Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 3 Num. 12917 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 3 Num. 12917 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 10/05/2024
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 21116/2022 R.G. proposto da: COGNOME NOME, rappresentato e difeso dall’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE), pec: EMAIL;
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, incorporante RAGIONE_SOCIALE, rappresentata e difesa dall’avvocato NOME COGNOME (CODICE_FISCALE), elettivamente domiciliata in ROMA, INDIRIZZO, presso lo Studio dell’avvocato NOME AVV_NOTAIO;
-controricorrente-
avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO di TORINO n. 202/2022 depositata il 22/02/2022.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 29/04/2024 dal Consigliere NOME COGNOME.
SVOLGIMENTO DEL GIUDIZIO
In data 14/06/1990, la RAGIONE_SOCIALE alienava alla RAGIONE_SOCIALE il complesso immobiliare costituito da terreni e fabbricati industriali siti in Gravellona Toce; contestualmente l’acquirente concedeva il suddetto complesso in locazione finanziaria alla RAGIONE_SOCIALE
Ai fini che qui interessano, con sentenza passata in giudicato (sent. n. 404/2005 della Corte d’appello di Torino): a) veniva accertato che l’acquisto da parte della RAGIONE_SOCIALE era avvenuto a ‘non domino’, non essendo la venditrice RAGIONE_SOCIALE, nonostante le apparenze, proprietaria dell’immobile, e che il diritto dominicale spettava a NOME COGNOME; b) era respinta la domanda della RAGIONE_SOCIALE di accertamento dell’avvenuto acquisto per usucapione del diritto di proprietà; c) era disattesa la domanda di rivendica, per usucapione, del Fallimento della RAGIONE_SOCIALE ; d) veniva dichiarata inammissibile, per tardività, la domanda di rivendica proposta in causa nello stesso giudizio dagli eredi di NOME COGNOME (la moglie NOME COGNOME ed i figli NOME e NOME).
Per l’effetto, in data 16/12/2005, il complesso immobiliare veniva rilasciato spontaneamente dal Fallimento della RAGIONE_SOCIALE agli effettivi proprietari.
Avendo la RAGIONE_SOCIALE posseduto gli immobili di cui è causa, sebbene solo ‘animo’, stante la detenzione qualificata attribuita alla locataria RAGIONE_SOCIALE, gli eredi COGNOME la convenivano, dinanzi al Tribunale di Verbania, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni derivanti dall’indebita occupazione del complesso
immobiliare dal 14/06/1990 (data in cui era stato stipulato l’atto di acquisto) al 16/12/2005 (data in cui il compendio immobiliare era tornato nella disponibilità dei COGNOME), alla restituzione dei canoni di leasing corrisposti dalla RAGIONE_SOCIALE e percepiti dalla RAGIONE_SOCIALE nel corso del rapporto di locazione finanziaria (dal giorno in cui la RAGIONE_SOCIALE aveva conseguito il possesso, 14/06/1990, fino al fallimento della RAGIONE_SOCIALE, 8/07/1993), per un ammontare di euro 291.149,48, di cui gli attori denunciavano altresì, ai sensi dell’art. 2041 cod.civ., l’ingiustificato arricchimento a loro danno.
Con sentenza n. 345/2010, il Tribunale di Verbania respingeva le suddette domande, qualificando la relazione materiale della RAGIONE_SOCIALE con il complesso immobiliare di cui è causa quale possesso di buona fede, ex art. 1147 cod.civ., e riconoscendo la sussistenza del diritto della convenuta, in quanto possessore in buona fede, di ritenere i frutti civili (canoni di leasing ) percepiti in costanza di possesso ‘fino al giorno della domanda giudiziale’ ex art. 1148 cod.civ.
Detta pronuncia veniva confermata dalla Corte d’Appello di Torino, (sent. n. 186/2014). Con sentenza n. 2341/2018 questa Corte rigettava il ricorso per cassazione promosso dagli eredi COGNOME, NOME e NOME COGNOME, i quali agivano anche quali eredi della madre nelle more deceduta.
NOME COGNOME -al quale il fratello NOME aveva ceduto ogni ragione di credito – conveniva in giudizio la RAGIONE_SOCIALE, già RAGIONE_SOCIALE, ora incorporata da RAGIONE_SOCIALE, chiedendone la condanna alla restituzione dei frutti (da parametrare al valore locativo dell’immobile) che avrebbe potuto percepire usando la diligenza del buon padre di famiglia dalla data della domanda giudiziale di rivendica (cioè dal 22/06/1994, in considerazione della domanda proposta dal Fallimento della RAGIONE_SOCIALE contro la RAGIONE_SOCIALE, oppure dal 12/06/2000, in considerazione della domanda di rivendica avanzata dai COGNOME
contro
la RAGIONE_SOCIALE) fino alla restituzione dei beni ai proprietari, avvenuta il 16/12/2005 .
Il Tribunale di Verbania, con la sentenza n. 603/2019, sulla scorta del principio della ‘ragione più liquida’, osservava che l’art. 1148 cod.civ. ‘costituisce un’applicazione del principio generale della preservazione del diritto di cui si chiede la tutela in giudizio dal pregiudizio derivante dalla durata di questo, nonché una conseguenza del carattere dichiarativo della sentenza di accoglimento della domanda di restituzione e del suo effetto retroattivo’, e, quindi, riteneva che la restituzione dei frutti della cosa al proprietario, ai sensi dell’art. 1148 cod.civ., deve essere oggetto di una specifica domanda da proporre unitamente alla domanda di restituzione della res oppure in un successivo e separato giudizio. Nel caso di specie, riteneva che la domanda giudiziale dalla quale decorreva l’obbligo del possessore di buona fede di restituire i frutti non era quella di rilascio o di restituzione del bene, ma quella, separatamente proponibile, di pagamento dei frutti, in applicazione del principio di diritto enunciato da Cass. 6224/1992; domanda che nel caso di specie era stata proposta nei confronti della RAGIONE_SOCIALE quando non era più nel possesso del compendio immobiiare.
La Corte d’appello di Torino, con la sentenza n. 202/2022 depositata il 22/02/2022, ha rigettato l’appello proposto da NOME COGNOME ed ha confermato la pronuncia del Tribunale di Verbania.
Segnatamente, la Corte d’appello: i) ha rilevato che il diritto all’equivalente dei frutti civili non percepiti ha ad oggetto i frutti esigibili, ma non acquisiti, dopo la proposizione della domanda giudiziale da parte dell’avente diritto e fino al venir meno della disponibilità materiale del bene da parte di chi è chiamato alla restituzione; ii) ha precisato che la domanda giudiziale cui fa riferimento l’art. 1148 cod.civ. è quella proposta dal rivendicante nei confronti del possessore di buona fede, strumentale
all’ottenimento dei frutti percepiti e percipiendi nel tempo intercorrente tra la proposizione della domanda e la restituzione dei beni, e non già quella di rivendicazione, di cui all’art. 948 cod.civ. , come confermato da Cass. n. 6224/1992; iii) ha osservato che, non potendosi più esperire l’azione contro il possessore una volta che questi abbia cessato di essere tale, la RAGIONE_SOCIALE aveva perduto il possesso del bene quando il curatore del Fallimento della RAGIONE_SOCIALE con la dichiarazione contenuta nella missiva dell’11.2.1994, ritenuta, con sentenza passata in giudicato, un’ interversio possessionis , ai sensi del’art. 1141 cpv cod.civ., aveva mutato la sua detenzione in possesso; sicchè la data dell’11/02/1994 era il termine ultimo del possesso sul compendio immobiliare della RAGIONE_SOCIALE, essendo stata quest’ultima sostituita, a partire dall’ interversio possessionis , dal Fallimento della RAGIONE_SOCIALE che aveva posseduto gli immobili fino a che li aveva restituiti agli eredi COGNOME; iv) ha aggiunto che, quand’anche il possesso della RAGIONE_SOCIALE non fosse cessato l’11/02/1994, ma il 16/12/2005, l’azione ex art. 1148 cod.civ. non avrebbe potuto essere esercitata nei suoi confronti, dovendosi considerare la persistenza del possesso un elemento costitutivo della domanda; v) ha confermato il rigetto dell’eccezione di giudicato sollevata dalla RAGIONE_SOCIALE, perché tra le domande riconvenzionali proposte dagli eredi nel giudizio attivato dalla RAGIONE_SOCIALE , volte a conseguire sia l’accertamento del loro diritto di comproprietà sul complesso di Gravellona Toce, sia il ristoro dei pregiudizi subiti per effetto della mancata disponibilità del bene e del degrado in cui versava quest’ultimo, oltre che, in chiusa, di ‘ogni ulteriore e consequenziale pronuncia e la domanda oggetto dell’odierno giudizio’ non vi è coincidenza di petitum e di causa petendi ; vi) ha disatteso la tesi di NOME COGNOME secondo cui ‘il fatto costitutivo dell’odierna azione’ sarebbe ‘rappresentato dal possesso in buona fede’ dell’appellata ‘e quindi dalla legittimità dell’occupazione, acclarato solo con il passaggio in giudicato della’
reiezione della ‘precedente domanda, unitamente alla domanda giudiziale di rivendica’, essendo proprio di qualsiasi statuizione ‘l’accertamento, in positivo od in negativo, di uno o più fatti storici’ che devono avere la caratteristica dell’attualità, non potendo fatti confinati nel passato – il possesso della RAGIONE_SOCIALE era cessato dodici se non addirittura ventitré anni prima della domanda finalizzata ad acquisire i frutti percipiendi – rivivere.
NOME COGNOME ricorre per la cassazione di detta pronuncia, formulando cinque motivi.
Resiste con controricorso RAGIONE_SOCIALE che ha incorporato la RAGIONE_SOCIALE, già RAGIONE_SOCIALE.
La trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380 -bis 1 cod.proc.civ.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
…
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1148 cod.civ. in relazione all’art. 360, 1° comma, n. 3, cod.proc.civ., per avere il giudice a quo ritenuto che la domanda giudiziale richiamata dall’art. 1148 cod.civ. sia la domanda diretta alla restituzione dei frutti e non già la domanda di rivendica del bene.
Secondo il ricorrente, la Corte d’appello avrebbe basato la sua decisione su un precedente, quello del 1992, risalente ed isolato, piuttosto che prestare adesione alla giurisprudenza di questa Corte, a mente della quale il possessore è tenuto alla restituzione dei frutti a partire dalla data della domanda di rilascio, cioè dalla domanda di rivendica, come sarebbe provato dal fatto che l’art. 1148 cod.civ. è inserito nella Sez. I del Capo II del codice civile che si intitola ‘Dei diritti e degli obblighi del possessore nella restituzione della cosa’ e dal fatto che l’art. 1148 cod.civ. parte
seconda, nell’affermare che il possessore in buona fede, fino alla restituzione della cosa risponde verso il rivendicante dei frutti percepiti e che avrebbe potuto percepire dopo la domanda giudiziale, non può che riferirsi alla domanda giudiziale di rivendica, anche perché altrimenti il possessore, pur sapendo di una domanda di rivendica nei suoi confronti e, quindi, da quel momento non più in buona fede nel possesso, potrebbe fare suoi i frutti della cosa fino a quando il proprietario non formuli altra specifica domanda di restituzione dei soli frutti e addirittura potrebbe fare suoi i frutti se la domanda fosse presentata dopo l’avvenuta restituzione del bene e anche se il bene fosse stato restituito in seguito all’accoglimento della specifica domanda, ovvero potrebbe ritenersi lecita la restituzione dei frutti, pur non essendo stata proposta alcuna domanda giudiziale di restituzione della cosa.
Il ricorrente censura anche la statuizione con cui la Corte d’appello ha affermato che ‘il periodo entro il quale vanno circoscritti i frutti acquisiti (od acquisibili) dal possessore e ripetibili dall’avente diritto a detta riconsegna si esaurisce (cioè trova il suo termine finale), allorquando il primo perde la signoria sulla cosa, eventualmente anche per effetto della condotta di altro soggetto e non necessariamente ad iniziativa del secondo’. Non si comprende – sostiene il ricorrente – ‘chi possa essere il soggetto per effetto della cui azione il possessore possa perdere la signoria sulla cosa (…’per effetto della condotta di altro soggetto’) se non proprio il rivendicante.
2) Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 132 n. 4 c.p.c. in relazione all’art. 360, 1° comma, n. 4, cod.proc.civ.
Attinta da censura è la statuizione con cui la Corte d’appello ha ritenuto che ‘La conseguenza di aver ritenuto che per ‘domanda giudiziale’ richiamata dall’art. 1148 c.c. debba considerarsi la domanda diretta alla restituzione dei frutti e non la domanda di
rivendica del bene e che, anche a voler considerare quale termine ultimo di cessazione del possesso in capo ad RAGIONE_SOCIALE il 16.12.2005, la domanda di restituzione dei frutti va ‘esercitata in pendenza (altrimenti dicasi in costanza) del possesso di buona fede”. Detto presupposto sarebbe mancato perché la prima iniziativa giudiziaria degli eredi COGNOME -la domande riconvenzionali, volte a conseguire sia l’accertamento del loro diritto di proprietà sul complesso di Gravellona Toce sia il ristoro dei pregiudizi subiti per effetto della mancata disponibilità del bene e del degrado in cui versava quest’ultimo, oltre che, in chiusa, ‘ogni ulteriore e consequenziale pronuncia’, era aspecifica e generica. La Corte d’appello però non avrebbe spiegato il perché di tale conclusione, limitandosi ad attribuire rilievo ad una circostanza irrilevante, cioè la inammissibilità di dette domande per tardività. La tesi del ricorrente è che, ‘seppure processualmente irrituale’, detta domanda costituisse, sul piano sostanziale, esercizio del diritto di proprietà e manifestazione della volontà del suo titolare di evitarne la perenzione, impedendo l’usucapione. In sostanza, alla Corte d’appello il ricorrente rimprovera di non aver distinto gli effetti processuali da quelli sostanziali della domanda.
3) Con il terzo motivo il ricorrente si duole della violazione e/o falsa applicazione dell’art. 183, 6° comma, cod.proc.civ., degli artt. 112 e 115 cod.proc.civ., in relazione all’art. 360, 1° comma, n. 4, cod.proc.civ., per omessa pronuncia sulla domanda circa la tardività dell’eccezione di controparte relativa alla contestata idoneità della domanda di rivendica a rappresentare domanda giudiziale ai sensi dell’art. 1148 cod.civ.
Soddisfatte le prescrizioni di cui all’art. 366, 1° comma, n. 6, cod.proc.civ., il ricorrente sostiene che il giudice a quo abbia omesso di pronunciarsi sull’eccezione, ritualmente e tempestivamente proposta, con cui aveva denunciato che la RAGIONE_SOCIALE solo con la memoria ex art. 183, 6° comma, n. 2
cod.proc.civ., aveva eccepito l’inidoneità di qualunque domanda di rivendica a realizzare gli effetti di cui all’art. 1148 cod.civ., ritenendo necessaria specifica domanda di restituzione dei frutti, e che essendo una eccezione in senso stretto non era consentito al giudice d’ufficio di rilevare il difetto di una condizione della domanda, dovendo lo stesso limitarsi ad applicare il principio di non contestazione.
4) Il Collegio rileva che la sentenza impugnata ha rigettato l’appello dell’odierno ricorrente sulla scorta di una pluralità di rationes decidendi , le quali per portare alla cassazione della stessa avrebbero dovuto, in applicazione del consolidato orientamento di questa Corte essere confutate tutte e confutate utilmente, posto che la mancata critica anche solo di uno degli ordini di ragioni su cui si basa l’impugnata sentenza o la relativa attitudine a resistere agli appunti mossigli comporterebbero che la decisione dovrebbe essere tenuta ferma sulla base del profilo della sua ratio non, o mal, censurato e priverebbero il gravame dell’idoneità al raggiungimento del suo obiettivo funzionale, rappresentato dalla rimozione della pronuncia contestata.
Tanto non è avvenuto nel caso di specie, poiché NOME COGNOME ha omesso di confutare la ratio decidendi con cui la Corte d’appello ha ritenuto che facesse difetto in capo alla RAGIONE_SOCIALE la qualifica di possessore sin dal momento in cui il Fallimento della RAGIONE_SOCIALE, con l’ interversio possessionis , cioè con il mutamento della sua precedente detenzione in possesso, aveva cambiato la natura giuridica della sua relazione con la res , da quella di detentore qualificato a quella di possessore. Secondo quanto accertato dal giudice del merito, con la missiva di data 11 febbraio 1994 della RAGIONE_SOCIALE fallimentare è cessato il possesso e la locatrice è rimasta detentrice. Tale ratio decidendi non è stata impugnata dal ricorrente, il quale peraltro, illustrando il primo motivo (cfr. supra , sub § 1), ammette di non aver compreso ‘chi possa essere il
soggetto per effetto della cui azione il possessore possa perdere la signoria sulla cosa (…’per effetto della condotta di altro soggetto’) se non proprio il rivendicante’. La Corte d’appello aveva inteso riferirsi all’intervenuta interversione della detenzione in possesso che, quindi, di riflesso aveva portato alla cessazione del possesso da parte della RAGIONE_SOCIALE, per il fatto del terzo ( interversio possessionis da parte del Fallimento della RAGIONE_SOCIALE).
Mutata la qualificazione giuridica della relazione materiale della RAGIONE_SOCIALE con il compendio immobiliare e soprattutto essendo detta relazione qualificabile come semplice detenzione, non poteva essere invocata nei suoi confronti la disciplina di cui all’art. 1148 cod. civ., relativa all’obbligo del possessore in buona fede di restituire i frutti percepiti dopo la domanda giudiziale (cfr. Cass. 28/06/2000, n. 8796; Cass. 10/10/2013, n. 23035 quanto all’inapplicabilità dell’art. 1148 cod.civ. alla detenzione).
Come si è già detto, detta ratio decidendi sopravvive alle censure del ricorrente, non essendone stata scalfita.
Quando, infatti, la Corte territoriale ha osservato che, anche a prescindere dalla suddetta interversio possessionis che aveva anticipato la perdita del possesso da parte della RAGIONE_SOCIALE, quest’ultima non aveva il possesso, sin dalla data in cui il Fallimento della RAGIONE_SOCIALE aveva restituito i beni, non ha inteso superare, cioè negare rilievo alla prima ratio decidendi , ma ha introdotto, per l’eventualità che essa risultasse erronea, un ulteriore ordine di ragioni a supporto della sua conclusione. Va, infatti, rammentato che qualora la sentenza del giudice del merito, dopo aver aderito ad una prima ragione decisoria, ne esamini ed accolga anche un’altra o altre, al fine di sostenere la decisione pure nel caso in cui la prima possa risultare erronea, non solo non incorre nel vizio di contraddittorietà della motivazione, ma neppure contiene un mero obiter dictum, non suscettibile di trasformarsi nel giudicato, ma configura una pronuncia basata su due o più distinte
rationes decidendi , ciascuna di per sé sufficiente a sorreggere la soluzione adottata, che, pertanto può essere utilmente impugnata solo mediante la censura di tutte, non essendo il ricorso per cassazione un terzo grado di giudizio tramite il quale far valere la mera ingiustizia della sentenza impugnata, caratterizzandosi, invece, come un rimedio impugnatorio, a critica vincolata ed a cognizione determinata dall’ambito della denuncia attraverso il vizio o i vizi dedotti (Cass., Sez. Un., 29/03/2013, n. 7931 e successiva giurisprudenza conforme).
E’ appena il caso di aggiungere che non può attribuirsi rilevanza alla domanda di revindica di data 22 giugno 1994, in quanto proposta da un soggetto terzo (la RAGIONE_SOCIALE fallimentare).
Per le ragioni esposte, la resistenza della ratio decidendi enunciata rende del tutto ultronea la verifica delle censure formulate con il primo, il secondo ed il terzo motivo, perché l’eventuale accoglimento di tutte o di una di esse mai condurrebbe alla cassazione della pronuncia della Corte d’appello.
5) Con il quarto motivo il ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2935, 2943, 2945 e 2946 cod.civ., in relazione all’art. 360, 1° comma, n. 3, cod.proc.civ., per aver il giudice a quo ritenuto prescritta la domanda diretta alla restituzione dei frutti civili percipiendi. La sentenza impugnata non avrebbe applicato le norme che prevedono l’efficacia interruttiva e sospensiva della prescrizione per effetto della domanda giudiziale con riguardo a tutti i diritti che si ricolleghino con stretto nesso di causalità al rapporto cui essa inerisce.
Il ricorrente, in particolare, insiste nel sostenere non solamente che con la pronuncia di questa Corte n. 2341/2018 e non prima era sorto il suo il diritto di chiedere a RAGIONE_SOCIALE il pagamento, ex art. 1148 cod.civ., degli ulteriori frutti civili che avrebbe potuto percepire, ma anche che la domanda giudiziale ha efficacia interruttiva (e sospensiva, in base, e per gli effetti di cui all’art.
2945, 2° comma, cod.civ.) della prescrizione con riguardo a tutti i diritti che si ricolleghino con stretto nesso di causalità al rapporto cui essa inerisce senza che occorra che il loro titolare proponga, nello stesso o in altro giudizio, una specifica domanda diretta a farli valere ed anche quando tale domanda non sia proponibile nel giudizio pendente; perciò, la sua conclusione è che quando con la comparsa di costituzione nel giudizio promosso dalla RAGIONE_SOCIALE per far accertare l’avvenuta usucapione de diritto di proprietà, aveva proposto la domanda riconvenzionale – ritenuta generica e tardiva – con cui aveva interrotto il termine di prescrizione e ne aveva sospeso il decorso fino al passaggio in giudicato della sentenza -anche di rito -che aveva definito il giudizio.
6) Con il quinto ed ultimo motivo il ricorrente imputa alla Corte d’appello la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 132 n. 4 cod.proc.civ., in relazione all’art. 360, 1° comma, n. 4, cod.proc.civ., per omessa motivazione sul rigetto per avvenuta prescrizione della domanda diretta alla restituzione dei frutti civili percipiendi. La sentenza impugnata non darebbe conto di aver valutato la sua tesi difensiva, relativa all’efficacia interruttiva e sospensiva della prescrizione per effetto della domanda giudiziale con riguardo a tutti i diritti che si ricolleghino con stretto nesso di causalità al rapporto cui essa inerisce, finendo per ritenere prescritto il diritto azionato con una motivazione solo apparente.
7) I motivi quarto e quinto sono inammissibili.
La sentenza gravata, come già quella del Tribunale, si è basata sul principio della ragione più liquida (p. XI), ritenendo assorbite le questioni non esaminate, dato il rigetto di quelle ritenute dirimenti. Detto assorbimento, che questa Corte definisce improprio in quanto ‘la decisione assorbente esclude la necessità o la possibilità di provvedere sulle altre questioni, ovvero comporta un implicito rigetto di altre domande’, non comporta un’omissione di pronuncia (se non in senso formale) in quanto, in realtà, la decisione
assorbente permette di ravvisare la decisione implicita (di rigetto oppure di accoglimento) anche sulle questioni assorbite, la cui motivazione è proprio quella dell’assorbimento’ (Cass. 22/06/2020, n. 12193).
In tal caso, per lamentare l’omessa pronuncia sarebbe stato necessario misurarsi con la statuizione del giudice a quo di ritenere assorbite le questioni non esaminate. In altri termini, per lamentare l’omessa pronuncia il ricorrente avrebbe dovuto dimostrare che l’assorbimento era stato illegittimamente pronunciato, escludendo la ricorrenza delle condizioni dell’assorbimento (Cass. 12/11/2018, n. 28995).
Deve anche escludersi che il giudice a quo sia incorso nell’errore di diritto denunciato con il quarto motivo, essendo mancata una decisione sulla prescrizione. Non vi è stato infatti un accertamento di prescrizione, ma piuttosto di infondatezza della pretesa.
Secondo il costante indirizzo di questa Corte, il vizio di violazione e falsa applicazione della legge, di cui all’art. 360, 1° comma, n. 3, cod. proc. civ., giusta il disposto di cui all’art. 366, 1° comma, n. 4, cod. proc. civ., deve essere, a pena d’inammissibilità, dedotto mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, non risultando altrimenti consentito a questa Corte di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass., Sez. Un., 05/05/2006, n. 10313). Nella sentenza impugnata, come si è detto, non c’è alcun passaggio nel quale venga affrontata la questione della prescrizione, ragione per cui, a fortiori , inutilmente si andrebbero a cercare in essa affermazioni che evidenzino una erronea ricognizione delle norme che disciplinano gli effetti interruttivi e sospensivi del termine di prescrizione o una falsa
applicazione delle stesse alla fattispecie concreta; né il ricorrente le individua.
Per le ragioni esposte, il ricorso va dichiarato inammissibile.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese in favore della controricorrente, liquidandole in euro 4.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso nella camera di Consiglio della Terza Sezione civile