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Chiamata in correità: la Cassazione annulla l’ordinanza

La Corte di Cassazione annulla un’ordinanza di arresti domiciliari per tentato omicidio, basata sulla chiamata in correità di un collaboratore di giustizia. La Corte ha ritenuto la motivazione del Tribunale del riesame viziata da ragionamento circolare e priva di adeguati riscontri esterni individualizzanti, soprattutto riguardo la consapevolezza dell’indagato sulla natura del reato da commettere.

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Pubblicato il 2 dicembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Chiamata in correità: La Cassazione detta le regole sui riscontri esterni

La chiamata in correità, ovvero la dichiarazione accusatoria di un coimputato, è uno degli strumenti probatori più delicati nel processo penale. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha ribadito i rigorosi paletti che i giudici devono rispettare per poterla utilizzare. La Corte ha annullato un’ordinanza di custodia cautelare, sottolineando che non bastano le sole parole di un collaboratore, ma servono prove esterne, specifiche e non interpretabili con ragionamenti circolari.

I Fatti del Caso

La vicenda riguarda un’indagine per tentato omicidio. Un uomo veniva accusato di aver partecipato alla fase di programmazione dell’agguato, commissionando a un collaboratore di giustizia un “lavoro delicato” in cambio di 20.000 euro. Secondo l’accusa, l’indagato avrebbe messo in contatto il collaboratore con l’esecutore materiale e avrebbe effettuato con quest’ultimo un sopralluogo in Calabria, dove il crimine doveva essere commesso. Le accuse si fondavano quasi interamente sulle dichiarazioni del collaboratore stesso.

La Decisione del Tribunale del Riesame

Il Tribunale del Riesame aveva confermato la misura degli arresti domiciliari per l’indagato. Secondo i giudici di merito, era “inverosimile” che l’accusato non fosse a conoscenza che il “lavoro delicato” fosse in realtà un omicidio, dato l’ingente compenso pattuito. Inoltre, il viaggio in Calabria effettuato insieme a uno degli esecutori materiali era stato considerato un elemento di riscontro sufficiente a confermare la sua partecipazione consapevole al piano criminoso.

La chiamata in correità e i limiti alla sua valutazione

La difesa ha presentato ricorso in Cassazione, contestando due punti fondamentali:
1. Mancanza di consapevolezza: Non vi era alcuna prova che l’indagato sapesse della natura omicidiaria del piano. Lo stesso collaboratore aveva ammesso di aver appreso i dettagli solo il giorno prima dell’azione, e che l’indagato non conosceva la natura esatta del “lavoro”. La conclusione del Tribunale era, quindi, una mera congettura.
2. Assenza di riscontri individualizzanti: Il viaggio in Calabria, unico elemento esterno, era neutro. Poteva essere motivato da ragioni familiari e non provava in alcun modo un coinvolgimento nel reato. Mancavano quindi i necessari riscontri esterni, specifici e individualizzanti richiesti dalla legge per validare una chiamata in correità.

Le Motivazioni della Cassazione

La Suprema Corte ha accolto il ricorso, annullando l’ordinanza e rinviando il caso per un nuovo giudizio. La motivazione della Cassazione è un’importante lezione sul metodo di valutazione della prova.

I giudici hanno definito la motivazione del Tribunale “apodittica” e basata su una “mera congettura”. L’affermazione per cui sarebbe “inverosimile” la mancanza di consapevolezza non è un argomento giuridico sufficiente. Soprattutto, la Corte ha smascherato un “ragionamento circolare” nel provvedimento impugnato: i giudici di merito avevano utilizzato l’accusa del collaboratore come chiave di lettura per interpretare un fatto neutro (il viaggio), trasformandolo in un riscontro; a quel punto, avevano usato lo stesso fatto, così interpretato, per confermare l’attendibilità dell’accusa iniziale. Questo è un errore logico e giuridico.

La Cassazione ha ribadito che, secondo l’art. 192 del codice di procedura penale, la chiamata in correità necessita di “altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità”. Tali elementi devono essere:
Esterni: Devono provenire da una fonte diversa dal dichiarante.
Individualizzanti: Devono collegare specificamente l’accusato al reato contestato, non essendo sufficienti a confermare solo la narrazione generale.
Oggetto di valutazione autonoma: Il loro significato non può dipendere dall’accusa che dovrebbero riscontrare.

Nel caso specifico, mancava la prova della consapevolezza dell’indagato e il riscontro del viaggio era ambiguo. Pertanto, la misura cautelare non poteva reggersi su basi così fragili.

Le Conclusioni

Questa sentenza riafferma un principio di garanzia fondamentale: non si può essere sottoposti a misure restrittive della libertà personale sulla base di mere supposizioni o di prove deboli. La chiamata in correità è uno strumento investigativo utile, ma il suo valore probatorio è subordinato alla presenza di solidi riscontri esterni che, in modo autonomo e logico, confermino le accuse. Un giudice non può colmare i vuoti probatori con la logica dell'”inverosimiglianza” o cadendo nella trappola del ragionamento circolare.

Quando le dichiarazioni di un collaboratore di giustizia sono sufficienti per una misura cautelare?
Le dichiarazioni di un collaboratore di giustizia (chiamata in correità) non sono mai sufficienti da sole. Secondo la sentenza, esse devono essere supportate da altri elementi di prova esterni, convergenti e individualizzanti che ne confermino l’attendibilità, soprattutto per quanto riguarda la partecipazione e la consapevolezza dell’accusato.

Cosa significa ‘riscontro esterno individualizzante’ nella valutazione di una chiamata in correità?
Significa un elemento di prova che proviene da una fonte diversa dal collaboratore (esterno) e che collega in modo specifico e diretto la persona accusata al reato (individualizzante). Un fatto neutro o ambiguo, come un viaggio le cui finalità non sono chiare, non costituisce un riscontro valido se la sua valenza accusatoria dipende solo dall’interpretazione data dal collaboratore stesso.

Può un giudice basare una misura cautelare su una supposizione, come il fatto che sia ‘inverosimile’ che l’imputato non sapesse del reato?
No. La Corte di Cassazione ha stabilito che una motivazione basata su una mera congettura o su un giudizio di “inverosimiglianza” è apodittica e insufficiente. La prova della consapevolezza (dolo) deve basarsi su elementi specifici e non può essere dedotta da un ragionamento presuntivo privo di solide basi fattuali.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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