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Licenziamento collettivo per riduzione di personale

Licenziamento collettivo per riduzione di personale, progetto di ristrutturazione aziendale riferito in modo esclusivo ad un’unità produttiva.

Pubblicato il 30 April 2020 in Diritto Civile, Giurisprudenza Civile

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Corte Di Appello di Roma
II SEZIONE LAVORO

La Corte nelle persone dei seguenti magistrati

nella causa civile di reclamo ex art. 1, comma 58, L. n. 92 del 2012, iscritta al n. r.g. /2019 promossa

da

XXX, YYY, ZZZ, KKK, JJJ, PPP, QQQ, SSS, HHH, FFF, ZZZ, TTT, GGG, BBB elettivamente domiciliati in rappresentati dagli Avv.ti

parti reclamanti

contro

RRR SPA

elett. dom. in rappresentata dall’Avv.

parte reclamata

a scioglimento della riserva espressa all’udienza del 21.4.2020 ha pronunciato la seguente

SENTENZA n. 973/2020 pubbl. il 27/04/2020

Oggetto: reclamo avverso la sentenza del Tribunale di Roma, Giudice del Lavoro, n. /2019 pubblicata il 13.5.2019.

Conclusioni: come da scritti difensivi in atti

Con ricorso ex art. 1 comma 58, legge n. 92/2012 depositato in data 11.6.2019 le parti in epigrafe proponevano reclamo avverso la sentenza emessa in data 13.5.2019 con cui il Tribunale di Roma, in funzione di giudice del lavoro, aveva rigettato l’opposizione all’ordinanza con la quale era stato respinto il ricorso degli odierni reclamanti per la declaratoria dell’illegittimità del licenziamento intimato da RRR S.p.A., all’esito della procedura di riduzione collettiva di personale, con domanda di reintegra e condanna della società al pagamento di una indennità risarcitoria commisurata alla retribuzione globale di fatto dal licenziamento alla reintegra, detratto l’eventuale aliunde perceptum, oltre interessi, rivalutazione e versamento dei contributi.

Le parti reclamanti contestavano le argomentazioni del Tribunale e chiedevano, quindi, in riforma dell’impugnata sentenza, l’accoglimento delle domande.

La società si costituiva deducendo la infondatezza del reclamo e chiedendone il rigetto.

All’udienza del 21.4.2020, dichiarata con provvedimento del 9.4.2020, l’urgenza del procedimento, ai sensi dell’art. 83, comma 3, lett. a) parte finale, del decreto legge n. 18/2020, e disposta la sostituzione dell’udienza pubblica del 21.4.2020 con il deposito di note scritte, la Corte si è riservata la decisione.

Motivi della decisione

All’esame dei motivi del reclamo è opportuno premettere una sintetica ricostruzione della vicenda e del contesto in cui la stessa si colloca, quale emersa dalle prospettazioni delle parti e dalla documentazione prodotta in atti.

In ragione della grave crisi di mercato, del calo di fatturato e dell’incremento delle perdite descritti dalla società, con comunicazione del 21.3.2016 RRR s.p.a. ha avviato una procedura di riduzione del personale ai sensi della legge n. 223/1991, per 2.988 lavoratori dislocati presso le sedi di Palermo, Roma e Napoli.

Tale procedura era stata preceduta da una procedura di riduzione di personale in data 18.12.2015, ma era stata subito revocata, a seguito di accordo sindacale in pari data con cui si erano concordati, in alternativa, contratti di solidarietà per tutte le sedi sino al 31.5.2016.

Con accordo sindacale del 31.5.2016 la procedura di licenziamento collettivo del 21.3.2016 è stata revocata.

Con successiva comunicazione del 5.10.2016 la società, deducendo l’aggravamento della crisi di mercato, il peggioramento dei risultati operativi relativi e la mancata attuazione delle misure previste nella precedente intesa del maggio 2016, avviava una successiva procedura di licenziamento collettivo, in cui era presentato un nuovo progetto di riorganizzazione, che prevedeva la chiusura – a partire dalla seconda metà del mese di dicembre del 2016, dopo la scadenza del contratto di solidarietà attivato a maggio – delle Divisioni 1 e 2 del sito di e dell’intera unità produttiva di, con il conseguente esubero di personale pari a 2.511 lavoratori (*** interessata da 1.666 persone, *** da 845 persone).

Tale scelta era giustificata dal volume ormai insostenibile delle perdite riportate nei predetti centri (tra giugno e ottobre del 2016, i due siti riportavano perdite medie mensili pari a € 785.000-Roma ed € 288.000-Napoli).

Il nuovo piano organizzativo prevedeva nella sede romana il mantenimento della Business Unit, presso la quale “erano adibiti nn. 10 lavoratori subordinati in posizione di staff centrale ed assistenti di sala (oltre ad un team variabile di collaboratori coordinati e continuativi)” e della Direzione Centrale, perché operante a favore dell’intero complesso aziendale.

Si precisava da subito che l’applicazione dei criteri di scelta sarebbe avvenuta “comparando il personale operante con profilo equivalente all’interno di ciascuno dei siti produttivi interessati dagli esuberi (Roma e Napoli), in ragione della totale chiusura delle Divisioni 1 e 2 (per quanto riguarda Roma) e dell’intero sito (per quanto riguarda Napoli).

La successiva trattativa sindacale ha avuto inizialmente esito negativo ed in data 21.12.2016 si è svolto l’incontro con la parte pubblica, conclusosi nelle prime ore del successivo 22 dicembre con un verbale sottoscritto da tutte le parti – ad eccezione della RSU di Roma – che prevedeva una moratoria sino al 31.3.2017 dei licenziamenti sull’unità napoletana e l’immediato recesso dal rapporto di lavoro con i lavoratori addetti alle Divisioni 1 e 2 della sede romana.

Con lettera del 22.12.2016 gli odierni reclamanti sono stati licenziati – a far tempo dal 30.12.2016 – e con nota del 29.12.2016 la società ha inoltrato ai soggetti competenti la comunicazione di cui al comma 9 dell’art. 4 legge n. 223/1991.

Con il ricorso in opposizione i reclamanti, impiegati di IV e V livello ccnl telecomunicazioni addetti all’Ufficio del personale e in parte addetti all’Ufficio gestione operativa, la BBB con inquadramento nel livello quadri e mansioni di business manager, avevano sostenuto la illegittimità dei licenziamenti deducendo: Vizi della procedura per le seguenti ragioni:

– mancanza di indicazione nella lettera di apertura della mobilità in ordine ai “motivi tecnici, organizzativi o produttivi” per cui la società non poteva ridurre il numero degli esuberi tramite alcuni trasferimenti, in considerazione della scopertura di organico in altre sedi, dandosi atto che la possibilità di proporre ad un certo numero di dipendenti il preventivo trasferimento sia potenzialmente una misura idonea ad evitare almeno in parte la dichiarazione di mobilità e sussistendo, per la società che non intenda avvalersene, l’obbligo di indicarne le ragioni;

conclusione della procedura dopo lo spirare del termine massimo fissato dal comma 6 dell’art. 4 legge 223 /1991 a norma del quale “la procedura di cui al comma 5 deve essere esaurita entro quarantacinque giorni dalla data del ricevimento della comunicazione dell’impresa” e del successivo comma 7 il quale prevede che qualora non sia stato raggiunto l’accordo la successiva fase in sede amministrativa “deve comunque esaurirsi entro trenta giorni dal ricevimento da parte dell’Ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione della comunicazione dell’impresa prevista al comma 6”;

-Violazione dei criteri di scelta per le seguenti ragioni: illegittimità della scelta unilaterale della società di limitare l’applicazione dei criteri di scelta all’unità produttiva di Roma, in mancanza di un accordo sindacale, e sebbene nel verbale del 22.12.2016 al punto 12) fosse stato dichiarato che la società “tenuto conto della mancata condivisione da parte delle RSU della sede di Roma dei contenuti della presente intesa, procederà alla gestione dei relativi esuberi dichiarati nella comunicazione di avvio mediante l’applicazione, per la medesima unità produttiva, dei criteri di scelta legali”;

– illegittimità dei licenziamenti per violazione dell’art. 5, commi 1^ e 3^, nonché dell’art. 4, comma 9^, l. 223/91 in relazione all’ambito di applicazione dei criteri di scelta, atteso che, dopo la graduatoria dei lavoratori in esubero in base ai punteggi attribuiti, il licenziamento aveva riguardato tutti i lavoratori, a prescindere dal punteggio, tranne alcuni casi di sospensione del licenziamento per una temporanea non licenziabilità, e quindi nel caso in esame, di tutti gli addetti e dei team leader senza comparazione con altri addetti con pari mansioni di altre sedi ( in particolare delle sedi di Palermo, Catania, Rende, Milano e Napoli con minore anzianità e minori carichi di famiglia dei ricorrenti);

-fungibilità della posizione dei lavoratori licenziati, sia per inquadramento contrattuale che mansioni, con gli addetti all’ufficio del personale della sede di Roma e delle altre sedi; inapplicabilità ai ricorrenti delle ragioni addotte dalla società- che riguardano gli operatori telefonici- per affermare la legittimità della limitazione del ballottaggio alla sola sede di Roma;

-sussistenza di un motivo illecito e/o discriminatorio determinante il recesso, in quanto disposto in ragione del rifiuto della locale RSU di proseguire il confronto sulla materia dei tagli retributivi fino al 31.3.2017.

Il giudice della opposizione ha ritenuto, sulla base dell’esame della comunicazione del 5.10.2016, che la stessa fosse completa sotto tutti gli aspetti e idonea a porre le organizzazioni sindacali e i lavoratori in grado di comprendere pienamente i motivi che hanno determinato le scelte operate da RRR, anche con riferimento alle ragioni, specificamente poste dagli opponenti, che non avevano consentito di optare per la diversa ed invocata soluzione dei trasferimenti, e a consentire altresì di verificare la posizione dei lavoratori interessati alla mobilità. In particolare, il primo giudice, premesso che la funzione della procedura di cui all’art. 4 della legge n. 223 del 1991 è quella di consentire il controllo della effettività della scelta e che la sufficienza dei contenuti della comunicazione preventiva di cui all’art. 4, comma 3, della legge 23 luglio 1991, n. 223 deve essere valutata in relazione ai motivi della riduzione di personale, che restano comunque sottratti al controllo giurisdizionale, ha valutato anche che, nella comunicazione, si era dato stato dato ampio conto dell’evoluzione della situazione economica con riferimento ai vari siti, giustificando così la decisione di trasferire le attività da Roma e Napoli ad altre sedi e di individuare Palermo quale “sede prioritaria per lo svolgimento delle nuove attività e la naturale evoluzione delle relazioni commerciali esistenti”.

Per quanto riguarda la delimitazione della platea dei licenziabili, il primo giudice ha considerato, sulla base delle ragioni addotte dalla società nella comunicazione di avvio della procedura, giustificata la decisione “di ritenere incompatibile con l’attuale situazione di grave criticità aziendale l’applicazione dei criteri di scelta all’intero organico aziendale”.

Ha ritenuto infondata la censura relativa al mancato rispetto della scadenza prevista dalle norma per la conclusione della procedura di consultazione sindacale, rilevando che il verbale di incontro è stato firmato alle 3,00 del giorno 22.12.2016 , ma l’inizio dell’incontro era intervenuto in tempo utile (infatti il verbale porta la data del 21.12.2016).

Ha ritenuto infondata la questione circa la dedotta violazione dei criteri di scelta nell’irrogazione dei licenziamenti, valutando che nel verbale sottoscritto in sede ministeriale in data 22.12.2016, si rinviene, dopo che le parti firmatarie hanno dato atto di “aver concluso con accordo la procedura di cui agli artt.4 e 24 della legge 223/91”, la precisazione che “il Ministero del lavoro e delle politiche sociali dichiara esperita, con accordo limitatamente all’ambito territoriale sopra indicato, la fase amministrativa della procedura di licenziamento…”, lasciando così intendere che un accordo doveva ritenersi raggiunto solo per la sede di Napoli che ha accettato di continuare a confrontarsi su alcune tematiche , elencate al punto 6, rifiutate invece dalla sede di Roma.

Ha considerato che il testo dell’accordo infatti contiene un riferimento a Napoli e pertanto sembrerebbe che solo a tale ambito territoriale debba farsi riferimento, mentre per la sede di Roma non vi è alcun accenno circa il raggiungimento di un accordo.

Il primo giudice, che ha dato atto di precedenti giurisprudenziali contrastanti in merito alla sussistenza di un accordo, ha ritenuto che, pur volendo aderire alla tesi secondo cui l’accordo era stato raggiunto solo per Napoli (con la conseguenza che la scelta dei lavoratori da licenziare non può ritenersi abbia avuto l’avallo dei sottoscrittori del citato verbale) sulla base della espletata istruttoria, con acquisizione delle dichiarazioni testimoniali rese nel proc. /2018, non era stata provata la fungibilità delle mansioni dei ricorrenti con quelle del personale addetto agli uffici romani non coinvolti nel progetto di ristrutturazione e che, in ogni caso, nessuna allegazione e prova fosse stata offerta, in presenza di fungibilità, quanto alla comparazione dei lavoratori sotto il profilo di anzianità e carichi di famiglia.

Quanto alla mancata comparazione con il personale di altre sedi, il primo giudice ha valutato che risulta confermato, anche in base all’istruttoria svolta, che l’azienda ha perseguito quello che era il progetto di riorganizzazione esposto nelle comunicazioni iniziali e in coerenza con esso e che non ha posto in essere pratiche elusive degli obblighi cui è tenuta.

Ha considerato che la scelta di limitare alle sedi interessate dagli esuberi la comparazione dei lavoratori fosse giustificata oggettivamente, in base a criteri di razionalità e ragionevolezza, sia in considerazione del numero dei lavoratori interessati (1063 posizioni di lavoro full-time equivalent, corrispondenti a un numero di 1666 lavoratori) , la cui ricollocazione, in base alla comparazione con i lavoratori delle altre sedi, avrebbe vanificato lo sforzo di riorganizzazione in atto, sia in considerazione della distanza geografica dalle altre sedi, tale da fare ritenere altamente improbabile, come si è subito rivelata, la scelta di trasferirsi nelle sedi di Milano, Rende e Catania per i lavoratori di Roma (e pur essendo stata comunque proposta dopo il licenziamento una tale possibilità ad un numero limitato di lavoratori, in quanto ciò è stato ritenuto compatibile con le esigenze aziendali).

Il Tribunale ha escluso profili di discriminatorietà in ragione dell’asserito diverso trattamento riservato ai lavoratori di Napoli e di Roma e stante la decisione di questi ultimi di non aderire agli accordi proposti e accettati dalla sede di Napoli. Con il primo motivo le parti reclamanti censurano la sentenza per avere ritenuto che fossero stati esposti nella comunicazione di avvio della procedura i motivi per i quali l’azienda non avesse preso in considerazione i trasferimenti. Assumono che il Tribunale avrebbe fatto coincidere la indicazione delle ragioni per limitare alla sede di Roma la individuazione del personale da licenziare con la esplicitazione dei motivi per i quali la società non avrebbe potuto ovviare, anche se in minima parte e per un numero di trasferimenti quantificato dalla stessa società in 75 unità, al licenziamento del personale.

Il motivo non è fondato.

Con tale motivo, che riguarda la completezza e trasparenza della comunicazione di avvio della procedura del 5.10.2016, le parti reclamanti sostengono che la società si fosse limitata a dichiarare “la propria generica disponibilità ad esaminare la possibilità di qualche trasferimento” , provvedendo poi unilateralmente a quantificare la scopertura di organico in 75 unità e richiedere solo nelle lettere di licenziamento la disponibilità dei lavoratori al trasferimento.

Osserva il Collegio che nella comunicazione di avvio della procedura del 5.10.2016, al punto 5, RRR aveva espressamente dichiarato la propria disponibilità “a valutare nel corso dell’esame congiunto l’adozione di tutte le misure organizzative (come ad esempio i trasferimenti, se compatibili con le esigenze aziendali) che consentano di fronteggiare le conseguenze sul piano sociale dell’attuazione del programma di riduzione del personale, a condizione che queste misure siano compatibili con lo scenario di grave criticità sopra descritto”. Nel contempo, si era dichiarata “disponibile a valutare l’eventuale riduzione del numero degli esuberi, ma solo a fronte di soluzioni concrete, efficaci ed effettivamente funzionali al ripristino dell’equilibrio economico aziendale”.

Tale manifestazione di disponibilità inevitabilmente presuppone la sussistenza di posizioni lavorative libere presso le altre sedi non coinvolte nella procedura, posizioni che non sono state celate dalla società reclamata, ma sono state poste come oggetto dell’eventuale esame congiunto, salvo essere la loro attuazione subordinata alla compatibilità con le esigenze aziendali.

Rese edotte di tali circostanze, le OO.SS. avrebbero dovuto verificare la possibilità di pervenire ad una soluzione concordata idonea a ridurre il numero degli esuberi ovvero quantomeno ad attenuare le conseguenze del programma di riorganizzazione e di ridimensionamento esposto nella comunicazione di avvio, essendo a ciò preordinata la procedura di cui all’art. 4 legge n. 223/1991. In realtà, risulta agli atti che la soluzione dei trasferimenti non venne mai presa in esame dalle OO.SS. nel corso dei numerosi incontri che seguirono.

Giova ricordare che, per consolidata giurisprudenza di legittimità, “la comunicazione preventiva di cui al comma 2 dell’art. 4 della legge nr. 223 del 1991, come richiamato dall’art. 24, comma 1, della stessa legge, esprime, per testuale disposizione normativa, una “intenzione” dell’impresa di procedere ad un licenziamento collettivo; essa deve contenere le indicazioni prescritte dal medesimo art. 4, successivo comma 3 e segnatamente: i motivi che determinano la situazione di eccedenza; i motivi tecnici, organizzativi o produttivi, per i quali si ritiene di non poter adottare misure idonee a porre rimedio alla predetta situazione ed evitare, in tutto o in parte, la dichiarazione di mobilità; il numero, la collocazione aziendale ed i profili professionali del personale eccedente, nonché (a seguito della modifica apportata dal D. Lgs.26 maggio 1997, n. 151, art. 1) anche del personale abitualmente impiegato; i tempi di attuazione del programma di mobilità; le eventuali misure programmate per fronteggiare le conseguenze sul piano sociale della attuazione del programma medesimo del metodo di calcolo di tutte le attribuzioni patrimoniali diverse da quelle già previste dalla legislazione vigente e dalla contrattazione collettiva. La finalità di queste indicazioni è duplice: a) quella di approntare un adeguato supporto informativo per le organizzazioni sindacali con le quali il datore di lavoro è tenuto a confrontarsi nel corso della procedura avviata con la iniziale comunicazione suddetta; ciò al fine di favorire la gestione concordata della riduzione del personale; b) quella di soddisfare un’oggettiva esigenza di trasparenza del processo decisionale che poi sfocerà nel collocamento in mobilità o nell’intimazione di licenziamenti collettivi, venendo così ad incidere in situazioni soggettive del personale dipendente. All’interesse collettivo di cui è portatore il sindacato e che è sotteso alla prima finalità, si affianca l’interesse dei singoli lavoratori i quali, pur non essendo destinatari della comunicazione di avvio della procedura, possono confidare nel fatto che il processo decisionale, che poi può condurre all’atto che li priva del posto di lavoro estromettendoli dall’azienda (collocamento in mobilità, licenziamento collettivo), ha momenti di esternazione – e quindi di oggettiva conoscibilità – di dati fattuali rilevanti per l’inquadramento e la valutazione della fattispecie” (da ultimo Cass. n. 7837/2018).

La comunicazione in questione appare rispondente a tali finalità e funzioni, atteso che espone in maniera analitica: a) i motivi della crisi che ha colpito la società; b) i negativi risultati aziendali fatti registrare nell’ultimo decennio; c) i fattori che hanno accentuato la situazione di criticità aziendale nel 2016; d) i motivi della procedura di licenziamento collettivo iniziata nel marzo 2016 e i contenuti degli accordi del maggio 2016, in base ai quali vennero revocati i programmati licenziamenti di 2988 lavoratori nelle sedi di Roma, Napoli e Palermo; e) lo stato di attuazione di tali accordi e il mancato avverarsi delle previsioni in esso contenute e in particolare: la mancata sottoscrizione da parte delle OO.SS., benché a ciò più volte sollecitate, dell’accordo aziendale per la verifica della qualità e quantità e della produttività individuale degli operatori di call center, pure identificato negli accordi del maggio 2016 come elemento fondamentale ed imprescindibile per la qualificazione dell’offerta, la progettazione dei piani formativi ed il riassorbimento degli esuberi; il mancato finanziamento, da parte delle Istituzioni locali, dei progetti formativi elaborati e presentati dall’Azienda; la mancata adozione di efficaci iniziative volte a contrastare la delocalizzazione delle attività di call center; la mancata modifica delle regole della gare a evidenza pubblica, ispirate alla politica del massimo ribasso ed aggiudicate a tariffe incompatibili con il costo del lavoro previsto dai CCNL, che aveva costretto l’Azienda a rinunciare a varie gare ovvero a impedire l’aggiudicazione di altre, che avrebbero potuto costituire una possibilità commerciale per la sede di Roma.

Non inficiano tale giudizio le deduzioni delle parti reclamanti che sembrano imputare alla società di avere taciuto nella comunicazione di avvio della procedura la presenza in organico di almeno 75 posti, scopertura desumibile dalle lettere di licenziamento nella quali la società si dichiarava disponibile “ a revocare sino ad un massimo di 75 licenziamenti nei confronti dei lavoratori che chiederanno di essere trasferiti, con effetto immediato e comunque con la decorrenza stabilita dall’azienda , presso il sito di Catania, di Rende o quello di Milano”.

Ed il rilievo della disponibilità espressa dall’Azienda, nelle lettere di licenziamento inviate ai lavoratori licenziati in servizio presso la sede di Roma, di valutare un’eventuale richiesta di trasferimento volontario per un numero limitato (75) di posizioni lavorative presso le sedi di Milano, Rende e Catania – significativamente accolta soltanto da 17 lavoratori – non costituisce circostanza che smentisce o contraddice gli esuberi dichiarati, né rende la comunicazione iniziale inveritiera o lacunosa, ma costituisce attuazione della disponibilità già manifestata in quest’ultima.

Con il secondo motivo, le parti reclamanti deducono la violazione dei criteri legali di individuazione dei lavoratori in esubero, da applicare in mancanza di accordo, ed assumendo che, nello specifico caso, tra i ricorrenti addetti agli uffici amministrativi della sede romana e gli altri impiegati della medesima sede vi fosse fungibilità di mansioni e la totale sovrapponibilità delle attività da svolgere rispetto agli addetti amministrativi delle altre sedi.

Preliminarmente, deve darsi atto che il giudice di primo grado ha ritenuto che nel verbale sottoscritto in sede ministeriale in data 22.12.2016 non sia ravvisabile la conclusione di alcun accordo sindacale relativamente alla sede di Roma e tale statuizione non è stata oggetto di impugnazione da parte della società convenuta.

Si ricorda che la giurisprudenza di legittimità ha affermato che “In tema di impugnazioni, qualora un’eccezione di merito sia stata respinta in primo grado, in modo espresso o attraverso una enunciazione indiretta che ne sottenda, chiaramente ed inequivocamente, la valutazione di infondatezza, la devoluzione al giudice d’appello della sua cognizione, da parte del convenuto rimasto vittorioso quanto all’esito finale della lite, esige la proposizione del gravame incidentale, non essendone, altrimenti, possibile il rilievo officioso ex art. 345, comma 2, c.p.c. (per il giudicato interno formatosi ai sensi dell’art. 329, comma 2, c.p.c.), né è sufficiente la mera riproposizione, utilizzabile, invece, e da effettuarsi in modo espresso, ove quella eccezione non sia stata oggetto di alcun esame, diretto o indiretto, ad opera del giudice di prime cure, chiarendosi, altresì, che, in tal caso, la mancanza di detta riproposizione rende irrilevante in appello l’eccezione, se il potere di sua rilevazione è riservato solo alla parte, mentre, se competa anche al giudice, non ne impedisce a quest’ultimo l’esercizio ex art. 345, comma 2, c.p.c. (Principio enunciato dalla S.C. ex art. 363, comma 3, c.p.c.)” (così Cass. 11799/2017).

Nel caso di specie, come già detto, la società convenuta non ha proposto reclamo avverso la suindicata affermazione del Tribunale e pertanto la questione relativa all’esistenza o meno di un accordo sindacale per i licenziamenti da effettuarsi nella sede di Roma non è oggetto di devoluzione al giudice del reclamo e non può essere esaminata nel presente grado di giudizio.

Rileva il Collegio che la delimitazione della platea dei licenziandi (cui applicare i criteri legali) agli addetti all’unità produttiva di Roma risulta legittima in considerazione dell’ambito del progetto di ristrutturazione aziendale e delle ragioni tecnico-produttive esposte nella comunicazione iniziale.

Al riguardo va rilevato che la Suprema Corte ha costantemente ammesso che una limitazione dell’ambito di applicazione dei criteri dei lavoratori da porre in mobilità è consentita in dipendenza dalle ragioni produttive ed organizzative, che si traggono dalle indicazioni contenute nella comunicazione di cui alla legge n. 223 del 1991, art. 4, comma 3, quando gli esposti motivi dell’esubero e le ragioni per cui lo stesso non può essere assorbito conducano coerentemente a limitare la platea dei lavoratori oggetto della scelta.

“In caso di licenziamento collettivo per riduzione di personale, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad un’unità produttiva o ad uno specifico settore dell’azienda, la comparazione dei lavoratori al fine di individuare quelli da avviare alla mobilità non deve necessariamente interessare l’intera azienda, ma può avvenire, secondo una legittima scelta dell’imprenditore ispirata al criterio legale delle esigenze tecnico – produttive, nell’ambito della singola unità produttiva ovvero del settore interessato alla ristrutturazione, in quanto ciò non è il frutto di una determinazione unilaterale del datore di lavoro, ma è obiettivamente giustificato dalle esigenze organizzative che hanno dato luogo alla riduzione di personale” (Cass. 19.5.2005, n. 10590).

“Qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad un’unità produttiva dell’azienda, la platea dei lavoratori interessati può essere limitata agli addetti a tale unità sulla base di oggettive esigenze aziendali e il datore di lavoro deve indicare nella comunicazione, ai sensi della L. n. 223 del 1991, art. 4, comma 3, sia le ragioni alla base della limitazione dei licenziamenti ai dipendenti dell’unità o settore in questione, sia le ragioni per cui non ritenga di ovviare ad alcuni licenziamenti con il trasferimento ad unità produttive geograficamente vicine a quella soppressa o ridotta, onde consentire alle organizzazioni sindacali di verificare l’effettiva necessità dei programmati licenziamenti” (Cass., 9.3.2015, n. 4678 e Cass. 11.12. 2012, n. 22655, nonché Cass. 11.12. 2014, n. 26104). “Occorre pertanto che l’imprenditore provveda ad una specifica illustrazione e chiara spiegazione dei motivi della chiusura di una determinata unità produttiva o della soppressione di una posizione lavorativa per esigenze tecnico-produttive e organizzative ad essa proprie, così da consentire quel proficuo coinvolgimento attivo delle organizzazioni sindacali e loro controllo nell’ambito della formazione del processo decisionale, in funzione concertativa, non certo sostitutiva della scelta datoriale” (Cass., n. 4678/2015, cit.).

Tali principi sono stati recentemente ribaditi dai Giudici di legittimità che hanno evidenziato che “la platea dei lavoratori interessati alla riduzione di personale può essere limitata agli addetti ad un determinato reparto o settore ove ricorrano oggettive esigenze tecnico-produttive, tuttavia è necessario che queste siano coerenti con le indicazioni contenute nella comunicazione di cui all’art. 4, terzo comma, legge n. 223 del 1991 ed è onere del datore di lavoro provare il fatto che giustifica il più ristretto ambito nel quale la scelta è stata effettuata. Ben può quindi il datore di lavoro circoscrivere ad una unità produttiva la platea dei lavoratori da licenziare ma deve indicare, nella comunicazione ex art. 4, comma 3, della legge n. 223 del 1991, sia le ragioni che limitino i licenziamenti ai dipendenti dell’unità o settore in questione, sia le ragioni per cui non ritenga di ovviarvi con il trasferimento ad unità produttive vicine, ciò al fine di consentire alle organizzazioni sindacali di verificare l’effettiva necessità dei programmati licenziamenti. Qualora, nella comunicazione si faccia generico riferimento alla situazione generale del complesso aziendale, senza alcuna specificazione delle unità produttive da sopprimere, i licenziamenti intimati sono illegittimi per violazione dell’obbligo di specifica indicazione delle oggettive esigenze aziendali” (Cass., 12.9.2018, n. 22178).

Dalle pronunce richiamate si evince che la scelta potrà essere effettuata all’interno della singola unità produttiva quando la riduzione dipenda da decisioni imprenditoriali che riguardano esclusivamente quella singola unità, purché le relative ragioni tecnico-produttive siano esposte nella comunicazione iniziale, onde consentire all’interlocutore sindacale di poter esercitare in maniera consapevole un effettivo controllo al riguardo. Ciò che la normativa in esame preserva è allora la finalità autenticamente informativa della comunicazione prevista dall’art. 4, comma 3, L. cit., per la corretta selezione del personale eccedente e la scelta, nel rispetto dei criteri convenzionali o legali, dei singoli lavoratori da licenziare.

Peraltro, occorre considerare che l’art. 5, comma 1, legge n. 223/1991, prima di imporre l’osservanza dei criteri di scelta, richiama le esigenze tecnico-produttive ed organizzative quale criterio per valutare il nesso di causalità tra la decisone dell’imprenditore di ridurre il personale e quella di licenziare i lavoratori entro un determinato ambito aziendale.

Pertanto, una volta identificato il contesto aziendale “in crisi”, le posizioni di lavoro da includere nella scelta devono essere quelle ad esso relative, vagliate alla luce delle esigenze anzidette, in quanto, se si allargasse la base di riferimento, tali esigenze potrebbero non sussistere.

L’ambito aziendale nel quale individuare la platea dei licenziandi può coincidere con l’intera azienda oppure con una parte di essa, ove ricorra una “localizzazione” delle esigenze aziendali manifestate e sottese, posto che tale ambito deve essere individuato in base al parametro – oggettivo – costituito dalle ragioni che hanno determinato il licenziamento collettivo.

Deve, poi, evidenziarsi che, contrariamente a quanto affermato dalle parti reclamanti, la distanza tra le unità soppresse o ridotte e quelle non interessate dal processo di riorganizzazione assume comunque rilievo posto che le ragioni per cui il datore di lavoro non ritenga di ovviare ad alcuni licenziamenti con il trasferimento in altre unità produttive, non toccate dalla programmata riorganizzazione, presuppongono che tali unità siano “geograficamente vicine a quella soppressa o ridotta” (Cass., n. 4678/2015, cit; Cass., n. 22655/2012, cit; Cass., n. 22178/2018, cit.).

Peraltro, sotto il profilo della – invocata dalle parti reclamanti – professionalità equivalente, vanno qui richiamate le pronunce della Suprema Corte che individuano nella rilevante distanza geografica tra le unità produttive un indice di “infungibilità” delle posizioni lavorative, tale da legittimare e rendere ragionevole la scelta di delimitare l’ambito della selezione alla sola unità produttiva soppressa (si veda ad es. Cass., 31.7.2012, n. 13705, che, pronunciandosi sulla legittimità di licenziamenti intimati da una società che aveva circoscritto l’ambito della selezione ad una sola unità produttiva, chiusa in quanto produceva macchinari non più richiesti dal mercato, ha ritenuto corretta tale scelta, affermando che le posizioni dei dipendenti dello stabilimento erano solo apparentemente fungibili e che la diversa collocazione geografica delle altre unità produttive – distanti non meno di duecentocinquanta chilometri – rendeva ragionevole la scelta di limitare il licenziamento all’unità che veniva chiusa).

Nel caso di specie, nella comunicazione del 5.10.2016 l’Azienda non solo ha specificamente circoscritto il progetto di ristrutturazione e ridimensionamento aziendale alle unità produttive di Roma e Napoli, esponendo le ragioni tecnicoproduttive di tale scelta (non sindacabili in questa sede), ma ha anche analiticamente indicato le ragioni che non consentivano di estendere l’ambito della comparazione al personale con mansioni omogenee impiegato presso le unità produttive non toccate da tale progetto.

Si specifica, invero, in detta comunicazione: “Si precisa sin d’ora che i criteri di scelta saranno applicati comparando il personale operante con profilo equivalente all’interno di ciascuno dei siti produttivi interessati dagli esuberi (Roma e Napoli), in ragione della chiusura totale delle Divisioni I e 2 (per quanto riguarda Roma) e dell’intero sito (per quanto riguarda Napoli).

La Società ritiene incompatibile con l’attuale situazione di grave criticità aziendale l’applicazione dei criteri di scelta all’intero organico aziendale; la distanza geografica di queste due unità produttive con gli altri alti aziendali sia quelli interessati dagli esuberi, sia gli altri renderebbe, infatti, insostenibile sul piano economico, produttivo e organizzativo l’applicazione dei criteri di scelta sull’intero organico aziendale, richiedendo dei tempi di attuazione e delle modifiche organizzative talmente complesse da compromettere il regolare svolgimento dei servizi e, quindi, finendo per aggravare ulteriormente, la situazione di squilibrio strutturale in cui versa l’azienda. Né si può obiettare che per alcune situazioni specifiche sono stati attuati trasferimenti collettivi: si tratta di misure contingenti, volte a gestire singole criticità, ben diversa da quelle che dovrebbero essere attuate nel caso in cui sì applicassero i criteri di scelta su scala nazionale.

L’impossibilità di operare una comparazione del personale a livello dell’intera azienda discende, peraltro, anche da un’ulteriore considerazione. Ciascun sito produttivo ha caratteristiche tali da rendere infungibili le risorse ivi presenti con il personale collocato presso, le altre sedi, in quanto le commesse, fatte salve le specifiche eccezioni sopra ricordate, non possono essere agevolmente spostate da un sito all’altro (e quindi da una popolazione professionale all’altra) senza l’attuazione di interventi formativi, organizzativi e logistici incompatibili con la situazione economica in cui versa l’azienda”.

Le enunciate ragioni appaiono idonee a giustificare la scelta operata, ove si consideri che l’unità produttiva più vicina a quella di Roma –dovendosi escludere, per quanto si dirà, la possibilità di ogni comparazione con quella di Napoli- era quella di Rende, che distava oltre 500 km, mentre ancora più distanti erano le altre sedi.

Tale impossibilità di comparazione dei lavoratori rispetto ai lavoratori impiegati presso le altre sedi è ravvisabile, per le ragioni esposte, anche per il personale che, come i reclamanti, non era addetto, come operatore di call center, ad una specifica commessa.

Per quanto riguarda la unità produttiva di Roma, si rileva che, alla data della apertura della procedura (5.10.2016), operavano tre distinte strutture; la Divisione 1 e 2, che svolgevano attività di call center in modalità inbound nell’ambito delle varie commesse, entrambe soppresse dal 22 dicembre 2016; la Business Unit “ Ricerche di mercato” e la Direzione generale.

Va premesso che, secondo l’orientamento della Corte di Cassazione, in tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, qualora il progetto di ristrutturazione aziendale si riferisca in modo esclusivo ad un’unità produttiva o ad uno specifico settore dell’azienda, la platea dei lavoratori interessati può essere limitata agli addetti ad un determinato reparto o settore solo sulla base di oggettive esigenze aziendali, in relazione al progetto di ristrutturazione aziendale. Tuttavia poiché ai fini della corretta applicazione del criterio delle esigenze tecnico- produttive dell’azienda, previsto dalla L. n. 223 del 1991, art. 5, per l’individuazione dei lavoratori da licenziare, la comparazione delle diverse posizioni dei lavoratori deve essere effettuata nel rispetto del principio di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., il datore di lavoro non può limitare la scelta dei lavoratori da porre in mobilità ai soli dipendenti addetti a tale reparto se detti lavoratori sono idonei – per pregresso svolgimento della propria attività in altri reparti dell’azienda – ad occupare le posizioni lavorative di colleghi addetti ad altri reparti con la conseguenza che non può essere ritenuta legittima la scelta di lavoratori solo perché impiegati nel reparto operativo soppresso o ridotto, trascurando il possesso di professionalità equivalente a quella di addetti ad altre realtà organizzative (v. Cass. 13783/2006, 22824/2009, 22825/2009, 9711/2011; 22672/2018).

Il primo giudice ha valutato, sulla base delle dichiarazioni rese dal teste ***, che alle soppresse Divisioni 1 e 2, destinate ad attività di call center inbound, erano adibiti anche i business manager e i team leader; che stato coinvolto nel licenziamento anche il personale di staff che svolgeva attività strettamente connessa alle due Divisioni, occupandosi, in relazione degli operatori call center, di “rilevazione presenza, gestione assenze, trasmettevano il flusso delle presenze per le lavorazioni dei cedolini, gestivano maternità, infortunio e tutto quello che era connesso alla gestione dei rapporti di lavoro, reportistica varia”.

La teste *** ha dichiarato che, oltre alla B.U., «sono rimaste nella sede di Roma, nella Direzione Generale, ove vi è personale che ha un raggio di azione su tutte le sedi di RRR, una segretaria di Presidenza, il Presidente e l’Amministratore Delegato, la sottoscritta, il responsabile IT e Servizi Generali; poi ci sono due persone che si occupano di fatturazione di tutti i clienti su tutti i siti operativi; e poi c’è un pool di risorse umane (4 persone) che si occupano, l’uno di svolgere valutazioni del potenziale (psicologo del lavoro), le altre di progetti formativi, attivando *** e *** l’uno relativo al personale dipendente, l’altro al personale dirigente; redigono policy e fanno attività di supporto a tutti i siti”.

Le mansioni svolte dai reclamanti non erano certamente comparabili con quelle del personale della B.U. Ricerche di mercato alla quale, come riferito dalla teste Pallotta, erano addetti «tre ricercatori, laureati in statistica o in economia» che svolgono «analisi statistiche, impostare i disegni di campionario di ogni singola indagine o di ricerca, elaborare gli indicatori di valutazione, …utilizzando le loro competenze altamente specialistiche».

Il Tribunale ha valutato, con motivazione con la quale le parti reclamanti non si confrontano, sulla base dell’esame delle testimonianze raccolte ( testi ***, ***, ***) che, in relazione alle posizioni dedotte in ricorso come fungibili ed operanti presso la sede di Roma, per quanto riguarda *** e *** impiegati di VII livello presso l’ufficio Direzione di Centro, che tali impiegati “ non fossero assimilabili né per mansioni né per livello ai lavoratori licenziati, né a coloro che lavoravano all’ufficio “ risorse umane” della divisione 1 e 2 e che si occupavano, come indicato in ricorso, di semplici questioni amministrative e di gestione del personale, ma sotto la guida di un responsabile (***), né a quelli che erano addetti all’ufficio “ gestione operativa” e seguivano le commesse assegnate alle divisioni oggi soppresse, né tanto meno alla BBB che rivestiva la qualifica di quadro e aveva la responsabilità di commesse”.

Per quanto riguarda gli altri impiegati ***, *** e ***, Tribunale ha considerato che “seppure abbiano un livello comune a quello di alcuni degli opponenti, le mansioni da loro svolte sono assolutamente differenti, essendo emerso che la prima si occupa di formazione in qualità di responsabile, gli altri due di “fatturazione”, attività non meglio identificata ma che nessuno degli opponenti ha allegato di avere svolto, né- deve evidenziarsi- si rinvengono in ricorso elementi di valutazione , oltre alle indicazioni circa il livello, circa una possibile comparazione ai fini della fungibilità”.

Il Tribunale , con riferimento alle figure di ***, addetta alla segreteria del presidente di IV livello, e di ***, V livello le cui mansioni non sono state chiarite dai testi, ha valutato che “ parte opponente descrive perfettamente le mansioni svolte dai lavoratori licenziati, ma non descrive assolutamente quelle svolte dai lavoratori rimasti in sede e con i quali chiede la comparazione, limitandosi ad allegare in grandi linee il contenuto dei compiti degli uffici con i quali si chiede la comparazione, ad occupare le posizioni lavorative dei colleghi addetti”.

Il Tribunale ha altresì ritenuto che non fosse emersa “una prova concreta della pregressa adibizione e della formazione di un bagaglio professionale in altri reparti degli odierni opponenti( v. dichiarazioni dei testi sopra riportate); l’adibizione a ricerche di mercato e ad altre commesse, se vi è stata, appare risalente nel tempo e genericamente riferita a “ colleghi” dal teste *** non individuati”.

Tale passaggi motivazionali, su cui si basa la decisione dal Tribunale (il quale ha considerato, per taluni reclamanti, anche il diverso livello di inquadramento, quale indice presuntivo di infungibilità) in ordine alla non comparabilità della posizione dei reclamanti con quella degli impiegati addetti ad uffici non soppressi, non sono censurati in modo specifico dai reclamanti, che ripropongono nell’atto di reclamo la descrizione dei propri compiti senza denunciare una erronea o carente valutazione delle prove testimoniali e allegare, a sostegno della dedotta fungibilità, elementi che consentano, per le singole posizioni, una revisione del giudizio espresso.

Sono da ritenersi inammissibili le deduzioni delle parti reclamanti in merito alle risultanze istruttorie in quanto riportate, tardivamente, nelle note depositate nel giudizio di reclamo.

Non sono fondati i rilievi riproposti nell’atto di reclamo circa la prova della dedotta fungibilità per la mancata contestazione, da parte della società, della circostanza che “ al momento del recesso vi erano molti dipendenti con mansioni fungibili agli odierni ricorrenti e che con essi non erano stati messi al ballottaggio”. Il primo giudice ha considerato al riguardo che “in mancanza di compiuta allegazione nel senso sopra specificato non può richiamarsi nemmeno la pretesa non opposizione di parte opposta , la quale può valere nei limiti delle allegazioni in fatto presenti nell’atto, che nel caso di specie riguardano solo le mansioni svolte dagli opponenti e i livelli rivestiti da loro e dai lavoratori con i quali si chiede la comparazione”.

Tale motivazione non è stata specificamente censurata e si conforma alla giurisprudenza di legittimità secondo cui l’onere di specifica contestazione, nelle controversie di lavoro, dei fatti allegati dall’attore, previsto dall’art. 416, comma terzo, cod. proc. civ., al cui mancato adempimento consegue l’effetto dell’inopponibilità della contestazione nelle successive fasi del processo e, sul piano probatorio, quello dell’acquisizione del fatto non contestato ove il giudice non sia in grado di escluderne l’esistenza in base alle risultanze ritualmente assunte nel processo, presuppone la allegazione dei fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda, e si riferisce ai fatti materiali che integrano la pretesa sostanziale dedotta in giudizio, e non si estende, perciò, alle circostanze che implicano, come nel caso in esame in cui si discute della fungibilità di mansioni, un’attività di giudizio ( Cass. 2007 n. 11108).

Per quanto riguarda la comparazione con il personale della sede di Napoli, rispetto alla quale i reclamanti deducono la insussistenza di ragioni legate alla distanza tra le unità produttive, va considerato che si tratta di personale coinvolto nella medesima procedura e, quindi, escluso da ogni comparazione.

Va considerato, inoltre, come ritenuto dal primo giudice, che, per quanto riguarda i lavoratori della sede di Napoli, era intervenuto un accordo con le sigle sindacali nel corso della trattativa, conclusosi con verbale del 21.12.2016 che sospendeva i licenziamenti in cambio dell’impegno a trattare su questioni ritenute rilevanti dall’azienda, tra cui il recupero di efficienza e produttività ed il costo del lavoro.

I reclamanti censurano la sentenza impugnata per aver escluso il carattere discriminatorio del recesso datoriale.

I reclamanti deducono, infatti, la circostanza per cui il licenziamento collettivo intimato sarebbe derivato dal rifiuto dei lavoratori della sede di Roma di sottoscrivere l’accordo del 22.12.2016.

Osserva al riguardo la Corte che l’accordo del 21/22.12.2016 – significativamente qualificato “verbale di accordo” – frutto dell’incontro degli esponenti della parte pubblica e della società, delle OO.SS. nazionali SLC CGIL, FISTEL CISL, UILCOM UIL e UGL Telecomunicazioni, della “rappresentanza delle strutture sindacali territoriali e delle RSU nonché rappresentanza delle Istituzioni locali delle Regioni Campania e Lazio”, sottoscritto da tutti i presenti – ad esclusione della RSU di Roma – ha avuto ad oggetto la possibilità di accettare da parte dei lavoratori misure alternative anche volte ad incidere sfavorevolmente nella loro sfera giuridica, al fine di evitare il licenziamento.

Tale possibilità è espressamente prevista dall’art. 4, della l. 223/1991 il quale, al comma 5 sancisce che, a seguito della ricezione della comunicazione di avvio della procedura di licenziamento collettivo, le rappresentanze sindacali aziendali e delle rispettive associazioni possano richiedere di procedere “ad un esame congiunto tra le parti, allo scopo di esaminare le cause che hanno contribuito a determinare l’eccedenza del personale e le possibilità di utilizzazione diversa di tale personale, o di una sua parte, nell’ambito della stessa impresa, anche mediante contratti di solidarietà e forme flessibili di gestione del tempo di lavoro.”

All’esito infruttuoso di tale tavolo di confronto, segue pacificamente l’inizio della procedura di licenziamento collettivo (diritto del datore di lavoro, insindacabile nel merito): contrariamente a quanto sostenuto da parte reclamante, dunque, l’eventuale fallimento di un’intesa tra le parti non configura la causa del successivo licenziamento collettivo, ma – per espressa previsione legislativa – l’avvio della procedura di mobilità è diretta conseguenza dell’accordo mancato.

L’aver operato in tal senso, da parte della società datrice di lavoro, non può configurare un comportamento dettato da intento discriminatorio e punitivo dei lavoratori della sede di Roma, posto che il comma 9 dello stesso art. 4 prosegue aggiungendo che “Raggiunto l’accordo sindacale ovvero esaurita la procedura di cui ai commi 6, 7 e 8, l’impresa ha facoltà di licenziare gli impiegati, gli operai e i quadri eccedenti, comunicando per iscritto a ciascuno di essi il recesso, nel rispetto dei termini di preavviso.” I licenziamenti sono stati dunque l’effetto della conclusione della procedura disciplinata dall’art. 4 legge n. 223/1991 mediante verbale di accordo. Allorché le RSU romane hanno rifiutato la prosecuzione del confronto, hanno accettato il prodursi degli effetti del verbale di accordo e la conseguente applicazione immediata dei criteri legali per la gestione degli esuberi sulla sede di Roma.

Alla luce di queste premesse, appare difficile, in un contesto nel quale assume un deciso rilievo anche la forza contrattuale delle parti e l’intervento di mediazione affidato alla parte pubblica, poter qualificare minaccia di un male ingiusto il fatto che il datore, dimostratosi disposto a rinunciare al suo diritto di licenziare in cambio della disponibilità dei lavoratori ad accettare misure alternative ad essi sfavorevoli, proceda, poi, al licenziamento in caso di rifiuto.

Né è ravvisabile alcun intento discriminatorio o illecito: è evidente, piuttosto, che i lavoratori addetti alla sede di Napoli non subirono la sorte toccata agli operatori romani proprio in virtù della disponibilità mostrata dalle relative RSU alla sottoscrizione dell’accordo. Il “verbale di accordo” sottoscritto in data 21/22.12.2016 da RRR e dalle varie OO.SS. nelle diverse articolazioni presenti al tavolo negoziale, compresa la RSU di Napoli, prevedeva, in sostanza, una “moratoria” dei licenziamenti programmati per l’intero sito partenopeo sino al 31.3.2017, entro il quale le “parti assumevano formale impegno, con il supporto e la vigilanza del Governo, a proseguire utilmente il confronto al fine dell’individuazione di soluzioni di carattere strutturale in tema di applicazione in sede aziendale delle disposizioni di cui all’articolo 4 della legge n. 300/1970, recupero di efficienza e produttività in grado di allineare la sede di Napoli alle altre sedi aziendali, intervento temporaneo sul costo del lavoro” (punto 6). Durante il periodo di “moratoria”, gli addetti alla sede di Napoli avrebbero fruito della CIGS, che sarebbe stata anticipata dalla società (punti 2,3, 4 e 11). Qualora entro tale termine le parti non avessero trovato un accordo sui temi anzidetti, queste convennero che l’Azienda avrebbe potuto dare luogo ai licenziamenti, senza, quindi, dover attivare una nuova procedura (punto 7).

Qualora, invece, l’accordo fosse stato raggiunto – come, poi, è avvenuto in data 28.2.2017 – all’Azienda era fatto obbligo di non procedere ai licenziamenti previsti dalla procedura in corso (punto 8).

Non si comprende quindi come si possa ipotizzare un intento discriminatorio ovvero ritorsivo, imputabile alla società RRR, per opinioni espresse da rappresentanti sindacali, da un lato fondato su elementi di fatto insussistenti al momento del rifiuto della sottoscrizione del verbale di accordo; dall’altro per un effetto (licenziamento) che trova la sua legittimazione nel completamento della procedura. Ne consegue che i licenziamenti anche dei reclamanti non costituiscono l’esito, come prospettato, del diniego delle RSU a sottostare a ricatti o accordi vessatori del datore di lavoro, ma sono l’effetto della conclusione della procedura ex art. 4 legge n. 223/1991, sia per Roma che per Napoli, con la differenza che per Napoli sarebbe stato possibile ancora un confronto finalizzato alla “individuazione di soluzioni di carattere strutturale” negli specifici temi elencanti al punto 6 dell’accordo, mentre per Roma è stata rifiutata tale possibilità in ragione della mancata sottoscrizione delle RSU romane.

A ciò si aggiunga che la nullità del licenziamento discriminatorio – che esclude la necessità di un motivo illecito unico e determinante e che non può essere esclusa dalla concorrenza di un’altra finalità, pur legittima, diversamente dall’ipotesi del licenziamento ritorsivo – discende direttamente dalla violazione di specifiche norme di diritto interno, quali l’art. 4 della L. n. 604/66 e 15 della L. n. 300/70 (licenziamento per motivi di credo politico, fede religiosa, appartenenza ad un sindacato, per motivi di sesso, di razza o di lingua) o da norme d diritto europeo, quale quelle di cui alla direttiva n. 76/207/CEE sulle discriminazioni di genere (v. Cass. sent. n. 6575 del 2016), ipotesi non ravvisabili nel caso di specie; nella diversa evenienza del licenziamento ritorsivo o illecito – da escludersi nella fattispecie in esame per tutte le considerazioni sopra esposte – la concorrenza di altra legittima finalità esclude, invero, la nullità del licenziamento, dovendo il motivo illecito e ritorsivo essere l’unico e determinante della risoluzione del rapporto di lavoro, così come evidenziato dal giudice di primo grado.

Alla stregua delle riportate circostanze, il Collegio ritiene di dover confermare sul punto la decisione del Giudice dell’opposizione, poiché non ravvisabile nell’intimato licenziamento alcun intento discriminatorio o punitivo.

Il reclamo, conclusivamente, superata la necessità di esame delle altre questioni poste, deve essere respinto.

La presenza di precedenti giurisprudenziali di segno difforme nonché la complessità della vicenda e delle questioni connesse giustificano la compensazione delle spese processuali.

In considerazione del tipo di pronuncia (rigetto), si dà atto che sussistono le condizioni oggettive richieste dall’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115/2002 per il versamento dell’ulteriore importo del contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso.

P.Q.M.

Rigetta il reclamo; compensa le spese;

Dà atto che sussistono le condizioni richieste dall’art. 13, comma 1 quater, del d.p.r. n. 115/2002 per il versamento dell’ulteriore importo del contributo unificato, pari a quello dovuto per l’impugnazione.

Roma, 21.4.2020

Il Presidente estensore

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