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Concorso in estorsione: la madre che riscuote il pizzo

La Corte di Cassazione ha confermato la condanna per concorso in estorsione, aggravata dal metodo mafioso, a carico di una donna che riscuoteva le rate del “pizzo” per conto del figlio detenuto, affiliato a un clan. La Corte ha ritenuto inammissibile il ricorso, giudicando inverosimile la tesi difensiva secondo cui la donna credeva di riscuotere un debito di gioco. Secondo i giudici, le circostanze del fatto, come la periodicità mensile e il contesto criminale, dimostravano la sua piena consapevolezza dell’attività estorsiva.

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Pubblicato il 7 dicembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Concorso in estorsione: la riscossione del “pizzo” e la consapevolezza del reato

La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 30447 del 2024, ha affrontato un delicato caso di concorso in estorsione aggravata dal metodo mafioso, confermando la condanna di una madre che riscuoteva il “pizzo” per conto del figlio detenuto. Questa pronuncia offre importanti spunti di riflessione sulla prova della consapevolezza nel concorso di persone nel reato e sull’applicazione dell’aggravante mafiosa a chi non compie materialmente l’atto intimidatorio.

I fatti del caso

Il caso riguarda una donna accusata di aver partecipato a un’attività estorsiva condotta da un noto clan criminale. Nello specifico, la donna si occupava di riscuotere mensilmente le somme di denaro provento del cosiddetto “pizzo” imposto a un commerciante. L’ordine di riscossione proveniva direttamente dal figlio, membro del clan e all’epoca detenuto per gravi reati.

La difesa dell’imputata ha tentato di smontare l’accusa sostenendo la sua totale inconsapevolezza. Secondo la tesi difensiva, basata anche su dichiarazioni del figlio, la donna era convinta di prelevare del denaro relativo a un semplice debito di gioco e non a un’estorsione. Si sosteneva, inoltre, che non vi fosse prova di un accordo preventivo e che il suo contegno emotivo durante le consegne fosse incompatibile con una partecipazione consapevole al crimine.

La decisione della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando in toto la decisione della Corte di Appello. I giudici hanno ritenuto che le argomentazioni della difesa fossero in realtà una richiesta di rivalutazione dei fatti, attività non consentita in sede di legittimità. La motivazione della sentenza di secondo grado è stata giudicata logica, coerente e priva di vizi.

Le motivazioni: consapevolezza e concorso in estorsione

Il cuore della decisione risiede nella valutazione della consapevolezza dell’imputata. La Corte ha ritenuto la versione del “debito di gioco” del tutto inverosimile e non supportata da alcuna prova. Al contrario, diversi elementi indicavano chiaramente la piena coscienza del contesto criminale:

* Le modalità della riscossione: Le consegne avvenivano con cadenza mensile, per conto del figlio detenuto per reati di criminalità organizzata.
* Il contesto mafioso: Il figlio era un affiliato del clan che aveva imposto l’estorsione. Era illogico pensare che la madre, immersa in tale contesto familiare, non fosse a conoscenza della natura delle somme riscosse.
* Le dichiarazioni di una collaboratrice di giustizia: Una collaboratrice aveva riferito che l’imputata, dopo l’arresto del figlio, si era recata a casa sua pretendendo denaro per sostenere il figlio detenuto per un omicidio commesso nell’interesse del clan. Questo dimostrava la sua piena adesione alle logiche e alle prassi mafiose.

Per i giudici, quindi, la partecipazione al concorso in estorsione era provata al di là di ogni ragionevole dubbio, non essendo necessaria la prova di un accordo preventivo esplicito, ma essendo sufficiente la coscienza e volontà di fornire un contributo causale alla realizzazione del reato.

L’aggravante del metodo mafioso e il coefficiente psicologico “minimo”

Un altro punto cruciale affrontato dalla Corte riguarda l’applicazione dell’aggravante del metodo mafioso (art. 416-bis.1 c.p.). La difesa sosteneva che l’imputata non avesse mai usato minacce né evocato il clan. La Cassazione ha respinto questa tesi, ricordando che l’aggravante in questione ha natura oggettiva. Per essere attribuita a un concorrente nel reato, è sufficiente un “coefficiente psicologico minimo”, che l’art. 59 c.p. identifica nell’aver ignorato per colpa l’esistenza della circostanza aggravante.

Nel caso specifico, era impossibile per la donna ignorare che l’azione estorsiva fosse stata perpetrata da membri di un clan e che la riscossione del “pizzo” fosse una tipica espressione della forza intimidatrice delle consorterie mafiose, prassi da lei conosciute e condivise.

Le conclusioni

La sentenza ribadisce principi consolidati in materia di concorso in estorsione e aggravante mafiosa. In primo luogo, la prova della consapevolezza del concorrente può essere desunta logicamente da una serie di elementi fattuali e di contesto, anche in assenza di una confessione o di un accordo esplicito. Sostenere la propria ignoranza non è sufficiente se le circostanze rendono tale affermazione palesemente inverosimile. In secondo luogo, conferma che per l’applicazione dell’aggravante del metodo mafioso a un concorrente non è necessario che questi abbia personalmente posto in essere la condotta intimidatoria, essendo sufficiente che fosse, o dovesse essere, a conoscenza del contesto mafioso in cui il reato si inseriva.

Può essere condannato per concorso in estorsione chi si limita a riscuotere una somma di denaro per conto di altri?
Sì. Secondo la sentenza, chi riscuote denaro di provenienza illecita può essere ritenuto responsabile di concorso nel reato se le circostanze dimostrano la sua consapevolezza. Nel caso specifico, le modalità della riscossione e il contesto familiare legato a un clan mafioso sono stati considerati prove sufficienti della piena coscienza dell’attività estorsiva.

Perché è stata applicata l’aggravante del metodo mafioso anche a chi non ha minacciato direttamente la vittima?
Perché l’aggravante del metodo mafioso è di natura oggettiva. Per la sua applicazione a un concorrente è sufficiente un “coefficiente psicologico minimo”, ovvero che la persona abbia ignorato per colpa le condizioni che integrano l’aggravante. La riscossione del “pizzo” per conto di un clan è stata ritenuta una prassi così tipica del mondo mafioso che l’imputata non poteva non conoscerne il contesto.

È sufficiente affermare di non conoscere la provenienza illecita del denaro per evitare una condanna?
No. La tesi difensiva basata sull’ignoranza deve essere credibile e trovare riscontro nelle emergenze processuali. La Corte ha ritenuto la versione del “debito di gioco” completamente inverosimile e illogica alla luce del quadro indiziario complessivo, che indicava una piena condivisione delle logiche criminali da parte dell’imputata.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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