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Fatto volto a negare il licenziamento, dimissioni

Fatto volto a negare il licenziamento (dimissioni o mutuo consenso), eccezione in senso stretto che non può essere rilevata d’ufficio dal giudice.

Pubblicato il 19 December 2020 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE DI ROMA
SEZIONE LAVORO – PRIMO GRADO 3^

IL GIUDICE, Dott., quale giudice del lavoro, all’udienza del 11 dicembre 2020 ha pronunciato la seguente

SENTENZA n. 8576/2020 pubblicata il 11/12/2020

nelle cause iscritte ai nn. e /2020 R.G e vertenti

TRA

XXX E YYY elettivamente domiciliati in, presso lo Studio dell’Avv. che li rappresentano e difendono per procura in atti.

                                                                                                        RICORRENTE

E

ZZZ SRLS

RESISTENTE CONTUMACE

FATTO E DIRITTO

Con distinti ricorsi iscritti il 17.2.2020 e successivamente riuniti YYY e XXX hanno convenuto in giudizio la ZZZ srls e la *** per sentir accogliere le seguenti conclusioni: a) accertare l’esistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo pieno ed indeterminato intercorso tra le parti del presente giudizio dal 1.11.2019 al 31.05.2020 come descritto in narrativa; b) accertare e dichiarare l’inefficacia e/o nullità e/o illegittimità del licenziamento intimato oralmente …..in data 01.06.2020 e, per l’effetto, condannare la ZZZ S.r.l.s., in persona del legale rappresentante pro tempore nonché amministratore unico Sig.ra ***, elett.te domiciliata per la carica presso la sede legale sita in, e ivi residente alla Via, all’immediata reintegrazione …. nel posto di lavoro precedentemente occupato ed alla ricostituzione ex tunc del rapporto di lavoro ai sensi dell’art. 18 della L. n. 300/1970, come modificato dal D. Lgs. 23/2015, con le medesime mansioni, qualifiche e scatti di anzianità conseguiti al momento del licenziamento nonché al pagamento in suo favore – anche a titolo di risarcimento danni – di una somma pari, o comunque commisurata, alle mensilità maturate e maturande dalla data del licenziamento (1.06.2020) fino a quella della effettiva reintegra, considerato che l’ultima retribuzione dovuta ammonta ad € 1.336,73 parametrata su 13 mensilità, oltre al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quella di effettiva reintegra, maggiorata; IN OGNI CASO, E PER L’EFFETTO c) condannare – in solido, individualmente o pro quota ex art. 29, comma 2 del D.Lgs. 276/2003 – anche con riferimento alla legge 92/2012 e successive modifiche, la ZZZ SRLS in persona del legale rappresentante pro-tempore, nonché amministratore unico, come meglio esposto in epigrafe, e la *** in persona del suo presidente l.r.p.t., al pagamento in favore di YYY della somma di € 3.746,25 (€ 7.692,70 in favore invece del XXX) a titolo di differenze retributive, o di quella maggiore o minore somma che risulterà dovuta in corso di causa anche in relazione al combinato disposto degli artt.2099 cod. civ, e 36 Cost. liquidando la somma dovuta alla parte ricorrente, se del caso, con valutazione equitativa e/o previa CTU contabile, a mente dell’art.432 cod. proc. civ., ed ai titoli di cui in diritto e all’allegato conteggio; d) con interessi legali e rivalutazione monetaria come per legge; e) predisporre nelle more del procedimento condanna provvisionale ex art. 423 c.p.c. Con riserva di agire in separato giudizio per i relativi contributi assicurativi. Con vittoria di spese, competenze ed onorari da distrarsi a favore dei procuratori antistatari.”

Gli stessi ricorrenti hanno però successivamente rinunciato a proseguire il giudizio nei confronti della ***, società nel frattempo cancellata.

La ZZZ srls non si è costituita e ne è stata dichiarata la contumacia. Interrogate le parti ricorrenti, e assunta prova testimoniale, all’odierna udienza la causa è stata infine decisa come da dispositivo letto in udienza e da contestuale sentenza depositata telematicamente.

****

Occorre premettere che si è in presenza di due rapporti di lavoro provati per tabulas risultando dagli atti (contratto d’assunzione, buste paga e estratto contributivo ecc.) che i ricorrenti sono stati assunti con decorrenza dal 6.11.2019 (7.11.2019 il XXX) dalla ZZZ srls per svolgere le loro mansioni di addetti alle pulizie di II livello ex CCNL Pulizia-Artigianato (v., quanto all’inquadramento del XXX, busta paga di febbraio 2020) in formale regime di part-time, per 9 ore settimanali (YYY) e per 24 ore settimanali (il XXX), all’interno della Palestra denominata *** sita in, alla ove la ZZZ Srls aveva in gestione l’appalto delle pulizie dei locali della suddetta palestra.

Dalla stessa documentazione prodotta emerge che i contratti sono stati stipulati a Roma ed emerge pure la prosecuzione ininterrotta di dette prestazioni, anche se sono state consegnate le buste paga sino al mese di aprile del 2020.

Tuttavia, entrambi i ricorrenti sostengono di avere iniziato a lavorare qualche giorno prima della formale assunzione, già in data 1.11.2019 e di avere inoltre osservato un orario ben più lungo,la YYY di 21 ore settimanali, osservando delle turnazioni prestabilite dal datore di lavoro nelle seguenti fasce orarie: dalle 22,30 alle 1,30 dal lunedì al sabato ed il XXX di 40 ore settimanali, osservando delle turnazioni prestabilite dal datore di lavoro nelle seguenti fasce orarie: dalle 16,00 alle 20,00 e poi dalle 22,30 alle 1,30 dal lunedì al venerdì, il sabato dalle 9,40 alle 11,50.

Tali circostanze sono state confermate dai testi escussi, *** e soprattutto, quanto all’inizio delle prestazioni già il 1.1.2019, *** ,  con la conseguenza che risultano meritevoli di accoglimento anche le pretese in punto lavoro straordinario (lavoro domenicale per la YYY) e notturno, con la relativa maggiorazione.

Ne consegue pure che il trattamento economico e retributivo dei ricorrenti, che sono stati pagati sino al mese di marzo, e cioè fino all’inizio della pandemia dovuta al Covid (c.d. “lockdown”), deve essere ricalcolato alla luce delle predette risultanze istruttorie.

****

I ricorrenti sostengono poi di essere stati licenziati verbalmente in data 1.6.2020 dal sig. *** che avrebbe detto loro di andarsene perchè di lavoro non ce ne sarebbe più stato, in coincidenza con la perdita dell’appalto di via del.

Si tratta in realtà di una circostanza che risulta già dalla lettera del 26.6.2020 inviata dalla ZZZ srl ad entrambi i ricorrenti (doc. n. 10 di entrambi i fascicoli) .

In ogni caso, per quanto concerne l’onere della prova nella materia,a partire da Cass. n. 2853 del 1995, si è evidenziato che nel sistema di regolazione dei licenziamenti individuali “il fatto costitutivo del diritto alla riassunzione e poi alla reintegrazione, secondo le variazioni della L. n. 300 del 1970, è’ un fatto – il licenziamento appunto – attribuibile alla sola iniziativa del datore di lavoro, alla quale non corrisponde una identica iniziativa del lavoratore“. Da tale rilievo ne è scaturito l’assunto, poi sintetizzato nella massima, secondo cui: “la prova gravante sul lavoratore che domandi la reintegrazione nel posto di lavoro è quella della estromissione dal rapporto, mentre la controdeduzione di un fatto che nega il licenziamento e collega la estromissione dal rapporto ad asserite dimissioni del lavoratore assume la valenza di una eccezione in senso stretto, il cui onere probatorio ricade sull’eccipiente ai sensi dell’articolo 2697 c.c., comma 2″.Nella parte motiva della decisione si spiega come debba essere intesa l’asimmetria rilevata dalla Corte circa l’iniziativa del recesso che conduce al pur comune effetto della “estromissione” dal rapporto lavorativo e che si sviluppa sul piano della prova. Si sottolinea che “quando comunque il materiale probatorio sia stato raccolto, la valutazione dei possibili significati della prova deve essere compiuta quantomeno con specifica attenzione alla peculiarità delle facoltà attribuite ai contraenti e ai poteri attribuiti al datore di lavoro”; “in special modo l’indagine del giudice del merito deve essere rigorosa, data la gravità delle relative conseguenze in relazione a beni giuridici che formano oggetto di tutela privilegiata da parte dell’ordinamento, quando si tratti di stabilire il significato di una dichiarazione o di un comportamento cui si assegni valore negoziale di recesso del lavoratore (cosiddette dimissioni), in tal caso dovendosi stabilire, attraverso l’interpretazione dell’atto di recesso e la valutazione dei comportamenti in concreto osservati dal lavoratore, che da parte sua sia stata manifestata in modo univoco l’incondizionata volontà di porre fine al rapporto e che tale volontà sia stata idoneamente comunicata alla controparte”.

Questo principio fondato sulla contrapposizione tra “prova della estromissione” gravante sul lavoratore e “prova delle dimissioni” quale eccezione in senso stretto di pertinenza datoriale è stato confermato in numerose sentenze successive (tra le altre: Cass. n. 4717 del 2000; Cass. n. 14977 del 2000; Cass. n. 14082 del 2010; Cass. n. 21684 del 2011;Cass. n. 610 del 2015; Cass. n. 25847 del 2018).

Si è così affermato che “la prova gravante sul lavoratore – che chieda giudizialmente la declaratoria di illegittimità dell’estinzione del rapporto – riguarda esclusivamente la cessazione del rapporto lavorativo cioè la estromissione del lavoratore dal luogo di lavoro”, atteso che il licenziamento “costituisce un atto unilaterale di recesso con cui una parte dichiara all’altra la sua volontà di estinguere il rapporto e che, quindi, non può che essere comprovato da chi abbia manifestato tale volontà di recedere, non potendo la parte (la quale abbia subito il recesso) provare una circostanza attinente alla sfera volitiva del recedente”, per cui “deve confermarsi che l’onere della prova del licenziamento grava sul datore di lavoro” (in termini: Cass. n. 10651 del 2005, ma v. pure Cass. n. 7614 del 2005; Cass. n. 5918 del 2005; Cass. n. 22852 del 2004; Cass. n. 2414 del 2004).

All’orientamento che ritiene sufficiente per il lavoratore che impugna il licenziamento orale la prova della “cessazione” del rapporto lavorativo si sono adeguate successive decisioni (v. Cass. n. 18087 del 2007; Cass. n. 155 del 2009; più di recente Cass. n. 14202/2018).

Tale orientamento appare pienamente condivisibile anche se è doveroso ricordare che altre sentenze hanno espresso un diverso orientamento.

Con la precisazione che, nell’ipotesi in cui sia pacifico tra le parti il fatto dell’estinzione del rapporto di lavoro a seguito di un licenziamento, controvertendosi solo del quomodo della forma del licenziamento, il datore di lavoro è tenuto a dimostrare i requisiti di forma e di efficacia del licenziamento (cfr. Cass. n. 5061 del 2016; Cass. n. 3822 del 2019).

Alla fine il lavoratore deve dimostrare, con ogni mezzo di prova, comprese le presunzioni, l’esistenza di una “risoluzione a iniziativa datoriale” e cioè che l’allontanamento dall’attività lavorativa non è il frutto di una propria scelta, bensì di una scelta del datore di lavoro, anche se realizzata con comportamenti concludenti.

I ricorsi appaiono allora fondati, senza che possano rilevare in alcun modo le ragioni del licenziamento mai comunicato per iscritto.

Infine, secondo i principi generali, il rapporto di lavoro prosegue fino all’intervento di una valida ed efficace causa estintiva, quasi sempre costituita dal licenziamento o dalle dimissioni.

Ma di certo i ricorrenti non hanno mai manifestato alcuna volontà di dimettersi e hanno invece impugnato il licenziamento verbale con la lettera del 5.6.2020 in atti (doc. 7 di entrambi i fascicoli) e poi con il presente giudizio.

Una volontà chiarissima.

Deve ritenersi allora provata la circostanza che il rapporto di lavoro è cessato di fatto necessariamente per precisa volontà del datore di lavoro manifestata espressamente “verbis”, e cioè senza la forma scritta “ad substantiam“.

Non si vede infatti come il giudice potrebbe individuare nella fattispecie una diversa ipotesi risolutiva (dimissioni espresse o mutuo consenso), peraltro nemmeno dedotta dalla società resistente, alla luce del principio di tassatività delle cause estintive del rapporto di lavoro più volte ribadito dalla giurisprudenza della Suprema Corte (ad es. Cass. n. 12942 del 22/11/99 e più di recente Cass. n.16507/2013 secondo la quale nemmeno all’assenza ingiustificata per più di tre giorni può essere attribuito il valore delle dimissioni per facta concludentia, con conseguente risoluzione del rapporto di lavoro, nonché Cass. n. 1025 del 21 gennaio 2015).

Peraltro, la Suprema Corte (Cass. n. 16507/2013 citata) distinguendo in maniera netta tra dimissioni per fatti concludenti ed assenza ingiustificata protratta oltre un certo termine ha pure chiarito che l’assenza ingiustificata, quale causa di risoluzione del rapporto di lavoro, può essere prevista – dalla contrattazione collettiva o individuale – solo come sanzione disciplinare, necessariamente preceduta, pertanto, dalle garanzie procedimentali dell’art. 7, l. n. 300/70.L’assenza ingiustificata per oltre tre giorni non equivale a dimissioni e semmai può costituire giusta causa di licenziamento, a condizione che vengano rispettate le citate garanzie procedimentali.

La Corte ha pure affermato che la controdeduzione del datore di lavoro di un fatto volto a negare il licenziamento (dimissioni o mutuo consenso) costituisce eccezione in senso stretto che non può essere rilevata d’ufficio dal giudice (Cass. 4717 del 12/4/2000; Cass. n. 7614 del 13.4.2005; Cass. n. 10651 del 20 maggio 2005; Cass. n. 10733 del 16 maggio 2011; Cass. n. 4241 del 3/3/2015).

Questi principi generali hanno indotto la Corte a censurare quelle motivazioni dei giudici di merito che trascurando il 2° comma dell’art. 2697 codice civile (secondo il quale è a carico dell’eccipiente la prova dei fatti modificativi o estintivi del diritto fatto valere dall’attore) finiscono per valorizzare l’ipotesi delle dimissioni solo sulla base della presunta insufficienza della prova del licenziamento (Cass. n. 7839 del 8/6/2000 e Cass. n. 8481 del 28/5/2003): pertanto a fronte di una specifica presa di posizione del lavoratore che impugni con raccomandata il licenziamento verbale a breve distanza dallo stesso, come nel caso di specie, è onere del datore di lavoro dimostrare che la cessazione del rapporto di lavoro era in realtà effetto di una inequivoca manifestazione di volontà del dipendente (vedi anche Cass. n. 2162/2000, Cass. n. 5975 del 18/3/2005; Cass. n. 19236 del 21/9/2011; Cass. n.8927 del 5/5/2015).

Ma la società convenuta non ha fornito questa prova.

In nessun modo, insomma, si possono configurare nella fattispecie le dimissioni, che comunque avrebbero dovuto essere convalidate secondo la legge vigente, ed è invece certo che la ZZZ srls, pur non avendo mai intimato alcun “formale” licenziamento con la richiesta forma scritta ad substantiam, non ha alcuna intenzione di ripristinare i rapporti di lavoro.

Nella stessa lettera del 15.6.2020 (cambio d’indirizzo di lavoro, v. doc. 8 per entrambi i ricorrenti) la società si limita a prospettare la possibilità di una ripresa del servizio con una prestazione  unilateralmente ridotta rispetto alle stesse condizioni contrattuali e presso una diversa sede,affermazione, peraltro, smentita nella successiva lettera di 10 giorni dopo (comunicazione di inoltro richiesta seconda cassa integrazione, v. doc. 10), dove, alla fine del secondo capoverso,si legge senza possibilità di equivoci “(…) in quanto al momento non abbiamo posti di lavoro da offrirle (…)”.

E’ evidente quindi che la volontà di non proseguire il rapporto proviene proprio dal datore di lavoro e in ciò si sostanzia la nozione di licenziamento verbale.

Per quanto concerne le conseguenze del licenziamento verbale si applicano analogamente principi largamente consolidati, come numerose volte confermati dalla Suprema Corte:”Il licenziamento intimato oralmente deve ritenersi giuridicamente inesistente e come tale, da un lato, non richiede un’impugnazione nel termine di decadenza di cui all’art. 6 della legge n. 604 del 1966, e, dall’altro, non incide sulla continuità del rapporto di lavoro e quindi sul diritto del lavoratore alla retribuzione fino alla riammissione in servizio (Cass., 29 novembre 1996, n. 10697). Tale opzione ermeneutica va mantenuta ferma anche a seguito della riforma del citato art. 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, per effetto dell’art. 32 della legge n. 183/2010, il quale fissa il dies a quo del termine di sessanta giorni dalla ricezione della comunicazione del licenziamento “in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anche se in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto anche extragiudiziale …”. Ne consegue che, in caso di licenziamento orale, mancando l’atto scritto da cui il legislatore del 2010, con espressa previsione, fa decorrere il termine di decadenza, il lavoratore può agire per far valere l’inefficacia dei licenziamento senza l’onere della previa impugnativa stragiudiziale del licenziamento stesso” (così, Cass. n. 22825 del 9/11/2015). Principi che restano validi nel regime di cui alla legge Fornero. Infatti, a norma dell’art. 1, comma 42 della legge 92/2012: “All’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, sono apportate le seguenti modificazioni: a) la rubrica è sostituita dalla seguente: «Tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo»; b) i commi dal primo al sesto sono sostituiti dai seguenti: «Il giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento perchè discriminatorio ai sensi dell’articolo 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108, ovvero intimato in concomitanza col matrimonio ai sensi dell’articolo 35 del codice delle pari opportunità tra uomo e donna, di cui al decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198, o in violazione dei divieti di licenziamento di cui all’articolo 54, commi 1, 6, 7 e 9, del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, e successive modificazioni, ovvero perchè riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’articolo 1345 del codice civile, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro. La presente disposizione si applica anche ai dirigenti. A seguito dell’ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall’invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l’indennità di cui al terzo comma del presente articolo. Il regime di cui al presente articolo si applica anche al licenziamento dichiarato inefficace perchè intimato in forma orale. Il giudice, con la sentenza di cui al primo comma, condanna altresì il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata la nullità, stabilendo a tal fine un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato inoltre, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali…”

E, per ciò che rileva nel presente giudizio, anche con la nuova disciplina di cui al D.lgs. n. 23/2015: “Il giudice, con la  pronuncia con la quale dichiara  la  nullità del licenziamento perchè discriminatorio a  norma  dell’articolo  15 della legge 20 maggio  1970,  n.  300,  e  successive  modificazioni,ovvero  perchè   riconducibile   agli   altri   casi   di   nullità espressamente previsti dalla  legge,  ordina  al  datore  di  lavoro,imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto.  A seguito dell’ordine di  reintegrazione,  il  rapporto  di  lavoro  si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall’invito del datore di lavoro, salvo il caso in  cui abbia richiesto l’indennità di cui al comma 3. Il regime di  cui  al presente  articolo  si  applica  anche  al  licenziamento  dichiarato inefficace perchè intimato in forma orale.   2. Con la pronuncia di cui al comma 1, il giudice condanna altresì il datore di lavoro al risarcimento del danno subito  dal  lavoratore per il licenziamento  di  cui  sia  stata  accertata  la  nullità  e l’inefficacia,  stabilendo  a  tal  fine  un’indennità  commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di  fine  rapporto,  corrispondente  al  periodo   dal   giorno   del licenziamento sino a quello  dell’effettiva  reintegrazione,  dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso la misura  del  risarcimento non  potrà  essere  inferiore  a   cinque   mensilità   dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del  trattamento  di  fine rapporto. Il  datore  di  lavoro  è  condannato,  altresì,  per  il medesimo  periodo,  al  versamento  dei  contributi  previdenziali  e assistenziali.   3. Fermo  restando  il  diritto  al  risarcimento  del  danno  come previsto al comma 2, al lavoratore è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel  posto  di lavoro,  un’indennità  pari  a   quindici   mensilità   dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del  trattamento di  fine rapporto, la cui richiesta determina la risoluzione del  rapporto  di lavoro, e che non è assoggettata a contribuzione  previdenziale.  La richiesta dell’indennità deve essere effettuata entro trenta  giorni dalla comunicazione del deposito della pronuncia  o  dall’invito  del datore di lavoro a riprendere servizio, se  anteriore  alla  predetta comunicazione. 4. La disciplina di cui al  presente  articolo  trova  applicazione anche  nelle  ipotesi  in  cui  il  giudice  accerta  il  difetto  di giustificazione per motivo consistente  nella  disabilità  fisica  o psichica del lavoratore, anche ai sensi degli articoli 4, comma 4,  e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68″.

In conclusione, se il licenziamento è inefficace perchè intimato verbalmente, non importa per quale ragione, i ricorrenti hanno comunque diritto ad essere reintegrati nel posto di lavoro a prescindere dal c.d. “requisito dimensionale” e a percepire un’indennità commisurata all’ultima retribuzione  di riferimento per il calcolo del tfr maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, detratto l’eventuale aliunde perceptum, per un complessivo importo in ogni caso non inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro dovrà inoltre, per il medesimo periodo, versare i contributi previdenziali e assistenziali.

****

Quanto poi ai conteggi, giova ricordare che, in presenza di un rapporto di lavoro subordinato, il datore di lavoro ha l’onere di provare di avere correttamente retribuito il lavoratore ex art. 36 Costituzione alla luce di un parametro che, in mancanza di sicure altre indicazioni, non può che essere rappresentato dal c.c.n.l. di settore e dalle relative tabelle per ciascun livello (nel caso di specie il II) in base all’orario osservato e a quanto effettivamente percepito.

E la determinazione dell’equa retribuzione ex art. 36 Costituzione è correttamente effettuata alla luce dei livelli tabellari della contrattazione collettiva di settore ove le parti non abbiano fornito parametri di altra natura e muniti di sicura attendibilità (Cass n. 12872 del 16/12/95; Cass. n.14791 del 4/6/2008 ecc.).

Ciò in quanto “La retribuzione proporzionata prescritta dalla norma costituzionale è, nella normalità dei casi, quella fissata dalle parti sociali contrapposte nella contrattazione collettiva” (Cass. n. 896 del 17/1/2011).

Ancora: “il contratto collettivo, in quanto norma formulata, in condizioni che garantiscono la formazione del libero consenso, dalle stesse parti che sono immerse nella realtà da disciplinare, è il più adeguato parametro per determinare il contenuto del diritto alla retribuzione; è stato così osservato che questa generale oggettiva adeguatezza fa si che ove il giudice, al fine di determinare la giusta retribuzione, intenda discostarsi dal parametro della norma collettiva, ha l’onere di fornire opportuna motivazione” (cfr, Cass. n. 5519/2004).

Il giudice è tenuto, anche d’ufficio, a determinare la c. d. “equa retribuzione” e il lavoratore è tenuto soltanto a provare l’entità della retribuzione percepita e non l’insufficienza (Cass. n. 8095 del 4/6/2002; Cass. n. 17250 del 28/8/2004; Cass. n. 14688/2008).

In altre parole il lavoratore deve solo allegare gli estremi che consentano la valutazione della prestazione (Cass. n. 23064 del 5/11/2007).

Con la precisazione che nel concetto di retribuzione adeguata rientra sempre la tredicesima mensilità, di cui pertanto il giudice deve tener conto ai fini della determinazione delle differenze dovute, atteso il carattere generalizzato di tale istituto (cfr., Cass. n. 24092 del 13 novembre 2009; Cass. n. 2144 del 3 febbraio 2005).

Nel caso di specie, rispetto alle somme ancora dovute, tutte voci previste inderogabilmente dalla legge (e dalla contrattazione collettiva di settore, la prova del pagamento gravante sul datore di lavoro (o quella inerente l’eventuale esistenza di cause capaci di esonerare dalla relativa obbligazione contrattuale) non è stata data dalla convenuta e i conteggi appaiono del tutto corretti, non prestandosi ad alcuna censura, che comunque manca.

Tuttavia dal conteggio vanno detratte le somme richieste a titolo di indennità di mancato preavviso e di tfr incompatibili con la prosecuzione del rapporto di lavoro conseguente ad un licenziamento verbale.

Alla YYY è dovuta quindi la somma di € 3.195,25 (€ 3.334,06 – € 138,81 richiesta per indennità sostitutiva del preavviso) mentre al XXX è dovuta la somma di €  6.485,59 (€  6.794,07 – €   308,48 per preavviso).

Per le esposte ragioni i ricorsi meritano, in questi limiti, accoglimento.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

definitivamente pronunciando:

dichiara l’esistenza tra ciascuno dei ricorrenti e la ZZZ srls di un rapporto di lavoro subordinato a far tempo dal 1.11.2019; per l’effetto condanna la ZZZ srls a pagare, per i titoli di cui ai ricorsi, a YYY la somma di € 3.195,25 e a XXX  la somma di € 6.485,59 oltre rivalutazione ed interessi come per legge; dichiara l’inefficacia del licenziamento verbale intimato ai ricorrenti il 1.6.2020 e condanna la ZZZ srls a reintegrare i medesimi nel posto di lavoro e a corrispondere loro una indennità pari a tutte le retribuzioni utili ai fini del calcolo del tfr maturate dal dì del recesso sino alla effettiva reintegra (ultima retribuzione utile ai fini del calcolo del tfr  = €1.336,73), con il versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali come per legge;   condanna la ZZZ srls a rifondere alle stesse parti attrici le spese di lite liquidate in euro 5000,00 per compensi, oltre spese generali (15%)  IVA e CPA, da distrarsi.

Roma 11.12.2020

 Il Giudice

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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Prima dell'appuntamento: analisi del caso prospettato. Si tratta della fase più delicata, perché dalla esatta comprensione del caso sottoposto dipendono il corretto inquadramento giuridico dello stesso, la ricerca del materiale e la soluzione finale.

Durante l’appuntamento: disponibilità all’ascolto e capacità a tenere distinti i dati essenziali del caso dalle componenti psicologiche ed emozionali.

Al termine dell’appuntamento: ti verranno forniti gli elementi di valutazione necessari e i suggerimenti opportuni al fine di porre in essere azioni consapevoli a seguito di un apprezzamento riflessivo di rischi e vantaggi. Il contenuto della prestazione di consulenza stragiudiziale comprende, difatti, il preciso dovere di informare compiutamente il cliente di ogni rischio di causa. A detto obbligo di informazione, si accompagnano specifici doveri di dissuasione e di sollecitazione.

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