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Enti previdenziali privatizzati, contributo di solidarietà

Enti previdenziali privatizzati, non possono adottare atti o provvedimenti che impongano un contributo di solidarietà su un trattamento che sia già determinato.

Pubblicato il 13 March 2022 in Diritto Previdenziale, Giurisprudenza Civile

REPUBBICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

La Corte d’Appello di Brescia, Sezione Lavoro, composta dai Sigg.:

ha pronunciato la seguente

SENTENZA n. 63/2022 pubbl. il 10/03/2022

nella causa civile promossa in grado d’appello con ricorso depositato in Cancelleria il giorno 01 ottobre 2021, iscritta al n. 246/2022 R.G.

Sezione Lavoro e posta in discussione all’udienza collegiale del 17/02/2022

da

XXX, rappresentata e difesa dagli avv.ti

RICORRENTE APPELLANTE altre controversie in

contro materia di previdenza

YYY, rappresentato e difeso dagli avv.ti

RESISTENTE APPELLATO

In punto: appello a sentenza n. 200 del 2021 del Tribunale di Bergamo.

Conclusioni:

Del ricorrente appellante:

Come da ricorso

Del resistente appellato:

Come da memoria

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza n. 200/2021 il Tribunale di Bergamo Sezione Lavoro accoglieva il ricorso proposto da YYY nei confronti della Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza dei Dottori Commercialisti ai fine : 1) di fare accertare il proprio diritto al ricalcolo della pensione di anzianità e condannare la Cassa al pagamento della quota retributiva della pensione nella misura risultante dall’applicazione della disciplina previgente a quella di cui al D.I. del 14.07.2004; 2) di fare accertare l’illegittimità delle trattenute sulla pensione applicate dalla Cassa a titolo di contributo di solidarietà con conseguente condanna alla relativa restituzione.

La ricorrente, commercialista cui era stata liquidata la pensione di anzianità con decorrenza dall’1 agosto 2004, aveva ritenuto che il conteggio della Cassa effettuato sulla base del Regolamento di disciplina del regime previdenziale del 2004 fosse illegittimo in quanto in contrasto con il principio del pro rata temporis e aveva invocato l’applicazione dei criteri più favorevoli previsti dagli artt. 2 e 15 della L. n. 21/86 e dal previgente Regolamento di previdenza della Cassa.

Il Tribunale evidenziava che i criteri previsti dalla L. n. 21/86, richiamati anche nel Regolamento della Cassa del 31.07.1990, secondo cui devono essere presi in considerazione per il calcolo della pensione i più elevati dieci redditi annuali professionali degli ultimi 15 anni anteriori a quello di maturazione della pensione, erano più favorevoli di quelli applicati dalla Cassa che, ai fini di determinazione della base reddituale utile per il calcolo della pensione, aveva considerato la media degli ultimi 15 redditi anteriori rispetto alla maturazione del diritto a pensione.

Il giudice di primo grado, quindi, richiamando il principio del pro rata temporis sancito dall’art. 3 c. 12 L. 335/95 e l’evoluzione della giurisprudenza di legittimità sul tema, affermava il diritto della ricorrente alla riliquidazione della pensione secondo i più favorevoli criteri di cui al Regolamento approvato con D.I. del 31.07.1990 e alla L. n. 21/86.

Secondo il ragionamento osservato nella motivazione,

siccome il criterio che la Cassa diceva di avere applicato in attuazione della L. 335/1995, recepito dalla delibera del maggio 1997, era deteriore rispetto a quello invocato dalla ricorrente e posto che si doveva salvaguardare il principio del pro rata temporis nella determinazione del trattamento pensionistico, il Tribunale affermava il diritto della ricorrente alla riliquidazione della pensione alla stregua dei più favorevoli criteri di cui alla L. 21/86 e del Regolamento di previdenza della Cassa del 31.07.1990.

Veniva poi richiamata la recente giurisprudenza della Suprema Corte in tema di illegittimità delle trattenute operate dalle casse a titolo di contributo di solidarietà e, sulla base dei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità, la Cassa veniva condannata alla restituzione di quanto trattenuto a tale titolo a decorrere dall’8.06.2010, risultando per il periodo precedente il credito in parte soddisfatto per intervenuta spontanea restituzione e in parte estinto per prescrizione decennale.

La Cassa ha proposto appello avverso tale decisione.

Come primo motivo, l’appellante ha criticato la sentenza per avere erroneamente interpretato il principio del cd. pro rata e disposto la condanna della Cassa al ricalcolo della pensione sulla base dei criteri di cui all’art. 2 L. 21/1986 e art. 3 del regolamento del 1990.

L’appellante ha sottolineato che al momento della maturazione della pensione della ricorrente nell’agosto del 2004 le norme applicate dal Tribunale non erano più in vigore perché medio tempore sostituite dall’art. 3 comma 12 della L. n. 335/1995, normativa che, per effetto del rinvio all’art. 1 commi 17 e 18, prevedeva di considerare come base pensionabile la media dei 15 redditi dichiarati dall’iscritto nel periodo antecedente alla maturazione dei diritto a pensione.

Quindi, a parere dell’appellante, proprio facendo applicazione del principio del pro rata temporis e procedendo al calcolo della pensione della ricorrente sulla scorta della normativa vigente al tempo della maturazione del diritto alla pensione, si doveva pervenire alla conclusione della correttezza del calcolo della Cassa.

Come secondo motivo dell’appello, la Cassa ha censurato la sentenza nella parte in cui era stata ritenuta illegittima per violazione del principio del pro rata l’applicazione del Regolamento di disciplina del regime previdenziale della Cassa Dottori Commercialisti approvato il 14.07.2004, che aveva modificato il sistema di gestione passando gradualmente dal sistema di calcolo reddituale a quello contributivo allo scopo di perseguire l’equilibrio di bilancio con una progressiva riduzione dei trattamenti pensionistici.

In subordine, l’appellante ha impugnato la decisione laddove era stata ritenuta applicabile la prescrizione decennale, invocando sia l’art. 2948 n. 4 c.c. che l’art. 19, co. 3 della L. n. 21 del 1986 che prevede con riferimento alla Cassa Dottori Commercialisti che il diritto alle prestazioni della Cassa si prescrive nel termine di cinque anni.

In ultimo, l’appellante ha criticato la sentenza per avere condannato la Cassa alla restituzione di quanto trattenuto a titolo di contributo di solidarietà sull’assunto dell’illegittimità delle trattenute.

L’appellante, da un lato, ha rilevato che le trattenute erano state effettuate dalla Cassa sulla base del Regolamento del 2004 che era già in vigore al momento del pensionamento della ricorrente e che quindi la Cassa aveva il potere di emanare in base al principio del pro rata; dall’altro lato, l’appellante ha evidenziato che le disposizioni regolamentari che hanno introdotto il contributo di solidarietà costituiscono disposizioni idonee a derogare alle norme di legge vigenti in forza dell’autonomia conferita agli enti dal d.lg.s n. 509 del 1994, richiamando recenti pronunce della Suprema Corte sul punto, e che, in ogni caso, il Tribunale aveva sbagliato laddove non aveva ritenuto legittime le trattenute operate quantomeno a partire dal 2011, ossia dopo l’entrata in vigore dell’art. 24 comma 24 del D.L. n. 201 del 2011 che, a suo dire, aveva conferito alle casse previdenziali il potere di introdurre provvedimenti come il contributo di solidarietà.

Da ultimo, è stata censurata la sentenza per avere applicato la prescrizione decennale anche con riguardo alle trattenute operate sulla pensione della ricorrente.

Si è tempestivamente costituita l’appellata la quale ha domandato la reiezione dell’appello per infondatezza e chiesto la riforma della sentenza nella parte in cui non era stato specificato che i coefficienti da applicare nella determinazione della base pensionabile erano, rispettivamente, del 2 e dell’0,60%.

All’odierna udienza, previo scambio e deposito ad opera delle parti di note scritte ai sensi dell’art. 221 comma 4 del D.L. 34/2020, conv. in L. 77/2020, la causa è stata decisa con sentenza il cui dispositivo è stato depositato in via telematica

MOTIVI DELLA DECISIONE

Va premesso che YYY è stata ammessa a godere della pensione di vecchiaia dall’1.08.2004.

La stessa ha affermato l’illegittimità del conteggio della pensione effettuato dalla CNPADC sulla base delle disposizioni del Regolamento di disciplina del regime previdenziale della Cassa del 2004 e ne ha domandato in giudizio la condanna, previa disapplicazione delle disposizioni regolamentari illegittime, al ricalcolo del trattamento pensionistico secondo la normativa previgente di cui agli art.li 2 e 15 L. n. 21 del 1986 e del Regolamento di disciplina del regime previdenziale della Cassa invocando il principio del pro rata.

Il Tribunale, come sopra detto, ha accolto la tesi difensiva della ricorrente accertando il diritto della medesima di percepire la quota retributiva della pensione nella misura risultante dall’applicazione della normativa previgente più favorevole e ha condannato la Cassa al relativo ricalcolo nonché alla corresponsione della differenza tra la pensione frutto del corretto ricalcolo e quella erogata, nei limiti della prescrizione decennale.

Tanto premesso, ritiene il Collegio che tutte le doglianze sollevate dall’appellante in relazione al calcolo del trattamento pensionistico e alla determinazione della base reddituale di riferimento per il conteggio della pensione possano essere tratte congiuntamente per ragioni di opportunità ed economicità di giudizio.

Come esposto in premessa, la CNPADC ha lamentato la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 3, co.12 e dell’art. 1, commi 17 e 18 della L. n. 335/1995 per avere la sentenza disatteso le considerazioni svolte dalla Cassa circa la correttezza del calcolo della pensione dell’appellata.

Va precisato che il Tribunale, seguendo l’impostazione della difesa della ricorrente, ha ritenuto che la pensione dovesse essere calcolata prendendo come reddito di riferimento la media dei migliori 10 redditi dichiarati dall’iscritta negli ultimi 15 anni anteriori alla maturazione del diritto a pensione ai sensi dell’art. 2, comma 2 della L. 21/86, i cui criteri erano stati poi recepiti dalla Cassa nel Regolamento approvato con D.I. del 31.07.1990.

La Cassa, invece, ha criticato tale decisione ritenendo corretta la liquidazione della pensione dalla stessa operata con riferimento ai criteri introdotti dall’art. 1 comma 17 e 18 della L. n. 335/1995, ossia prendendo come riferimento i redditi degli ultimi quindici anni precedenti la maturazione del diritto a pensione.

La Corte, invero, condivide la motivazione della sentenza nella parte in cui, al fine di delineare il quadro normativo e le coordinate ermeneutiche di riferimento, è stato valorizzato, innanzitutto, il fatto che la ricorrente ha maturato il diritto a pensione nell’agosto 2004, ciò consentendo di richiamare la giurisprudenza consolidata di legittimità sul tema che, distinguendo le pensioni maturate prima dell’1.01.2007 da quelle maturate dopo tale data, ha affermato i seguenti principi : “A) nel regime dettato dalla l. 8.08.95 n. 335, art. 1, c. 12 (di riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), prima delle modifiche apportare dalla I. 27.12.06 n. 296 (legge finanziaria 2007), art. 1, c. 763, alla disposizione dell’art. 3, c. 12 della legge di riforma, e quindi con riferimento alle prestazioni pensionistiche maturate prima del 1° gennaio 2007, la garanzia costituita dal principio c.d. del pro rata – il cui rispetto è prescritto per gli enti previdenziali privatizzati ex d.lgs. 30.06.94 n. 509, quale è la Cassa nazionale di previdenza ed assistenza a favore dei ragionieri e periti commerciali, nei provvedimenti di variazione delle aliquote contributive, di riparametrazione dei coefficienti di rendimento o di ogni altro criterio di determinazione del trattamento pensionistico, in termini peggiorativi per gli assicurati, in modo che siano salvaguardate le anzianità già maturate rispetto alla introduzione delle modifiche derivanti dai provvedimenti suddetti – ha carattere generale e trova applicazione anche in riferimento alle modifiche in peius dei criteri di calcolo della quota retributiva della pensione e non già unicamente con riguardo alla salvaguardia, ratione temporis, del criterio retributivo rispetto al criterio contributivo introdotto dalla normativa regolamentare degli enti suddetti. Pertanto con riferimento alle modifiche regolamentari adottate dalla Cassa nazionale di previdenza ed assistenza a favore dei ragionieri e periti commerciali (delibere 22.06.02, 7.06.03 e 20.12.03), che, nel complesso, hanno introdotto il criterio contributivo distinguendo, per gli assicurati al momento della modifica regolamentare, la quota A di pensione, calcolata con il criterio retributivo, e la quota B, calcolata con il criterio contributivo, opera – per il calcolo della quota A dei trattamenti pensionistici liquidati fino al 31 dicembre 2006 – il principio del pro rata e quindi trova applicazione il previgente più favorevole criterio di calcolo della pensione. B) Invece per i trattamenti pensionistici maturati a partire dal 1° gennaio 2007 trova applicazione il medesimo art. 3, comma 12, della I. n. 335 del 1995, ma nella formulazione introdotta dal citato L. n. 296 del 2006, art. 1, c. 763, che prevede che gli enti previdenziali suddetti emettano i provvedimenti necessari per la salvaguardia dell’equilibrio finanziario di lungo termine, “avendo presente” – e non più rispettando in modo assoluto – il principio del pro rata in relazione alle anzianità già maturate rispetto alla introduzione delle modifiche derivanti dai provvedimenti suddetti e comunque tenendo conto dei criteri di gradualità e di equità fra generazioni, con espressa salvezza degli atti e delle deliberazioni in materia previdenziale già adottati dagli enti medesimi ed approvati dai Ministeri vigilanti prima della data di entrata in vigore della legge n. 296 del 2006 Tali atti e deliberazioni, in ragione della disposizione qualificata di interpretazione autentica recata dalla l. 27.12.13 n. 147, art. 1, c. 488 (disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge di stabilità 2014), si intendono legittimi ed efficaci a condizione che siano finalizzati ad assicurare l’equilibrio finanziano di lungo nel rispetto della citata normativa regolamentare interna (delibere 22.06.02, 7.06.03 e 20.11.03)” (sent. Cass. Sez .Un. n. 17742 e n. 18136 del 2015).

E’ sulla scorta di tali principi, dunque, che va affermata, per inciso, l’inapplicabilità al caso specifico delle disposizioni del Regolamento di disciplina approvato dalla Cassa appellante con D.I. del luglio 2004 che ha introdotto a decorrere dall’1 gennaio 2005 modiche peggiorative rispetto al sistema di liquidazione previgente, le quali, nella necessità del rigoroso rispetto del principio del pro rata temporis, non possono essere applicate per il calcolo del trattamento pensionistico dell’appellata, relativo alle annualità precedenti alla maturazione del diritto a pensione nell’agosto del 2004.

Ciò detto, diversamente da quanto deciso dal Tribunale, la Corte ritiene che la pensione maturata dall’appellata non possa essere calcolata sulla base dei parametri stabiliti dall’art. 2, comma 2 L. n. 21/86, recepiti successivamente dal Regolamento della Cassa approvato con D.I. del 21.07.1990, che individuavano il reddito da prendere in considerazione per il calcolo della pensione nella media dei migliori 10 redditi degli ultimi 15 anni.

Non è condivisibile, in particolare, la sentenza nella parte in cui afferma che detti criteri, siccome più favorevoli rispetto a quello applicato dalla Cassa, che pacificamente ha considerato i redditi degli ultimi quindici anni e non la media dei migliori 10 redditi degli ultimi 15 anni, dovrebbero trovare applicazione preferenziale in forza del principio del pro rata.

La disciplina invocata dalla ricorrente e applicata nella sentenza, infatti, non era più in vigore alla data della maturazione del diritto a pensione nell’agosto del 2004 in quanto, come noto, era nel frattempo intervenuta la L. n. 335 del 1995 recante la riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare, la quale ha previsto che per gli iscritti all’Assicurazione generale obbligatoria ed alle forme sostitutive ed esclusive della stessa la pensione fosse determinata con il sistema contributivo (art. 1, c. 6), salvo poi stabilire per coloro che alla data del 31.12.95 vantavano un’anzianità contributiva inferiore a 18 anni l’adozione di un sistema misto articolato nella quota retributiva “determinata secondo il sistema retributivo previgente” e nella quota contributiva “sulla base dell’anzianità contributiva maturata successivamente”.

Dunque, al momento della maturazione della ricorrente del diritto a pensione nel 2004 il sistema di calcolo della pensione retributivo previsto dalla L. n. 21/86 era stato da tempo abbandonato cedendo il passo al nuovo sistema contributivo e, comunque, alla complessiva regolamentazione del sistema pensionistico adottata dalla L. 335/95, contenente specifiche disposizioni volte ad assicurare il passaggio da un sistema all’altro secondo criteri di gradualità e di equità fra generazioni.

Ne consegue che, proprio avendo presente il principio del pro rata, che impone di vagliare la legittimità degli atti e dei provvedimenti adottati dalle casse alla luce della normativa vigente al momento in cui è maturato il diritto a pensione, il calcolo della pensione spettante all’appellata nel caso specifico dev’essere effettuato secondo i criteri enunciati dalla L. 335/1995 applicabile ratione temporis e non secondo quelli della normativa previgente.

Ebbene, l’art. 3, comma 12, della L. 335/95, sia nella formulazione originaria sia in quella modificata con l’art. 1, co. 763, L .296/2006, prevede che: “12. Nel rispetto dei princìpi di autonomia affermati dal decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 509, relativo agli enti previdenziali privatizzati, allo scopo di assicurare l’equilibrio di bilancio in attuazione di quanto previsto dall’art. 2, comma 2, del predetto decreto legislativo, la stabilità delle rispettive gestioni è da ricondursi ad un arco temporale non inferiore a 15 anni. In esito alle risultanze e in attuazione di quanto disposto dall’art. 2, comma 2, del predetto decreto, sono adottati dagli enti medesimi provvedimenti di variazione delle aliquote contributive, di riparametrazione dei coefficienti di rendimento o di ogni altro criterio di determinazione del trattamento pensionistico nel rispetto del principio del pro rata in relazione alle anzianità già maturate rispetto alla introduzione delle modifiche derivanti dai provvedimenti suddetti. Nei regimi pensionistici gestiti dai predetti enti, il periodo di riferimento per la determinazione della base pensionabile è definito, ove inferiore, secondo i criteri fissati all’art. 1, comma 17, per gli enti che gestiscono forme di previdenza sostitutive e al medesimo art. 1, comma 18, per gli altri enti.”

L’art. 1, co. 18, L. n. 335/1995, applicabile nei confronti della CNPADC in quanto ente previdenziale privatizzato diverso da quelli che gestiscono forme di previdenza sostitutive, stabilisce che: “Per i lavoratori autonomi iscritti all’INPS che al 31 dicembre 1992 abbiano avuto un’anzianità contributiva pari o superiore ai 15 anni, gli incrementi di cui al comma 17 ai fini della determinazione della base pensionabile trovano applicazione nella stessa misura e con la medesima decorrenza e modalità di computo ivi previste, entro il limite delle ultime 780 settimane di contribuzione antecedenti la decorrenza della pensione”.

Secondo il sistema delineato dalla L. 335/95, dunque, il periodo di riferimento per la determinazione della base pensionabile ai sensi dell’art. 1 comma 18 incontra il limite massimo di 780 settimane, che, tenuto conto di un numero di 52 settimane all’anno, è pari a quindici anni.

La normativa di cui alla L. 335/1995, inoltre, che per la sua formulazione letterale, era ed è auto-applicativa a far data dal 1.01.1996, è stata recepita dalla Cassa con la Delibera del C.d.A. del 8-9.05.1997, che ha modificato l’art. 3 Regolamento di disciplina del Regime previdenziale del 1990, aumentando gradualmente a partire dall’1.01.1996 da 10 a 15 anni la base reddituale di riferimento per il calcolo retributivo della pensione (più precisamente la considerazione dei migliori 10, 11, 12, 13, 14 e 15 redditi risultanti dalle dichiarazioni presentate negli ultimi 15 anni precedenti a quello di maturazione del diritto a pensione), con la seguente progressione: elevando agli 11 anni la base di calcolo per le pensioni liquidate con decorrenza dal 1.01.1998, a 12 anni per quelle dal 1.01.1999, a 13 anni dal 1.01.2001, a 14 anni dal 1.01.2002, a 15 anni dal 1.01.2004.

Ebbene, l’attestazione della Cassa del calcolo della pensione di vecchia anticipata, prodotta nel primo grado del giudizio, conferma che la Cassa ha seguito proprio i criteri dalla stessa illustrati, conformi a quelli enunciati dalla legislazione vigente all’epoca della maturazione del diritto a pensione e al regolamento del 1997 che l’ha recepita; dal prospetto risulta, infatti, che a fronte di 37 anni di anzianità contributiva la base di riferimento per il calcolo della pensione dell’appellata è stata determinata considerando il reddito medio, rivalutato, degli ultimi quindici anni antecedenti alla maturazione del diritto alla pensione dell’appellata.

In conclusione, posto che il calcolo della pensione effettuato dall’appellante risulta corretto, la sentenza va riformata sul punto con conseguente reiezione delle domande della ricorrente finalizzate a conseguire la riliquidazione della pensione.

Il secondo motivo di appello, relativo al contributo di solidarietà, va accolto nei limiti che seguono.

La questione oggetto di causa è stata risolta dalla Corte di Cassazione con una serie di recenti sentenze (Cass. 31875/18; 20/19; 180/19; 423/19; 603/19; 982/19; 2018/19) di contenuto pressoché identico, che hanno confermato l’orientamento già seguito dal Tribunale.

In particolare, la sentenza n. 31875/18 che ha rigettato il ricorso proposto dalla CNPADC ha affermato: «Appare opportuno indicare la base giuridica ed il parametro di legittimità cui rapportare l’art 22 del Regolamento, entrato in vigore dal 10 gennaio 2004 e che ha introdotto il contributo di solidarietà, partendo dal processo di delegificazione, che ha presso le mosse dalla legge delega n. 537 del 1993, e dalla conseguente individuazione dei poteri regolamentari della Cassa.

11. A riguardo va ricordato che:

a) il Governo è stato delegato (con la L n 537/19993 art b1, commi 32 e 33, lett. a), punto 4, Interventi correttivi di finanza pubblica) – per quel che qui interessa – “ad emanare (…)uno o più decreti legislativi diretti a riordinare (o sopprimere) enti pubblici di previdenza e assistenza”, attenendosi, tra l’altro, al principio e criterio direttivo seguente: “privatizzazione degli enti stessi, nelle forme dell’associazione o della fondazione, con garanzie di autonomia gestionale, organizzativa, amministrativa e contabile, ferme restandone le finalità istitutive e l’obbligatoria iscrizione e contribuzione agli stessi degli appartenenti alle categorie di personale a favore dei quali essi risultano istituiti”.

b) il D.Lgs. 30 giugno 1994, n. 509, in attuazione della delega conferita dalla L. 24 dicembre 1993, n. 537, ha ribadito che le Casse privatizzate “hanno autonomia gestionale, organizzativa e contabile nel rispetto dei princìpi stabiliti dal presente articolo nei limiti fissati dalle disposizioni del presente decreto in relazione alla natura pubblica dell’attività svolta e che” la gestione economicofinanziaria deve assicurare l’equilibrio di bilancio mediante l’adozione di provvedimenti coerenti alle indicazioni risultanti dal bilancio tecnico da redigersi con periodicità almeno triennale”. Per far ciò l’art. 1, comma 4, in combinato disposto con l’art. 2, comma 2, e art. 3, comma 2, del predetto decreto legislativo, ha previsto un potere regolamentare delle Casse non incompatibile con il sistema delle fonti potendo la fonte primaria costituita dal decreto legislativo autorizzare una fonte subprimaria (il Regolamento della Cassa approvato con decreto ministeriale) ad introdurre norme generali ed astratte ed a tal proposito si è parlato di “sostanziale delegificazione affidata dalla legge alla autonomia degli enti previdenziali privatizzati, entro i limiti ad essa imposti (cfr. Cassa 16 novembre 2009, n. 24202) e si è aggiunto “anche in deroga a disposizioni di legge precedenti”.

c) Tali disposizioni del d.lgs. n. 509 cit., non hanno, peraltro, attribuito agli emanandi regolamenti delle Casse la configurazione di regolamenti di delegificazione di cui alla L. n. 400 del 1988, art. 17, comma 2 (che indica i regolamenti di delegificazione come quelli “destinati a sostituire, in materie non coperte da riserva assoluta di legge, preesistenti disposizioni legislative statali, in conformità a nuove norme generali regolatrici della materia stabilite con legge, e con effetto di abrogazione differita delle disposizioni legislative sostituite”) sicché ad essi – e, quindi, anche all’emanando Regolamento della Cassa di previdenza ragionieri – non è stato consentito di derogare a disposizioni collocate a livello primario, quali sono quelle dettate proprio per le Casse “privatizzate”, a cominciare dalla L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 12, che ha natura di norma imperativa inderogabile dall’autonomia normativa delle Casse privatizzate.

d) Quest’ultima disposizione (legge n. 335 del 1995 art 3, comma 12, Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare) – che nella sua formulazione anteriore alla modifica introdotta dalla legge n. 296 del 2006, costituisce base giuridica e parametro di legittimità della norma regolamentare in esame – sancisce testualmente: «Nel rispetto dei principi di autonomia affermati dal d.lgs. n 509 del 1994, relativo agli enti previdenziali privatizzati, allo scopo di assicurare l’equilibrio di bilancio in attuazione di quanto previsto dall’art. 2, comma 2, del predetto decreto legislativo, la stabilità delle rispettive gestioni è da ricondursi ad un arco temporale non inferiore a 15 anni. In esito alle risultanze e in attuazione di quanto disposto dall’art. 2, comma 2, del predetto decreto, sono adottati dagli enti medesimi provvedimenti di variazione delle aliquote contributive, di riparametrazione dei coefficienti di rendimento o di ogni altro criterio di determinazione del trattamento pensionistico nel rispetto del principio del pro rata in relazione alle anzianità già maturate rispetto alla introduzione delle modifiche derivanti dai provvedimenti suddetti. Nei regimi pensionistici gestiti dai predetti enti, il periodo di riferimento per la determinazione della base pensionabile è definito, ove inferiore, secondo i criteri fissati all’art. 1, comma 17, per gli enti che gestiscono forme di previdenza sostitutive e al medesimo art. 1, comma 18, per gli altri enti. Ai fini dell’accesso ai pensionamenti anticipati di anzianità, trovano applicazione le disposizioni di cui all’art. 1, commi 25 e 26, per gli enti che gestiscono forme di previdenza sostitutive, e al medesimo art. 1, comma 28, per gli altri enti. Gli enti possono optare per l’adozione del sistema contributivo definito ai sensi della presente legge».

La norma, quindi, richiama le disposizioni di cui al d.lgs. n 509 del 1994 art 2 cit., spec. commi 1 e 2), ribadendone i principi di autonomia e lo scopo di assicurare l’equilibrio di bilancio degli enti previdenziali privatizzati. In coerenza con le indicazioni risultanti dal bilancio tecnico (funzionali alla garanzia di stabilità delle gestioni, da ricondursi ad un arco temporale non inferiore a 15 anni), poi, gli stessi enti risultano contestualmente abilitati ad adottare – “nel rispetto del principio del pro rata, in relazione alle anzianità già maturate” – provvedimenti di “variazione delle aliquote contributive, di riparametrazione dei coefficienti di rendimento o di ogni altro criterio di determinazione del trattamento pensionistico”.

e) da quanto sopra esposto risulta, pertanto una sostanziale delegificazione – affidata dalla legge alla autonomia degli enti previdenziali privatizzati, entro i limiti ad essa imposti per la disciplina, tra l’altro, del rapporto contributivo e del rapporto previdenziale concernente le prestazioni a carico degli stessi enti – anche in deroga a disposizioni di legge precedenti.

Al pari delle disposizioni di legge nelle stesse materie gli atti di delegificazione – adottati dagli enti, entro i limiti della propria autonomia sono soggetti, altresì, a limiti costituzionali. Coerentemente, il sindacato giurisdizionale – su tali atti di delegificazione investe il rispetto, da un lato, dei limiti imposti alla autonomia degli enti dal quale dipende la loro idoneità a realizzare l’effetto perseguito, di abrogare, appunto, o derogare disposizioni di legge e, dall’altro, dei limiti costituzionali, in funzione della (eventuale) caducazione degli atti medesimi (art 1418 e 1324 cc), per contrasto con norme imperative. Lo stesso sindacato giurisdizionale circa il rispetto dei limiti imposti all’autonomia degli enti, appunto, e dei limiti costituzionali – investe (anche) gli atti di delegificazione, posti in essere dagli enti sulla base della legislazione successiva. Ciò premesso, va rilevato che questa Corte ha esposto con riferimento a fattispecie analoga relativa la stessa Cassa commercialisti (Cassa n. 25212 del 2009 ) che l’autonomia degli stessi enti, tuttavia, incontra un limite fondamentale, imposto dalla stessa disposizione che la prevede (ossia dal predetto d.lgs n. 509 del 1994, art. 2), la quale definisce espressamente i tipi di provvedimento da adottare, identificati, appunto, in base al loro contenuto (“variazione delle aliquote contributive, di riparametrazione dei coefficienti di rendimento o di ogni altro criterio di determinazione del trattamento pensionistico nel rispetto del principio del pro rata in relazione alle anzianità già maturate rispetto alla introduzione delle modifiche derivanti dai provvedimenti suddetti”). Esula, tuttavia, dal novero (una sorta di numerus clausus) degli stessi provvedimenti – e risulta incompatibile, peraltro, con il “rispetto del principio del pro rata qualsiasi provvedimento degli enti previdenziali privatizzati (quale, nella specie, l’art. 22 del Regolamento di disciplina del regime previdenziale), che introduca a prescindere dal “criterio di determinazione del trattamento pensionistico” la previsione di una trattenuta a titolo di “contributo di solidarietà” sui trattamenti pensioni già quantificati ed attribuiti. Ed invero sul punto deve evidenziarsi che l’imposizione di un “contributo di solidarietà” sui trattamenti pensionistici già in atto non integra, all’evidenza, ne’ una “variazione delle aliquote contributive”, ne’ una “riparametrazione dei coefficienti di rendimento”. La previsione relativa intende riferirsi, infatti, a tutti i provvedimenti, che al pari di quelli specificamente identificati nominativamente (di “variazione delle aliquote contributive”, appunto, e di “riparametrazione dei coefficienti di rendimento”) – incidano su “ogni altro criterio di determinazione del trattamento pensionistico”. Ne esula, quindi, qualsiasi provvedimento, che – lungi dall’incidere sui criteri di determinazione del trattamento pensionistico da adottarsi nel rispetto o tenuto conto del principio del pro rata, ai sensi delle successive formulazioni dell’art 3, comma 12, l. n 335 del 1995 e finalizzato al solo riequilibrio finanziario rispetto ai limiti di stabilità imposti dalla legge – imponga una trattenuta su detto trattamento già determinato, in base ai criteri ad esso applicabili, quale limite esterno della sua misura.

Né a diverse conclusioni e dunque alla legittimità della trattenuta, si può giungere attraverso il richiamo alla legge n. 296 del 2006 di modifica dell’art 3, comma 12, legge n. 335 del 1995, in quanto detta norma incide sul sistema del pro rata che è estraneo alla tematica del contributo di solidarietà. La citata sopravvenuta normativa non può, pertanto essere intesa nel senso preteso dalla Cassa, di fonte del potere di introdurre prestazioni patrimoniali a carico dei pensionati, quale è il contributo di solidarietà.

Quanto alla disposizione di cui all’art 1 comma 488 della legge n. 147 del 2013, qualificata come di interpretazione autentica – secondo cui: «L’ultimo periodo della L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, comma 763, si interpreta nel senso che gli atti e le deliberazioni in materia previdenziale adottati dagli enti di cui al medesimo comma 763 ed approvati dai Ministeri vigilanti prima della data di entrata in vigore della L. 27 dicembre 2006, n. 296, si intendono legittimi ed efficaci a condizione che siano finalizzati ad assicurare l’equilibrio finanziario di lungo termine», va rilevato che questa Corte (cfr. Cass.n. 6702 del 2016, ord. n. 7568 del 2017) ha già affermato che «quest’ultimo intervento legislativo non incide sulla soluzione della presente questione, dal momento che la norma in esame pone come condizione di legittimità degli atti che essi siano finalizzati ad assicurare l’equilibrio finanziario a lungo termine, mentre sicuramente tale finalità non rappresenta un connotato del contributo straordinario di solidarietà, proprio perché di carattere provvisorio e limitato nel tempo, cosi come affermato dalla stessa ricorrente».

Va ulteriormente considerato che, comunque, non può prescindersi dalla considerazione che la norma di cui all’ultimo periodo dell’art 1, comma 763, legge 27 dicembre 2006, n. 296, non può che riguardare i provvedimenti che hanno inciso sui criteri di determinazione del trattamento pensionistico dei professionisti iscritti alla Cassa e non già la materia che esula dai poteri delle Casse, quale quella in esame.

Appare utile, al fine di confermare l’estraneità del contributo di solidarietà ai criteri di determinazione del trattamento pensionistico e conseguentemente anche al principio del necessario rispetto del pro rata, richiamare, altresì, la recente sentenza della Corte Costituzionale n 173/2016 che, nel valutare l’analogo prelievo disposto dall’art 1, comma 486, legge n. 147 del 2013, ha affermato che si è in presenza di un «prelievo inquadrabile nel genus delle prestazioni patrimoniali imposte per legge, di cui all’art. 23 Cost., avente la finalità di contribuire agli oneri finanziari del sistema previdenziale (sentenza n. 178 del 2000; ordinanza n. 22 del 2003)». Sulla base delle considerazioni che precedono deve concludersi nel senso che esula dai poteri riconosciuti dalla normativa la possibilità per le Casse di emanare un contributo di solidarietà in quanto, come si è detto, esso, al di là del suo nome, non può essere ricondotto ad un «criterio di determinazione del trattamento pensionistico», ma costituisce un prelievo che può essere introdotto solo dal legislatore. Le ragioni che hanno indotto questa Corte a ritenere che tra i poteri della Cassa non vi sia anche quello di applicare ai pensionati un contributo di solidarietà consente di escludere che la citata e recente sentenza della Corte Costituzionale, che ha concluso per la legittimità costituzionale dell’art 1 comma 486 della legge finanziaria del 2014 (ritenendo sussistere “sia pur al limite”, rispettate nel caso dell’intervento legislativo in esame” le condizioni dalla Corte enunciate per la legittimità dell’intervento quali operare all’interno del complessivo sistema della previdenza; essere imposto dalla crisi contingente e grave del predetto sistema; incidere sulle pensioni più elevate (in rapporto alle pensioni minime); presentarsi come prelievo sostenibile; rispettare il principio di proporzionalità; essere comunque utilizzato come misura una tantum”) possa incidere sulle conclusioni qui assunte”.

Tal orientamento è stato ribadito anche nel corso del 2020 (v., Cass. 28054/20) e del 2021 (Cass. 32385/21; 32461/21; 35469/21; Cass. 36618/21; Cass. 41320/21) con una serie di sentenze le quali hanno ribadito ancora una volta il principio secondo cui gli enti previdenziali privatizzati (tra i quali la Cassa odierna appallante) non possono adottare, sia pure in funzione dell’obbiettivo di assicurare l’equilibrio di bilancio e la stabilità della gestione, atti o provvedimenti che, lungi dall’incidere sui criteri di determinazione del trattamento pensionistico, impongano un contributo di solidarietà su un trattamento che sia già determinato in base ai criteri ad esso applicabili, «dovendosi ritenere che tali atti siano incompatibili con il rispetto del principio del “pro rata” e diano luogo a un prelievo inquadrabile nel “genus” delle prestazioni patrimoniali ex art. 23 Cost., la cui imposizione è riservata al legislatore».

Le considerazioni che precedono e, in particolare, la circostanza che il contributo di solidarietà è logicamente incompatibile con il principio del pro rata (che costituisce pur sempre il criterio cui si deve adeguare qualsiasi misura rientrante nell’art. 3, co. 12, L. 335/1995) e costituisce un prelievo che può essere introdotto solo dal legislatore, consentono di affermare l’irrilevanza del fatto che nel caso di specie il trattamento pensionistico è stato maturato successivamente (agosto 2004) all’introduzione del contributo di solidarietà da parte della Cassa.

Pertanto, in base al complesso delle considerazioni sino a qui svolte risultano senz’altro infondate le richieste avanzate dalla Cassa di accertare la legittimità delle trattenute per l’intero periodo di causa o, quantomeno, a partire dal 2011 alla luce dell’art. 24, co. 24, DL 201/2011, conv. in L. 214/2011, norma che, a dire della Cassa appellante, introducendo la previsione per le Casse privatizzate di un contributo di solidarietà per gli anni 2012 e 2013, avrebbe “confermato”, per così dire legittimandolo indirettamente, il (diverso) contributo adottato autonomamente dalla Cassa in via regolamentare.

Sebbene, poi, la questione risulti in pratica assorbita dalla decisione in tema di prescrizione oggetto di ulteriore motivo di appello (v. infra), appare in teoria fondata la richiesta, basata sulla diretta applicazione dell’art. 24, co. 24, DL 201/2011, conv. in L. 214/2011, volta a fare accertare la legittimità del contributo di solidarietà nella misura dell’1% per gli anni 2012 e 2013.

Il comma 24 del citato art. 24 recita: «In considerazione dell’esigenza di assicurare l’equilibrio finanziario delle rispettive gestioni in conformità alle disposizioni di cui al decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 509, e al decreto legislativo 10 febbraio 1996, n. 103, gli enti e le forme gestorie di cui ai predetti decreti adottano, nell’esercizio della loro autonomia gestionale, entro e non oltre il 30 settembre 2012, misure volte ad assicurare l’equilibrio tra entrate contributive e spesa per prestazioni pensionistiche secondo bilanci tecnici riferiti ad un arco temporale di cinquanta anni. Le delibere in materia sono sottoposte all’approvazione dei Ministeri vigilanti secondo le disposizioni di cui ai predetti decreti; essi si esprimono in modo definitivo entro trenta giorni dalla ricezione di tali delibere. Decorso il termine del 30 settembre 2012 senza l’adozione dei previsti provvedimenti, ovvero nel caso di parere negativo dei Ministeri vigilanti, si applicano, con decorrenza dal 1° gennaio 2012:

a) le disposizioni di cui al comma 2 del presente articolo sull’applicazione del pro-rata agli iscritti alle relative gestioni;

b) un contributo di solidarietà, per gli anni 2012 e 2013, a carico dei pensionati nella misura dell’1 per cento».

La situazione della Cassa che si vede dichiarare illegittimo il contributo di solidarietà autonomamente stabilito in via regolamentare equivale a quella dell’ente che sia rimasto inerte o che non abbia ricevuto l’approvazione ministeriale della delibera. La Cassa appellante, in sostanza, si trova nella stessa situazione che comporta l’applicazione ex lege di un contributo di solidarietà dell’1% per gli anni 2012 e 2013 e in questi termini la richiesta della Cassa appare dunque teoricamente fondata. Ed invero, il contributo di solidarietà previsto dalla suddetta lett. b) risulta essere un contributo minimo e obbligatorio che, in ogni caso, deve essere applicato dalla Cassa al fine di assicurare l’equilibrio finanziario della gestione.

Tanto precisato, è fondato il rilievo con cui l’appellante censura la decisione del Tribunale nella parte in cui la Cassa è stata condannata alla restituzione delle somme trattenute a titolo di solidarietà nei limiti della prescrizione decennale in luogo di quella quinquennale.

E’ opportuno precisare che, come emerge dal conteggio prodotto dalla pensionata, il periodo di causa va da gennaio 2009 a marzo 2020. Durante tale periodo la Cassa, nel liquidare il rateo mensile di pensione, ha applicato sull’importo di pensione a suo tempo liquidato una trattenuta a titolo di contributo di solidarietà, ponendo in pagamento una somma inferiore al dovuto.

Questa Corte conosce la giurisprudenza, anche di legittimità, che, richiamando Cass., Sez. un. 1772/15, afferma che la domanda di accertamento della illegittimità del contributo di solidarietà e condanna al pagamento di quanto a tale titolo trattenuto è soggetta al termine di prescrizione decennale.

In particolare, occorre considerare che Cass., Sez. un. 1772/15 (pronunciando su un caso in cui il titolare di pensione erogata dalla Cassa dei Ragionieri e Periti commerciali aveva contestato la liquidazione della pensione effettuata sulla base della delibera 28.6.1997 della Cassa), ha affermato che la prescrizione non poteva essere quinquennale perché: – l’art. 2948, n. 4, cod. civ. è applicabile solo ai trattamenti pensionistici (di solito di carattere integrativo) aventi natura negoziale (v., ad es., quelli erogati ai dipendenti degli istituti di credito) e non ai rapporti assicurativi che (come quello oggetto di causa) hanno natura obbligatoria; – inoltre, l’applicazione dell’art. 2948, n. 4, cod. civ., allo stesso modo che l’art. 129 del RDL n. 1827/1935 (secondo cui «le rate di pensione non riscosse entro cinque anni dal giorno della loro scadenza sono prescritte a favore dell’Istituto»), richiede che il credito sia “pagabile”, ossia messo a disposizione del creditore, che deve essere posto nella condizione di poterlo riscuotere, situazione non rinvenibile nel caso in cui l’ente applichi una trattenuta illegittima.

Non si intende qui contraddire i suddetti argomenti (ancorché residui qualche perplessità: nessuno, infatti, dubita che in caso di trattenute illegittime operate sulla busta paga dal datore di lavoro o comunque di pretese differenze retributive, il relativo credito del lavoratore per far valere la differenza retributiva è soggetto alla prescrizione breve ex art. 2948, n. 4, c.c.; inoltre l’applicazione dell’art. 129 RDL cit. alla fattispecie comporta che in caso di mancata riscossione da parte del pensionato di ratei di pensione posti in pagamento in misura ridotta a causa di una illegittima trattenuta, la prescrizione è quinquennale per il rateo “pagabile” e decennale per la trattenuta). Ma si vuole osservare che rispetto al caso affrontato da Cass., Sez. Un., n. 17742/15 la situazione è, ratione temporis, diversa, venendo in rilievo l’applicabilità dell’art. 47-bis DPR 639/1970, norma introdotta dall’art. 38 del D.L. 6.7.2011, conv. in L. 111/2011 ed entrata in vigore il 6.7.2011 (e per questo non considerata dalle Sez. un. del 2015).

L’art. 47-bis (superando il disposto dell’art. 129 RDL 1827 del 1935) recita: «Si prescrivono in cinque anni i ratei arretrati, ancorché non liquidati e dovuti a seguito di pronunzia giudiziale dichiarativa del relativo diritto, dei trattamenti pensionistici, nonché delle prestazioni della gestione di cui all’articolo 24 della legge 9 marzo 1989, n. 88, o delle relative differenze dovute a seguito di riliquidazioni».

Non vi è dubbio che la disposizione dell’art. 47-bis (come quella dell’art. 129 RDL 1827 del 1935) si riferisca ai trattamenti pensionistici erogati dall’INPS. Tuttavia deve ritenersi che essa, in quanto espressione di una regola applicabile ai trattamenti pensionistici obbligatori, sia applicabile anche alla Cassa appellante.

Occorre infatti considerare che l’iscrizione alla Cassa appellante ha natura obbligatoria come avviene per l’iscrizione all’INPS. Inoltre, occorre considerare che, in forza della legge 335/1995, che nell’ambito di un processo di riforma e armonizzazione ha dettato i principi generali della previdenza obbligatoria, la materia della prescrizione dei contributi è già regolata con l’applicazione del termine breve: l’art. 3, co. 9, della legge prevede, infatti, che a decorrere dall’1.1.1996 si prescrivono nel termine di 5 anni le contribuzioni di pertinenza del Fondo pensioni lavoratori dipendenti «e delle altre gestioni pensionistiche obbligatorie». Non vi è quindi dubbio che la Cassa appellante, al pari dell’INPS, non possa pretendere né ricevere il pagamento di contributi scaduti da oltre 5 anni, avendo tale disciplina carattere pubblicistico.

Ora, considerata la medesima natura obbligatoria dei trattamenti pensionistici erogati da INPS e dalla Cassa appellante, la soggezione di entrambi i regimi pensionistici ai medesimi principi generali stabiliti dalla Legge 335/1995, l’applicabilità della medesima disciplina in materia di prescrizione breve dei contributi, non appare ragionevole ritenere che in tema di prescrizione dei ratei e di differenze di rateo debba, all’opposto, applicarsi ai pensionati della Cassa il termine di prescrizione ordinario mentre ai pensionati INPS debba applicarsi il termine di prescrizione breve ex art. 47-bis DPR 639/1970.

Ed invero, nel confronto delle due situazioni non si rinvengono elementi di diversità tali da giustificare un trattamento differente e una diversa soluzione comporterebbe una disparità di trattamento di situazioni uguali, che appare ingiustificata e irragionevole.

Per evitare simili conseguenze si impone quindi un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 47-bis DPR 639/1970, nel senso di ritenere la norma espressione di una regola di sistema che, avuto riguardo alla medesima natura di iscrizione obbligatoria, deve applicarsi anche ai trattamenti pensionistici erogati dalla Cassa appellante.

Del resto, in passato, la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha mostrato di considerare l’art. 129 RDL n. 1827 del 1932 come norma suscettibile di applicazione analogica (v. Cass. 9771/12; Cass. 8484/03; Cass. 81/02) e, in fondo, la stessa Cass., Sez. un., n. 17742/15, pur non contenendo una simile affermazione, ha però considerato, sia pure al fine di escluderla per difetto del requisito della “pagabilità” del credito, l’applicabilità alla Cassa di Previdenza dei Ragionieri della prescrizione breve prevista proprio dal citato art. 129. Insomma: la stesse Sez. un del 2015 hanno considerato l’applicabilità alle Casse privatizzate dell’art. 129 RDL 1827 del 1935 e l’hanno esclusa, non per ragioni di carattere sistematico come fatto per l’art. 2948, n. 4, c.c. (ad es. affermando che l’art. 129 è applicabile solo ai trattamenti pensionistici erogati dall’INPS e non anche a quelli obbligatori erogati da enti diversi), ma solo per difetto del requisito della “pagabilità” del credito.

In definitiva, considerato lo jus superveniens costituito dall’art. 47-bis, entrato in vigore il 6.7.2011, deve ritenersi che sino al mese di luglio 2011 la prescrizione applicabile alla fattispecie era decennale e che da luglio 2011 è divenuta quinquennale.

Alla luce delle considerazioni sino a qui svolte deve quindi affermarsi il principio secondo cui ai ratei di pensione erogati dalla Cassa appellante da luglio 2011 in avanti, ossia dopo l’entrata in vigore dell’art. 47-bis DPR 639/1970, si applica il termine di prescrizione breve, a nulla rilevando che essi, per la parte corrispondente alla trattenuta per il contributo di solidarietà, non siano “pagabili”.

Quindi, tenuto conto che il primo atto interruttivo risale al 8.06.2020 (data di notifica del ricorso), ne consegue che la Cassa è obbligata a restituire quanto trattenuto a titolo di contributo di solidarietà, maggiorato degli interessi legali, nel periodo da giugno

2010 a luglio 2011 e nel periodo da giugno 2015 a marzo 2020.

In tal senso va quindi riformata la sentenza appellata.

Circa da ultimo la domanda dell’appellato di applicazione dei coefficienti del 2 e dello 0,6% nella riliquidazione del trattamento pensionistico la stessa non dev’essere esaminata in quanto assorbita dall’accoglimento dell’appello della CPADC in tema di calcolo della pensione.

La reciproca parziale soccombenza, unita alla natura delle questioni, la cui oggettiva difficoltà integra una ragione analoga a quelle gravi ed eccezionali previste dall’art. 92 cpv. c.p.c. (cfr. Corte cost. 77/2018), sono circostanze che giustificano la compensazione delle spese di lite di entrambi i gradi di giudizio.

PQM

-in parziale riforma della sentenza n. 200/2021 del Tribunale di Bergamo Sezione Lavoro :

1) respinge la domanda di riliquidazione della pensione della ricorrente;

2) condanna la Cassa appellante a restituire all’appellata le somme, maggiorate degli interessi legali, trattenute a titolo di contributo di solidarietà nei periodi dal giugno 2010 a luglio 2011 e da giugno 2015 a marzo 2020;

-compensa le spese di entrambi i gradi di giudizio.

Brescia, 17 febbraio 2022

Il Consigliere est.

Il Presidente

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