazione responsabilità con riferimento alla ritenuta sussistenza di elementi idonei a provare in concreto la sussistenza degli elementi costitutivi del reato di partecipazione ad associazione a delinquere di tipo mafioso.
Le doglianze sono manifestamente infondate.
3.1. La Corte, la cui motivazione si salda ed integra con quella del giudice di primo grado, uniformandosi al principio posto nella sentenza di annullamento ha infatti dato conto di avere proceduto a una nuova e approfondita analisi della posizione dei due ricorrenti e ha fornito congrua risposta alle critiche contenute nell’atto di appello, ciò anc esponendo gli argomenti per cui queste non erano in alcun modo coerenti con quanto emerso nel corso delle indagini.
Alla Corte di cassazione, d’altro canto, è precluso, e quindi i motivi in tal senso formulati non sono consentiti, sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito.
Il controllo che la Corte è chiamata ad operare, e le parti a richiedere ai sensi dell’art. 606 lett. e) cod. proc. pen., infatti, è esclusivamente quello di verificare e stab se i giudici di merito abbiano o meno esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (così Sez. un., n. 930 del 13/12/1995, Rv 203428; per una compiuta e completa enucleazione della deducibilità del vizio di motivazione, da ultimo Sez. 3, n. 17395 del 24/01/2023, COGNOME, Rv. 284556 – 01; Sez. 6, n. 5465 del 04/11/2020, dep. 2021, F., Rv 280601 – 01; Sez. 2, n. 19411 del 12/03/2019, COGNOME, Rv. 276062 – 01: Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, La Gumina, Rv 269217 – 01; Sez. 6, n. 47204, del 7/10/2015, COGNOME, Rv. 265482 – 01).
Sotto tale profilo, pertanto, a fronte di una motivazione logica e completa anche quanto al contributo effettivo e concreto fornito all’associazione a cui i due ricorrenti hann “preso parte” (Sez. U, n. 36958 del 27/5/2021, COGNOME, Rv. 281889-01; Sez. U, n. 33748 del 12/7/2005, COGNOME, Rv. 231670 – 01; Sez. 5, n. 18020 del 10/02/2022, COGNOME, Rv. 283371 – 02; Sez. 6, n. 18125 del 22/10/2019, dep. 2020, Bolla, Rv. 279555), le attuali censure, tese nella sostanza a sollecitare una ulteriore e non consentita lettura delle prove acquisite, risultano inconferenti (Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, La Gumina, Rv 269217 – 01).
3.2. La Corte territoriale, diversamente da quanto sostenuto nel ricorso, ha dato atto di avere tenuto conto e valutato tutti gli elementi emersi a carico di NOME COGNOME, anche confrontandosi con le censure contenute nell’appello, ora sostanzialmente reiterate.
Con specifico riferimento al fatto che il ricorrente è stato assolto per il concorso nell’estorsione commessa in danno di NOME COGNOME, uno dei reati fine dell’associazione, ad esempio, la Corte ha coerentemente valorizzato la circostanza, accertata e non contestata dalla difesa, che la persona offesa si era comunque rivolta all’imputato per risolvere “un problema” del quale non si poteva parlare telefonicamente e che lo stesso si era reso disponibile ad occuparsene e, quindi, a “sistemare” la situazione.
Nello stesso senso, d’altro canto, sono evidenziate le dichiarazioni rese da NOME COGNOME che lo ha indicato espressamente come partecipe e gli ha attribuito delle condotte specifiche, come avere svolto il ruolo di autista del capo cosca NOME COGNOME, accompagnandolo a sua richiesta nei luoghi che gli venivano indicati, e avere partecipato a delle riunioni “ristrette”.
Tutto ciò anche tenuto conto del tenore delle conversazioni intercettate nel corso delle indagini proprio utilizzando il microfono del telefono del ricorrente e le dichiarazio rese dallo stesso che ha ammesso la frequentazione e contiguità con alcuni sodali.
3.3. Ad analoghe conclusioni si deve pervenire in ordine alle medesime censure dedotte nell’interesse di NOME COGNOME.
Anche in ordine alla ritenuta responsabilità di tale ricorrente, infatti, la motivazio della sentenza impugnata, che si salda e integra con quella di primo grado, con gli specifici riferimenti all’identificazione del ricorrente, alle conversazioni intercettate e convergenti dichiarazioni rese da NOME COGNOME e NOME COGNOME, contiene un’esposizione adeguata e convincente delle ragioni poste a fondamento della conferma della sentenza di condanna per il reato associativo.
3.4. Nell’atto di ricorso la difesa di NOME COGNOME rileva quale ulteriore profi di censura che i secondi giudici avrebbero erroneamente fatto riferimento a periodi antecedenti a quello oggetto di contestazione, cioè, avrebbero attribuito rilievo probatorio alle dichiarazioni dei collaboratori che si riferiscono a un periodo precedente all’anno 2002, non compreso nella contestazione nella quale la data di inizio è indicata in “quantomeno dal 2002 e attualmente in corso”.
La questione è priva di consistenza.
La circostanza che i collaboratori abbiano fatto riferimento a condotte risalenti nel tempo non si pone in contraddizione con il contenuto dell’imputazione né con la data di commissione del reato associativo in questa indicata.
Con la locuzione “quantomeno dall’anno 2002”, infatti, si è inteso dare consistenza alla condotta successivamente posta in essere, senza però escludere che potesse avere rilievo la pregressa attività svolta dal ricorrente in favore del sodalizio.
Sotto altro profilo, poi, le dichiarazioni relative alla partecipazione del ricorrente segmenti temporali diversi rispetto a quello oggetto di specifica contestazione sono comunque utilizzabili e, valutate unitamente agli altri elementi, possono essere poste a fondamento dell’affermazione di responsabilità.
Ciò in quanto non risulta che il ricorrente sia stato in precedenza sottoposto a processo per il medesimo reato associativo e che le dichiarazioni rese dagli attuali collaboratori in ordine ai precedenti segmenti temporali siano già state valutate (riferimento in Sez. 2, n. 7870 del 28/01/2020, Caddi, Rv. 277962 – 01).
In ordine alla sussistenza del reato, cioè della partecipazione proseguita “quanto meno dal 2002”, d’altro canto, i giudici di merito hanno fatto riferimento a elementi, ad esempio la conversazione intercorsa il 27 novembre 2003, che contestualizzano la commissione del reato permanente a tutto il periodo in contestazione.
Nei motivi nuovi proposti nell’interesse di NOME COGNOME la difesa chiede a questa Corte di annullare la sentenza impugnata senza rinvio in quanto il reato contestato sarebbe prescritto.
A tal fine il ricorrente evidenzia che la data di consumazione del reato permanente, contestato nel capo di imputazione come “attualmente in atto”, andrebbe individuata nel 27 maggio 2005, giorno in cui sono stati eseguiti i provvedimenti custodiali, e che pertanto, considerati i limiti di pena previsti all’epoca per il reato e applicata la disciplina di cui a 157 cod. pen. antecedente il dicembre 2005, il termine di quindici anni sarebbe interamente decorso in data 27 maggio 2020, così come sarebbe anche decorso il termine di prescrizione decennale c.d. breve, intercorso tra la sentenza di annullamento di questa Corte, pronunciata il 14 luglio 2009, e la pronuncia della sentenza di rinvio del 12 dicembre 2019, ora impugnata.
La doglianza è manifestamente infondata.
Il presupposto sul quale si fonda la richiesta, l’individuazione di una data di commissione del reato diversa da quella ritenuta in atti, corrispondente per il reato permanente con la data di emissione della sentenza di primo grado, non può infatti essere oggetto di verifica in questa sede ed è smentito dai quanto risulta dalle sentenze di merito.
Nel corso del giudizio la questione circa la data di interruzione della permanenza non è mai stata sollevata e questa, pertanto, non essendo stato effettuato alcun accertamento in fatto, in assenza di specifici elementi, è ora preclusa (Sez. 5, n. 46481 del 20/06/2014, COGNOME, Rv. 261525 – 01).
Dalle sentenze rese nel corso del giudizio, infatti, non emerge alcun elemento dal quale poter desumere che il giudice abbia ritenuto che la condotta si sia interrotta in una data precedente e diversa da quella in cui è stata pronunciata la sentenza di condanna, giorno in cui si è interrotta la permanenza.
Né il ricorrente, che invoca per la prima volta in questa sede la prescrizione del reato assumendo che la data di consumazione è antecedente a quella contestata, ha fornito elementi incontrovertibili, cioè idonei da soli a confermare che il reato si consumato in data anteriore e insuscettibili di essere smentiti da altri elementi di prova acquisiti al processo (così testualmente Sez. 2, n. 41151 del 28/09/2023, Mega, Rv. 285300 – 01; Sez. 4, n. 47744 del 10/09/2015, Acacia, Rv. 265330 – 01
Non potendo avere in tal senso alcun rilievo il generico riferimento alla data di esecuzione dei provvedimenti cautelari poiché, come evidenziato dalla pacifica giurisprudenza di legittimità sul punto e da ultimo ribadito «in tema di associazione per delinquere di stampo mafioso, il sopravvenuto stato detentivo non esclude la permanenza della partecipazione al sodalizio, che viene meno solo in caso di cessazione della consorteria criminale ovvero nelle ipotesi, positivamente acclarate, di recesso o esclusione del singolo associato» (Sez. 2, n. 8461 del 24/01/2017, COGNOME, Rv. 269121 – 01; Sez. 1, n. 46103 del 07/10/2014, COGNOME, Rv. 261272 – 01; Sez. 2, n. 17100 del 22/03/2011, COGNOME, Rv. 250021 – 01; Sez. 1, n. 33033 dei 11/07/2003, COGNOME, Rv. 225978 – 01;
Sez. 1, n. 30149 del 06/06/2003, Tusa, Rv. 225058 – 01; Sez. 1, n. 12907 del 23/11/2000, dep. 2001, COGNOME, Rv. 218440 – 01).
Alla inammissibilità dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonché, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., valutati i profili di colpa n determinazione della causa di inammissibilità emergenti dal ricorso (Corte Cost. 13 giugno 2000, n. 186), al versamento della somma, che si ritiene equa, di euro tremila a favore della cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Così deciso in Roma il 28 novembre 2023.