Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 30578 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 30578 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 31/05/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto nell’interesse di
NOME NOME, nato a RAGIONE_SOCIALE Calabria il DATA_NASCITA, contro il decreto della Corte d’appello di RAGIONE_SOCIALE Calabria del 23.6.2023;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME;
letta la requisitoria trasmessa dal Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO NOME AVV_NOTAIO, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
La Corte d’appello di RAGIONE_SOCIALE Calabria ha respinto gli appelli che erano stati proposti da NOME COGNOME come, anche, da NOME COGNOME, NOME COGNOME, Deutsche Bank spa e, pertanto, ha confermato il decreto di confisca adottato dal Tribunale reggino nei confronti del COGNOME condannando gli appellanti al pagamento RAGIONE_SOCIALE spese della fase
ricorre per cassazione NOME COGNOME a mezzo del difensore di fiducia che deduce:
2.1 violazione di legge in relazione agli artt. 6 e 7, comma 1, del D. Lg.vo 159 del 2011 in ordine all’omesso accertamento del carattere attuale della pericolosità sociale del proposto – motivazione apparente: rileva che la Corte d’appello, nonostante la corposa documentazione prodotta dalla difesa, ha ritenuto di confermare il giudizio di pericolosità sociale del COGNOME che, tuttavia, non può ricomprendere tutti i singoli atti di incremento patrimoniale su cui la Corte avrebbe dovuto motivare in termini di dimostrazione della illiceità della provenienza dei mezzi utilizzati;
2.2 violazione dell’art. 24 D. Lg.vo 159 del 2011 in ordine alla confisca dei beni del COGNOME in presenza della prova della liceità della provvista utilizzata motivazione apparente: rileva che la Corte, a fronte della dimostrazione documentale della liceità della provvista utilizzata per far fronte agli acquisti immobiliari, si è limitata a richiamare quella di cui all’allegato 7 stigmatizzandone la risalenza rispetto agii acquisti esaminati nel corso del giudizio dando luogo, in tal modo, ad una motivazione di fatto apparente; richiama, a tal proposito, la documentazione prodotta dalla difesa a dimostrazione della liceità dell’acquisto operato nell’ottobre 2008 nell’ambito della procedura esecutiva immobiliare n. 42/94 nonché, inoltre, l’ordinanza del 14.6.2005 del Tribunale del Riesame di RAGIONE_SOCIALE Calabria comprovante la disponibilità di monili e titoli da parte dell’odierno ricorrente su cui la Corte ha motivato in termini del tutto distonici, non considerando il nesso tra la restituzione operata nel 2006 e l’acquisto effettuato nel 2008;
2.3 violazione di legge in relazione agli artt. 2-bis, 2-ter e 3-ter della legge 575 del 1965 con riferimento all’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale sotto il profilo della ritenuta sproporzione tra la disponibilità lecita de proposto e l’acquisto: rileva che il proposto ha dimostrato, documentalmente, una capacità economica che prescinde dalle attività illecite risultando meramente apparente la conclusione operata dalla Corte d’appello in relazione alla operazione di compravendita intercorsa con NOME COGNOME in quanto risalente rispetto alla data degli altri acquisti;
3. la Procura AVV_NOTAIO ha trasmesso la requisitoria scritta concludendo per la inammissibilità del ricorso: rileva che il primo motivo è formulato in termini generici a fronte RAGIONE_SOCIALE corrette considerazioni del provvedimento impugnato sull’attualità della pericolosità sociale del proposto; quanto al secondo motivo, segnala che la censura non si confronta con il dato secondo cui il dissequestro dei beni – che si assumono come utilizzati per gli acquisti immobiliari – fosse relativo ad un vincolo di carattere probatorio e che, pertanto, la motivazione non può dunque ritenersi affatto apparente; in ordine al terzo motivo, segnala che la difesa pare ignorare il sistema di riparto degli oneri probatori in materia di confisca di prevenzione, gravando sulla pubblica accusa l’onere di dimostrare la sproporzione dei beni su cui si fonda la presunzione di illecita accumulazione e sul proposto quella di superarla, attraverso la positiva dimostrazione dell’utilizzo di proventi leciti per l’acquisizione dei beni: aggiunge che nel caso la distanza temporale rilevata dalla Corte di appello risulta logicamente idonea a fondare la conclusione di mancato assolvimento dell’onere predetto.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile perché articolato su censure non consentite in questa sede e, comunque, manifestamente infondate.
1. E’ infatti appena il caso di ribadire che nel procedimento di prevenzione, alla stregua di quanto già disposto dall’art. 4 legge 27 dicembre 1956, n. 1423, richiamato dall’art. 3-ter, secondo comma, legge 31 maggio 1965, n. 575 e, oggi, dagli artt. 10, comma 3, e 27, comma 2, del D. Lg.vo 159 del 2011, il ricorso per cassazione è ammesso soltanto per violazione di legge; ne consegue che è esclusa dal novero dei vizi deducibili in sede di legittimità l’ipotesi dell’illogicità manife ovvero della contraddittorietà della motivazione, di cui all’art. 606, lett. e), cod proc. pen., potendosi denunciare con il ricorso, poiché qualificabile come violazione dell’obbligo di provvedere con decreto motivato imposto al giudice d’appello, esclusivamente il caso di motivazione inesistente o meramente apparente (cfr, Sez. U, n. 33451 del 29/05/2014, COGNOME, Rv. 260246 – 01, laddove, in motivazione, la Corte ha ribadito che non può essere proposta come vizio di motivazione mancante o apparente la deduzione di sottovalutazione di argomenti difensivi che, in realtà, siano stati presi in considerazione dal giudice o comunque risultino assorbiti dalle argomentazioni poste a fondamento del provvedimento impugnato; conf., più recentemente, Sez. 2 – , n. 20968 del 06/07/2020, COGNOME, Rv. 279435 – 01, in cui la Corte ha chiarito che nel procedimento di prevenzione, anche il vizio di travisamento della prova per omissione ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. è estraneo al procedimento di legittimità, a meno che il travisamento non abbia investito plurime circostanze decisive totalmente ignorate ovvero ricostruite dai giudici di merito in modo talmente erroneo da trasfondersi in una motivazione apparente o inesistente, riconducibile alla violazione di legge).
Altro aspetto su cui è opportuno brevemente soffermarsi, è quello relativo al rapporto tra la misura di prevenzione e l’accertamento di fatti rilevanti che sia intervenuto in sede penale.
Ed anche su questo profilo vale la pena ricordare come sia risalente, nella giurisprudenza di questa Corte, la affermazione secondo cui, tra il procedimento di prevenzione ed il processo penale, sussistono profonde differenze funzionali e strutturali, essendo il secondo ricollegato ad un determinato fatto reato ed il primo riferito ad una valutazione di pericolosità; sicché, la reciproca autonomia dei due processi spiega gli interventi del legislatore per regolare i punti di possibile interferenza, abbandonando originarie sovrapposizioni e, di seguito, regole atipiche di pregiudizialità per pervenire, da ultimo, alla configurazione di ambiti di totale autonomia, salva l’opportuna disposizione di coordinamento e di economia investigativa (cfr., Sez. 1, n. 5786 del 21/10/1999, COGNOME; Rv. 215117 01; conf., Sez. 1, n. 5522 del 03/11/1995, COGNOME, Rv. 203027 – 01, in cui la Corte aveva che il procedimento di prevenzione è autonomo rispetto a quello penale, perché nel primo si giudicano condotte complessive, ma significative della pericolosità sociale; nel secondo si giudicano singoli fatti da rapportare a tipici modelli di antigiuridicità, sicché nel procedimento di prevenzione il giudice è legittimato a servirsi di elementi probatori e indiziari tratti dai procedimenti penali prescindendo dalla conclusione alla quale il giudice è pervenuto facendosi carico di individuare le circostanze di fatto rilevanti accertate in sede penale, e rivalutarle nell’ottica del giudizio di prevenzione). Corte di RAGIONE_SOCIALEzione – copia non ufficiale
E’, inoltre, noto il percorso di riflessione che si è sviluppato in giurisprudenza anche alla luce dalle sollecitazioni provenienti soprattutto in ambito convenzionale, e che ha trovato un importante momento di sintesi nella sentenza n. 24 del 2019 della Corte Costituzionale, che ha riguardato, in particolare, il profilo della determinatezza della fattispecie descrittiva della pericolosità “generica”, vagliata in un’ottica garantistica e di interpretazione convenzionalmente orientata.
Ed era stato proprio il giudice RAGIONE_SOCIALE leggi a ricordare, nell’occasione, che “nell’ambito di questa interpretazione “tassativizzante”, la Corte di cassazione – in sede di interpretazione del requisito normativo, che compare tanto nella lettera a)
quanto nella lettera b) dell’art. 1 del d.lgs. n. 159 del 2011, degli «elementi di fatto» su cui l’applicazione della misura deve basarsi – fa infine confluire anche considerazioni attinenti alle modalità di accertamento in giudizio di tali elementi della fattispecie.
Pur muovendo dal presupposto che «il giudice della misura di prevenzione può ricostruire in via totalmente autonoma gli episodi storici in questione – anche in assenza di procedimento penale correlato – in virtù della assenza di pregiudizialità e della possibilità di azione autonoma di prevenzione» (Cass., n. 43826 del 2018), si è precisato: che non sono sufficienti meri indizi, perché la locuzione utilizzata va considerata volutamente diversa e più rigorosa di quella utilizzata dall’art. 4 del d.lgs. n. 159 del 2011 per l’individuazione RAGIONE_SOCIALE categorie di cosiddetta pericolosità qualificata, dove si parla di «indiziati» (Cass., n. 43826 del 2018 e n. 53003 del 2017); che l’esistenza di una sentenza di proscioglimento nel merito per un determinato fatto impedisce, alla luce anche del disposto dell’art. 28, comma 1, lett. b), che esso possa essere assunto a fondamento della misura, salvo alcune ipotesi eccezionali (Cass., n. 43826 del 2018); che occorre un pregresso accertamento in sede penale, che può discendere da una sentenza di condanna oppure da una sentenza di proscioglimento per prescrizione, amnistia o indulto che contenga in motivazione un accertamento della sussistenza del fatto e della sua commissione da parte di quel soggetto (Cass., n. 11846 del 2018, n. 53003 del 2017 e n. 31209 del 2015)”.
Va tuttavia chiarito che l’intervento della Corte Costituzionale era stato sollecitato, ed è intervenuto, in ordine al profilo della sufficiente determinatezza RAGIONE_SOCIALE ipotesi e categorie di pericolosi “generici” normativamente disegnate dal legislatore; è per l’appunto in questa prospettiva che è stata richiamata, dai giudici RAGIONE_SOCIALE leggi, la giurisprudenza di questa Corte in punto di interpretazione “tassativizzante” di tali categorie, nell’ottica della ricerca di uno standard d “legalità” (che si è ritenuto di poter qualificare come “alta”) in grado di garantire la prevedibilità RAGIONE_SOCIALE conseguenze derivanti dalla consumazione di condotte suscettibili di evocare le predette categorie.
La Corte Costituzionale ha perciò chiarito che “… nell’esaminare … se la giurisprudenza della Corte di cassazione della quale si è poc’anzi dato conto sia riuscita nell’intento di conferire un grado di sufficiente precisione, imposta da tutti i parametri costituzionali e convenzionali invocati, alle fattispecie normative in parola, occorre subito eliminare ogni equivoca sovrapposizione tra il concetto di tassatività sostanziale, relativa al thema probandum, e quello di cosiddetta tassatività processuale, concernente il quomodo della prova. Mentre il primo attiene al rispetto del principio di legalità al metro dei parametri già sopra richiamati, inteso quale garanzia di precisione, determinatezza e prevedibilità degli
elementi costitutivi della fattispecie legale che costituisce oggetto di prova, il secondo attiene invece alle modalità di accertamento probatorio in giudizio, ed è quindi riconducibile a differenti parametri costituzionali e convenzionali – tra cui, in particolare, il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. e il diritto a un processo” ai sensi, assieme, dell’art. 111 Cost. e dall’art. 6 CEDU – i quali, seppur di fondamentale importanza al fine di assicurare la legittimità costituzionale del sistema RAGIONE_SOCIALE misure di prevenzione, non vengono in rilievo ai fini RAGIONE_SOCIALE questioni di costituzionalità ora in esame”.
Di qui la ulteriore precisazione secondo cui “… non sono, dunque, conferenti in questa sede i pur significativi sforzi della giurisprudenza – nella perdurante e totale assenza, nella legislazione vigente, di indicazioni vincolanti in proposito per il giudice della prevenzione – di selezionare le tipologie di evidenze (genericamente indicate nelle disposizioni in questione quali «elementi di fatto») suscettibili di essere utilizzate come fonti di prova dei requisiti sostanziali RAGIONE_SOCIALE “fattispecie d pericolosità generica” descritte dalle disposizioni in questa sede censurate: requisiti consistenti – con riferimento alle ipotesi di cui alla lettera a) dell’art. 1 d.lgs. n. 159 del 2011 – nell’essere i soggetti proposti «abitualmente dediti a traffici delittuosi» e – con riferimento alla lettera b) – nel vivere essi «abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose»”.
Si è perciò ritenuto che, proprio alla luce della evoluzione della giurisprudenza successiva alla sentenza “De NOME“, sia possibile assicurare, in via interpretativa, una lettura sufficientemente precisa della fattispecie di cui alla lettera b) dell’art. 1 del D. Lg.vo 159 del 2011, con specifico riferimento a quella di «coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose» e che va intesa come “… espressiva della necessità di predeterminazione non tanto di singoli “titoli” di reato, quanto di specifiche “categorie” di delitto”.
E, come pure precisato dai giudici RAGIONE_SOCIALE leggi, le “categorie delittuose” che possono essere assunte a presupposto per la adozione della misura di prevenzione, sono poi suscettibili di concretizzarsi, nel caso di specie esaminato dal giudice, in virtù del triplice requisito – da provarsi sulla base di precisi «elementi di fatto», cui il tribunale dovrà dare conto puntualmente nella motivazione (art. 13, secondo comma, Cost.) – per cui deve trattarsi di a) delitti commessi abitualmente (e dunque in un significativo arco temporale) dal soggetto, b) che abbiano effettivamente generato profitti in capo a costui, c) i quali a loro volta costituiscano – o abbiano costituito in una determinata epoca – l’unico reddito del soggetto, o quanto meno una componente significativa di tale reddito.
Traendo le fila del discorso, rileva il collegio che i principi convenzionali e costituzionali che hanno guidato il progressivo evolversi della giurisprudenza, hanno imposto la adozione di criteri interpretativi in grado di garantire degli standard di legalità “alta”, quanto alla individuazione RAGIONE_SOCIALE condotte e dei comportamenti da cui possano conseguire provvedimenti di prevenzione di natura personale o patrimoniale.
Ed è in quest’ottica che, correttamente, si è ribadito – anche in sede costituzionale – come la premessa per la adozione di tali provvedimenti non sia l’accertamento di “delitti”, terreno più propriamente di competenza del giudice penale, ma di “elementi di fatto” da cui possa desumersi che il proposto viva abitualmente, anche in parte, del provento di attività delittuose (cfr., art. 1, let b), cit.).
Ecco, allora, che l’avvertita esigenza di uno “standard” di legalità “alta”, finisce con il riflettersi non tanto sulle modalità di accertamento quanto, piuttosto, sull’oggetto della verifica operata dal giudice della prevenzione e che deve essere focalizzato, per l’appunto, sull’esistenza di “elementi di fatto” suscettibili di essere individuati e ricostruiti in termini di adeguata precisione.
Il tema si intreccia, tuttavia, e come accennato, con quello del quomodo dell’accertamento, dal momento che è certamente possibile, per il giudice della prevenzione, prendere atto dell’esistenza di un giudicato penale, relativo ad un “fatto” coincidente con una fattispecie delittuosa e per la quale sia intervenuta una condanna passata in giudicato; in tal caso, infatti, gli “elementi di fatto” sono direttamente evincibili dalla sentenza che ha riconosciuto la loro conformità alla fattispecie di reato per cui sia intervenuta la condanna.
Ma, come è stato più volte ribadito, l’accertamento “pieno” del fatto ben può essere contenuto, ed essere quindi tratto, da una pronuncia che, in sede penale, abbia tuttavia dovuto constatare la intervenuta prescrizione del reato; è appena il caso di richiamare, a tal proposito, ed in ambito prettamente penale, il disposto di cui agli artt. 578 e 578-bis cod. proc. pen. ma , anche, ed in termini più attinenti al tema che ci occupa, l’art. 578-ter, cod. proc. pen., introdotto dal D. Lg.vo 150 del 10.10.2022.
Non è questa la sede per affrontare l’esame della norma di nuovo conio, essendo sufficiente rilevare essa sia espressione della autonomia del procedimento di prevenzione rispetto al procedimento penale e, nel contempo, ribadisca come il giudice della prevenzione ben possa utilizzare le risultanze di un procedimento penale, non esitato in una sentenza di condanna, per individuare e ricostruire gli “elementi di fatto” su cui fondare la diagnosi di pericolosità generica nei termini sopra indicati.
Sussistono perciò tutte le condizioni per ribadire la persistente validità del principio secondo cui, in tema di misure di prevenzione, il giudice, attesa l’autonomia tra procedimento penale e procedimento di prevenzione, può valutare autonomamente i fatti accertati in sede penale, al fine di giungere ad un’affermazione di pericolosità generica del proposto ex art. 1, comma 1, lett. b), d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159, non solo in caso di intervenuta declaratoria di estinzione del reato o di pronuncia di non doversi procedere, ma anche a seguito di sentenza di assoluzione ai sensi dell’art. 530, comma 2, cod. proc. pen., ove risultino delineati con sufficiente chiarezza e nella loro oggettività quei fatti che, pur ritenuti insufficienti – nel merito o per preclusioni processuali – per una condanna penale, ben possono essere posti alla base di un giudizio di pericolosità (cfr., Sez. 2, n. 4191 del 11/01/2022, COGNOME, Rv. 282655 – 01; Sez. 2 – , n. 33533 del 25/06/2021, COGNOME, Rv. 281862 – 01; Sez. 2 – , n. 25042 del 28/04/2022, COGNOME, Rv. 283559 – 03 in cui la Corte ha ribadito che giudizio di prevenzione è funzionale a valutare la condizione di pericolosità sociale del prevenuto e non presuppone un compiuto accertamento della responsabilità penale, affermando tale principio in una fattispecie in cui il giudizio di pericolosità era stato fondato sulla valutazione di atti di indagine e non su sentenze di condanna o, anche, di proscioglimento).
Nel procedimento di prevenzione, insomma, il giudice può sempre valorizzare elementi probatori e indiziari tratti dai procedimenti penali e procedere ad una nuova ed autonoma valutazione dei fatti ivi accertati, purché dia atto in motivazione RAGIONE_SOCIALE ragioni per cui essi siano da ritenere sintomatici della attuale pericolosità del proposto (cfr., Sez. 2, n. 26774 del 30/04/2013, COGNOME, Rv. 256819 – 01; Sez. 6, n. 4668 del 08/01/2013, COGNOME, Rv. 254417 – 01; Sez. 5, n. 1968 del 31/03/2000, COGNOME, Rv. 216054 – 01).
Tanto premesso, rileva il collegio, in primo luogo, la manifesta infondatezza del primo motivo del ricorso con cui la difesa lamenta violazione di legge in merito al requisito della “attualità” della pericolosità sociale ravvisata a carico del COGNOME.
In tal modo, tuttavia, il ricorso non considera il risalente e consolidato principio della reciproca autonomia tra le misure personali e patrimoniali che, come si è autorevolmente precisato, deve essere inteso nel senso che è consentito applicare la confisca prescindendo dal requisito della pericolosità del proposto al momento dell’adozione della misura, essendo comunque necessario che tale pericolosità sia accertata con riferimento all’epoca dell’acquisto del bene oggetto della richiesta ablatoria (cfr., per tutte, Sez. U, n. 4880 del 26/06/2014,
dep. 02/02/2015, COGNOME, Rv. 262604 – 01 in cui, come è noto, le SS.UU. hanno chiarito che la possibilità di applicazione disgiunta della confisca dalla misura di prevenzione personale, così come emerge dalle riforme normative operate dalla legge 24 luglio 2008 n. 125 e dalla legge 15 luglio 2009 n. 94, non ha introdotto nel nostro ordinamento una “actio in rem”, restando presupposto ineludibile di applicazione della misura di prevenzione patrimoniale la pericolosità del soggetto inciso, in particolare la circostanza che questi fosse tale al momento dell’acquisto del bene).
3. Quanto al secondo ed al terzo motivo del ricorso, che ben possono essere trattati congiuntamente, va rilevato che il decreto impugnato si correttamente è conformato ai principi ed alle linee ermeneutiche dettate dalla giurisprudenza anche laddove le stesse AVV_NOTAIO.UU. AVV_NOTAIO avevano avuto di segnalare che la pericolosità sociale, oltre ad essere presupposto ineludibile della confisca di prevenzione, è anche “misura temporale” del suo ambito applicativo; ne consegue che, con riferimento alla c.d. pericolosità generica, sono suscettibili di ablazione soltanto i beni acquistati nell’arco di tempo in cui si è manifestata la pericolosità sociale, mentre, con riferimento alla c.d. pericolosità qualificata, il giudice dovrà accertare se questa investa, come ordinariamente accade, l’intero percorso esistenziale del proposto, o se sia individuabile un momento iniziale ed un termine finale della pericolosità sociale, al fine di stabilire se siano suscettibili di ablazio tutti i beni riconducibili al proposto ovvero soltanto quelli ricadenti nel periodo temporale individuato.
In particolare, poi, si deve prendere atto che il decreto della Corte d’appello di RAGIONE_SOCIALE Calabria è fondato su una motivazione tutt’altro che apparente avendo affrontato tutte le questioni dedotte dalla difesa che ha risolto in termini che non consentono di rilevare dei vuoti motivazionali tali da integrare il vizio di violazione di legge suscettibile di essere speso in questa sede.
Il decreto impugnato (cfr., pagg. 5-7 del provvedimento) ha ricostruito la pericolosità di NOME COGNOME stabilmente intraneo alla cosca “RAGIONE_SOCIALE“, avendo subito una condanna con sentenza definitiva nel processo RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE a 14 anni e 6 mesi di reclusione poi ridotta dalla Corte d’appello a 12 anni 4 mesi per la sopravvenuta prescrizione di taluni reati-fine nonché, inoltre, altre condanne ed essendo stato sottoposto a plurimi procedimenti penali (cfr., indicati a pag. 6).
Ha chiarito che il ricorrente doveva ritenersi pericoloso ai sensi sia della lettera b) che della lettera c) dell’art. 4 del D. Lg.vo 159 del 2011 potendosi parlare, per lui, di una pericolosità “esistenziale” (cfr., su questa categoria, Sez. 2 , n. 40778 del 02/11/2021, Fasciani, Rv. 282195 – 01, in cui la Corte ha
spiegato che, in tema di misure di prevenzione patrimoniali, non costituisce preclusione processuale ostativa all’applicazione della confisca dell’intero patrimonio di un indiziato di appartenere ad un’associazione di tipo mafioso, il provvedimento definitivo che abbia revocato l’applicazione della misura ablatoria per insussistenza del requisito della sproporzione tra entrate e beni acquistati in un determinato periodo oggetto di accertamento, quando il successivo decreto di confisca si fondi, in ragione di ulteriori elementi di valutazione, su un giudizio di pericolosità qualificata esteso all’intero percorso esistenziale del proposto e sul dimostrato illegittimo accumulo di ricchezza per reimpiego di capitali illeciti; conf., Sez. 5, n. 16136 dell’8.2.2024, COGNOME; Sez. 6, n. 13296 del 30/01/2018, Rv. 272640; Sez. 1 n. 13043 del 04/12/2019, dep. 2020), Rv. 278891; tra le non massimate, Sez. 1 n. 45191 del 30.6.2023, COGNOME; Sez. 1, n. 42172 del 23.6.2023, COGNOME).
La Corte d’appello ha fatto riferimento al calcolo della sperequazione ed il computo RAGIONE_SOCIALE entrate della società RAGIONE_SOCIALE dando conto dei rilievi difensivi articolati contro la argomentazione del Tribunale secondo cui l’illiceità “genetica” della società, costituita ed operante con il ricorso a risorse illecite renderebbe illeciti anche tutti i redditi e le attività provenienti da quella società giudici di secondo grado, non hanno condiviso l’assunto del Tribunale ma hanno fondato la “illiceità” della società sulle risultanze del procedimento “RAGIONE_SOCIALE” ed alla luce dei principi elaborati dalla giurisprudenza in materia di “impresa mafiosa” (cfr., pagg. 32-33 dei provvedimento); con argomentazione in alcun modo considerata nel ricorso, hanno infatti richiamato la distinzione tra impresa “originariamente” mafiosa, impresa “di proprietà del mafioso” e impresa “a partecipazione mafiosa” (cfr., ivi, pag. 32).
Hanno quindi considerato l’imputazione elevata a carico del COGNOME nel procedimento “RAGIONE_SOCIALE” in cui il ricorrente era stato considerato quale referente imprenditoriale nel settore edilizio reggino per conto del quale avrebbe costituito un cartello di imprese – intestate a terzi compiacenti tutti condannati o nei cui confronti era intervenuta la prescrizione del reato – funzionale a realizzare e concretizzare il patto spartitorio tra le osche del RAGIONE_SOCIALE (cfr., ivi, pag. 34).
La Corte d’appello ha a tal proposito richiamato le conclusioni cui era pervenuta la stessa RAGIONE_SOCIALE che, con sentenza del 19.9.2019, aveva confermato la bontà della tesi circa l’esistenza di una “pax mafiosa” tra le cosche di RAGIONE_SOCIALE Calabria “sotto la regia” COGNOME “assurto nel tempo al ruolo di reale dominus dell’intervento urbanistico edilizio a causa RAGIONE_SOCIALE sempre maggiori difficoltà economiche incontrate dalla RAGIONE_SOCIALE” (cfr., ivi, pag. 35) pervenendo (pur non
essendo il NOME ricorrente) a validare la ricostruzione circa la operatività di un “cartello imprenditoriale” promosso e realizzato dal COGNOME come”… manifestazione particolarmente significativa e pregnante del potere mafioso che tuttora le cosche di `ndrangheta esercitano sul tessuto economico del centro calabrese” (cfr., ivi, ancora, pag. 37).
E proprio tenendo conto RAGIONE_SOCIALE emergenze desumibili dalle sentenze prese in esame, la Corte d’appello ha potuto qualificare il COGNOME come “dominus” degli accordi e partecipe degli stessi tramite la imprese di riferimento, ovvero la RAGIONE_SOCIALE o la RAGIONE_SOCIALE, talvolta – per effetto di sequestri intervenuti nell’ambito d altri procedimenti – con il ricorso ad altri soggetti di volta in volta identificati n RAGIONE_SOCIALE, di fatto gestita da COGNOME, come risultante proprio dal processo “RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE” (cfr., ivi, pag. 38) in tutto fungibile con la RAGIONE_SOCIALE.
Con argomentazione peraltro nemmeno censurata nel ricorso, la Corte ha dunque affermato che, nel caso di specie, si sarebbe in presenza di una impresa fattualmente riconducibile al mafioso che la gestisce con metodo mafioso (cfr., pag. 39) tanto da rendere irrilevante la gestione dell’amministratore giudiziario tra il 2006 ed il 2007 e da rendere impossibile considerare, ai fini del giudizio di sproporzione, i redditi della RAGIONE_SOCIALE il che, infatti, equivarrebbe a valutare a favore del proposto i profitti della condotta per la quale è stato condannato in via definitiva.
Altrettanto correttamente, come si è visto, la Corte ha giudicato irrilevante la documentazione prodotta dalla difesa e diretta ad incidere sul giudizio di attualità della pericolosità poiché il giudizio verte esclusivamente sulla misura patrimoniale.
Nel contempo, ha richiamato la memoria manoscritta in cui lo stesso odierno ricorrente aveva di fatto ammesso di essere nella sostanziale disponibilità dei beni intestati a terzi (cfr., ivi, pag. 41) ritenendo, peraltro, irrilevant restituzione dei monili e dei titoli sequestrati nel 2005 perché si trattava di un provvedimento di sequestro probatorio nonché l’operazione di compravendita intercorsa nel 1990 (cfr., ivi).
Ha invece considerato “dirimente … la considerazione (…) della costante e vistosa sperequazione patrimoniale nei redditi del proposto in tutti gli anni in cui si collocano gli acquisti, tale da non consentire una capacità di risparmio e dunque da giustificare anche l’ablazione dei conti correnti come correttamente argomentato nel decreto” (cfr., pag. 42).
In definitiva, quindi, i rilievi difensivi avanzati in questa sede sono del tutto esorbitanti dal perimetro dei vizi tracciato dall’art. 10 del D. Lg.vo: va rilevato che nessuna errata applicazione della legge penale è stata dedotta con il ricorso che si limita a lamentare una motivazione “apparente” e, per tale via, a denunziare la violazione dell’art. 125 comma terzo, cod. proc. pen..
E, tuttavia, rileva il collegio, il provvedimento impugnato è sorretto da una motivazione tutt’altro che apparente o “di stile” ma da argomentazioni puntuali in fatto e corrette in diritto con cui, in ogni caso, il ricorso omette di confrontars risultando per più versi aspecifico.
L’inammissibilità del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento RAGIONE_SOCIALE spese processuali e, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., della somma di euro 3.000 in favore della RAGIONE_SOCIALE, non ravvisandosi ragione alcuna d’esonero.
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento RAGIONE_SOCIALE spese processuali e della somma di euro tremila in favore della RAGIONE_SOCIALE.
Così deciso in Roma, il 31.5.2024