Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 1 Num. 11320 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 1 Num. 11320 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 26/04/2024
Oggetto: dicatio ad patriam
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 6609/2021 R.G. proposto da
NOME COGNOME, rappresentato e difeso da ll’ AVV_NOTAIO, con domicilio eletto presso lo studio dell’AVV_NOTAIO, sito in Roma, INDIRIZZO
– ricorrente –
contro
Comune di RAGIONE_SOCIALE
– intimato – avverso la sentenza della Corte di appello di Palermo n. 83/2021, depositata il 22 gennaio 2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 27 marzo 2024 dal Consigliere NOME COGNOME
RILEVATO CHE:
NOME COGNOME propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Palermo, depositata il 22 gennaio 2021, di
reiezione dell’appello per la riforma della sentenza del Tribunale di Trapani che aveva respinto la sua domanda di condanna del Comune RAGIONE_SOCIALE al risarcimento dei danni per occupazione usurpativa di un terreno di sua proprietà;
la Corte di appello ha dato atto che il giudice di prime cure aveva respinto la domanda attorea sul fondamento che l’ente locale era titolare di un diritto di uso pubblico su tale terreno, stante il suo utilizzo da parte della collettività per pubblico transito;
-ha, quindi, disatteso il gravame interposto osservando che ricorrevano gli estremi della dicatio ad patriam , in relazione a ll’apertura della strada al pubblico transito e alla implicita volontà della proprietaria di consentire alla collettività l’utilizzo della stessa, e che, inoltre, l’esecuzione dei lavori da parte del Comune non aveva dato luogo a una trasformazione del bene in opera pubblica e alla sua radicale manipolazione, tale da farlo divenire strutturalmente un aliud rispetto a quello precedente , ma a una semplice miglioria dell’area ;
il ricorso è affidato a tre motivi;
il Comune RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE non spiega alcuna difesa;
la ricorrente deposita memoria ai sensi dell’art. 380 -bis .1 cod. proc. civ.;
CONSIDERATO CHE:
con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 825 cod. civ. , per aver la sentenza impugnata ritenuto applicabile al caso in esame l’istituto della dicatio ad patriam ; – evidenzia, in proposito, che: non era stata data prova del fatto che il terreno era stato posto al servizio di una collettività indeterminata di cittadini, venendo in rilievo solo un uso degli abitanti degli edifici prospicienti o degli avventori di un’officina ivi stabilita; la dicatio ad patriam presuppone l’idoneità del bene all’uso pubblico nello stato in cui si trova, mentre nel caso in esame l’ente locale aveva provveduto all’abbattimento di un muto e all’eliminazione di una catena; la volontà
del privato di mettere l’area di sua proprietà a disposizione di una comunità indeterminata di cittadini con carattere di continuità e non di precarietà o tolleranza non poteva accertarsi per facta concludentia ;
-con il secondo motivo deduce, con riferimento all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ. la nullità della sentenza impugnata per grave travisamento della prova, nella parte in cui ha omesso di utilizzare l’informazione probatoria risultante dalle dichiarazioni rese da alcuni testi concernente l’assenza di un utilizzo generalizzato dell’area da parte dei cittadini;
con il terzo motivo formula una censura sostanzialmente analoga a quella oggetto del secondo motivo, in relazione al diverso paradigma dell ‘omesso esame di un fatto decisivo e controverso del giudizio ;
vanno esaminati prioritariamente, per motivi di ordine logicogiuridico, il secondo e poi il terzo motivo di ricorso;
il secondo motivo è inammissibile;
-è stato autorevolmente e recentemente affermato che «Il travisamento del contenuto oggettivo della prova, il quale ricorre in caso di svista concernente il fatto probatorio in sé, e non di verifica logica della riconducibilità dell’informazione probatoria al fatto probatorio, trova il suo istituzionale rime dio nell’impugnazione per revocazione per errore di fatto, in concorso dei presupposti richiesti dall’articolo 395, n. 4, c.p.c., mentre, ove il fatto probatorio abbia costituito un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare, e cioè se il travisamento rifletta la lettura del fatto probatorio prospettata da una delle parti, il vizio va fatto valere, in concorso dei presupposti di legge, ai sensi dell’articolo 360, nn. 4 e 5, c.p.c., a seconda si tratti di fatto processuale o sostanziale» (così, Cass., Sez. Un., 5 marzo 2024, n. 5792);
orbene, nel caso in esame, si osserva che la ricorrente erroneamente invoca l’istituto del travisamento della prova, atteso che fa valere non già una «svista concernente il fatto probatorio in sé», quanto l’omessa
utilizzazione di informazioni probatorie emergenti dall’attività istruttoria svolta, per cui non ricorrono gli estremi del vizio denunciato, il quale può essere fatto valere, semmai, ricorrendone i presupposti di legge, ai sensi dell’art . 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.;
in ogni caso, quand’anche si fosse in presenza, come ipotizzato dalla parte, di un travisamento del fatto probatorio, il rimedio apprestato dalla legge è unicamente quello del ricorso per revocazione ai sensi dell’art. 395, n. 4, cod. proc. civ., ove esperibile;
il terzo motivo è, del pari, inammissibile;
ricorrendo nella specie una ipotesi di cd. «doppia conforme» di cui all’ art. 348ter , quinto comma, cod. proc. civ., è onere del ricorrente, che impugni la sentenza di appello ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello onde dimostrare che esse sono tra loro diverse e che, dunque, non trova applicazione la regola preclusiva della censura per omesso esame di fatti decisivi e controversi (cfr. Cass. 28 febbraio 2023, n. 5947; Cass. 22 dicembre 2016, n. 26774);
sostiene la ricorrente che «la sentenza di secondo grado è totalmente carente nelle ragioni di fatto», per cui non può trovare applicazione il menzionato limite alla proponibilità del motivo di ricorso per vizio motivazionale;
-l’assunto non trova riscontro nella lettura della sentenza la quale, come riferito in precedenza, dà conto degli accertamenti di fatti posti dalla Corte territoriale a fondamento della sua decisione;
il primo motivo è, in parte, inammissibile e, in parte, infondato;
come già accennato la doglianza si articola sin tre distinti profili;
in primo luogo, si contesta la decisione di appello sostenendo che non era stata data prova del fatto che il terreno era stato posto al servizio di una collettività indeterminata di cittadini, ma tale deduzione si scontra con l’accertamento ivi operato secondo cui «è emerso,
inconfutabilmente, sia il dato dell’apertura al pubblico transito della strada …, sia la implicita volontà della COGNOME di consentire l’utilizzo della collettività ben prima dell’esecuzione dei lavori da parte della P.A.» (pag. 9, ultimo capoverso);
viene, dunque, in rilievo una critica alla valutazione delle risultanze probatorie che non può essere sindacata in questa sede con censura per vizio di violazione o falsa applicazione di legge (cfr. Cass., Sez. Un., 27 dicembre 2019, n. 34476);
ad analoghe conclusioni deve pervenirsi con riferimento al secondo profilo, con cui si sottolinea l’ inidoneità del l’area, così come esistente in epoca antecedente all’esecuzione dei lavori da parte dell’ente locale, all’uso pubblico , risolvendosi anch’esso in una critica all’accertamento dei fatti riservato al giudice di merito, il quale ha riconosciuto il transito sulla strada da parte della collettività;
-infine, quanto all’accertamento della volontà del privato di mettere una sua area a disposizione di una collettività indeterminata di cittadini e, in tal modo, di dare luogo alla costituzione di una dicatio ad patriam , si osserva che tale modo di costituzione di una servitù di uso pubblico consiste nel comportamento del proprietario che metta volontariamente, con carattere di continuità (non di precarietà e tolleranza), un proprio bene a disposizione della collettività, assoggettandolo al correlativo uso, al fine di soddisfare un’esigenza comune ai membri di tale collettività uti cives (cfr. Cass. 14 giugno 2018, n. 15618; Cass. 11 marzo 2016, n. 4851);
-pertanto, diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente, presupposto della costituzione della dicatio ad patriam è proprio un comportamento del proprietario dell’area e, dunque, un suo fatto concludente -, rivelatore della sua volontà di destinare tale area alle esigenze della collettività, non richiedendo una manifestazione espressa di una siffatta intenzione;
per le indicate considerazioni, dunque, il ricorso non può essere
accolto;
nulla va disposto in tema di spese processuali in assenza di attività difensiva della parte vittoriosa;
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , t.u. spese giust., dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale del 27 marzo 2024.